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Il cavallo di Brunilde si chiama Grane (cfr. Richard Wagner, Il crepuscolo degli dèi). Nomen Omen? Noi speriamo di no...
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Nessuno parlò mai di un qualche lato oscuro della personalità del compositore.
Il direttore d'orchestra Kent Nagano, che lavorò a stretto contatto con Messiaen nei suoi ultimi anni, una volta venne messo sotto torchio per raccontare qualche aneddoto poco lusinghiero o per altri versi rivelatore del suo mentore, e tutto quello che riuscì a pescare fu la storia di come una volta Messiaen e Yvonne Loriod avessero divorato un'intera torta di pere in un'unica seduta. (...)
"L'accordo perfetto, l'accordo dominante, l'accordo di nona non sono teorie ma fenomeni che si manifestano spontaneamente intorno a noi e che non possiamo negare, " disse una volta Messiaen." La risonanza esisterà finchè avremo orecchie per ascoltare ciò che ci circonda". (...)
Messiaen credeva che l'orecchio potesse, e dovesse, assorbire sia le note prossime che quelle remote - sia le rassicuranti risonanze degli intervalli fondamentali che le oscure relazioni tra gli armonici più acuti. (...)
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il castello di Isabella Morra a Valsinni (qui ) |
" Confessò di amare profondamente Isabella, o almeno la sua leggenda. E come Isabella prima di lui, Rosario era una sorta di prigioniero di questo castello.
Ci spiegò che Isabella di Morra fu la prima femminista italiana, una delle scrittrici più famose di tutti i tempi e una poetessa e studiosa del XV secolo, il cui padre le aveva insegnato a leggere Dante e Plutarco all'età di sei anni. Purtroppo, però, aveva un branco di fratelli ignoranti e orribili (...).
Quando suo padre fu esiliato a Parigi dai sovrani aragonesi della Basilicata, Isabella rimase triste e sola nella sua bella prigione, in quella campagna lussureggiante e, nelle giornate più limpide, contemplava il mar Ionio. (...) Rosario recitò a memoria la descrizione di Isabella.
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" ... Come gli sentirono dire queste cose, lo presero tutti per pazzo; e per meglio sincerarsene, e rendersi conto di che genere di pazzia fosse il suo, Vivaldo tornò a chiedergli che cosa s'intendesse in realtà per cavalieri erranti. - Non hanno letto lor signori - rispose don Chisciotte - gli annali e le storie d'Inghilterra in cui sono trattate le gesta del re Arturo, che noi comunemente nel nostro volgare castigliano chiamamo il re Artù, intorno al quale esiste in tutto il regno di Gran Bretagna l'antica leggenda che quel re non sia morto, ma che per virtù di incantesimo si sia convertito in corvo, e che col volgere degli anni dovrà ritornare a regnare, riconquistando il suo regno e lo scettro? Tant'è vero che da quel tempo ad oggi non si troverà un solo inglese che abbia ucciso mai un corvo."
da Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes Ed. Einaudi
Riporto uno scritto di Giuliano pubblicato sul suo blog, giulianocinema, Buona lettura!
A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) Regia di Stanley Kubrick Sceneggiatura: Stanley Kubrick, dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess Fotografia: John Alcott Montaggio: Bill Butler Scenografia: John Barry Arredamento: Russell Hagg, Peter Sheilds Costumi: Milena Canonero Musica: Rossini, Beethoven, Purcell, e altri Interpreti: Malcolm McDowell (Alex), Patrick Magee (lo scrittore), Adrienne Corri (moglie dello scrittore), Michael Bates (capo delle guardie), Anthony Sharp (ministro dell'Interno), Godfrey Quigley (cappellano della prigione), Warren Clarke (Dim), Miriam Karlin (la signora dei gatti), Paul Farrell (il vagabondo), Philip Storie (padre di Alex), Sheila Raynor (madre di Alex), Aubrey Morris (signor Deltoid), Carl Duering (dottor Brodsky), Steven Berkoff (poliziotto), David Prowse (Julian), Michael Tarn (Pete) Durata: 137 minuti
Henry Purcell (1659-1695) è il più grande musicista inglese, ed uno dei più grandi in assoluto. E’ sua la musica con la quale si apre “A Clockwork Orange”, il film di Stanley Kubrick girato nel 1972. Il suo nome non compare nei “credits” del film, dove viene invece riportato quello di Walter Carlos che si è limitato ad arrangiare la musica di Purcell. Henry Purcell ci ha lasciato molta musica, per nostra fortuna: musica strumentale e per coro, canzoni bellissime anche per la scelta dei testi (raccomando l’ascolto di “Music for a while”, giusto per nominarne una sola) raccolte alla sua morte sotto il titolo “Orpheus britannicus”. E poi scrisse molto per il teatro, per un genere che non è propriamente l’opera lirica come la intendiamo di solito, ma una via di mezzo tra il teatro recitato, l’opera vera e propria, il balletto, e qualsiasi altra cosa, alternando comico e drammatico, possa fare teatro e divertire il pubblico. E’ la continuazione del “mask”, genere teatrale tipicamente inglese, radicato in varie forme fin dai tempi di Shakespeare: per esempio in “The fairy queen” la Regina delle Fate compare per davvero, ma ha gran parte il Poeta, che appare ubriaco cantando: “I am drunk, boys, I am drunk, as I live, drunk...”. In “King Arthur” ci sono re Artù e i cavalieri, ma l’aria più famosa è l’aria del Gelo, il freddo invernale imitato dall’orchestra e dal canto del basso solista in una scena che è rimasta unica nella storia della musica. E in “Dido and Aeneas”, il suo capolavoro, appare l’eroe troiano e la regina cartaginese ha un’aria meravigliosa, ma streghe e fantasmi rubano la scena.
Henry Purcell ebbe molto a che fare con la famiglia reale inglese: e per la morte della regina Mary, moglie di Guglielmo III, scrive il brano scelto da Kubrick: “Music for the funeral of Queen Mary”, la cui marcia introduttiva è mescolata con l’antico tema del “Dies Irae”, un tema impressionante che Kubrick riprenderà anche in Shining, sempre con l’aiuto di Carlos. Il tema del dies irae è davvero molto antico e risale alla musica sacra liturgica; fu trascritto per la prima volta da Tommaso da Celano, un frate che fu discepolo e biografo di san Francesco d’Assisi. Viene dalla “Messa di Requiem” in latino e il testo si riferisce al giorno del giudizio: ”Dies irae, dies illa, solvet saeclum in favilla, teste David cum Sibylla...”. E’ un tema forte ed impressionante, che percorre tutta la storia della musica e che si può ascoltare, per fare due esempi famosi, in Berlioz (Sinfonia fantastica) e in Liszt (Totentanz).
La marcia funebre di Purcell, fusa con il dies irae e mixata da Walter Carlos, si ascolta in quattro momenti: 1) titoli di testa 2) a 1h35’, nell’incontro di Alex con gli ex drughi ora diventati policemen 3) a 1h21’ con la donna nuda nel “test” per vedere se la cura ha funzionato, cui segue la discussione filosofica tra il Ministro e il Cappellano su libero arbitrio e autodifesa. 4) a 1h57’, senza dies irae e in arrangiamento leggero, con Alex in via di guarigione dopo la caduta dal tetto dello scrittore.
“Le donne di Dublino hanno un aspetto divino”, canta il barbone, quando comincia il film. “Un vecchio sporco e ubriaco che canta le canzonacce care ai suoi padri”, come dice Alex. Si tratta di una famosa canzone irlandese, "Molly Malone": "In Dublin's fair city, where girls are so pretty...".
Walter Carlos è stato uno dei pionieri nell’uso “leggero” del computer in musica. C’erano stati in precedenza anni e anni di sperimentazione, da parte di musicisti importanti come Bruno Maderna e Luigi Nono, nei “laboratori di fonologia”; ma è alla fine degli anni ’60, con l’invenzione del sintetizzatore di suoni, il moog e il mellotron (che imitava gli archi dell’archi dell’orchestra) che nasce il successo di quello che oggi è un banale mezzo casalingo, e che invece quando uscì “Arancia Meccanica” era una novità epocale: il computer in musica. Kubrick era un grande appassionato di musica, e sempre attento alle novità della tecnica: quando si è rivolto a Carlos è facile immaginare che gli abbia fatto delle richieste esplicite, molto mirate: usare la grande musica ma senza usarla. Per questa storia di violenza non ci possono essere Beethoven, Purcell e Rossini in persona, ma dei loro simulacri. Walter Carlos svolge benissimo il suo compito, e – se ci fate caso - durante le scene di violenza non ascoltiamo mai Beethoven, ma il sintetizzatore di Carlos, o una voluta storpiatura della grande musica.
Gioacchino Rossini (1792-1868) non ha bisogno di presentazioni, almeno lo spero; in ogni caso è facile reperirle su qualsiasi enciclopedia. E’ l’autore del “Barbiere di Siviglia”, della “Cenerentola” e di molte altre opere, buffe oppure serie (“Mosè in Egitto”, “Guglielmo Tell”...). Ma “La Gazza Ladra” non è un’opera buffa, è una commedia con risvolti molti drammatici, che riguarda la pena di morte. Al tempo in cui viveva Rossini, prima dell’unità d’Italia, in molti posti vigeva ancora la pena di morte, anche per reati da poco come il furto di argenteria. L’opera racconta quindi un fatto vero, anche se incredibile: una ragazza condannata a morte perché creduta ladra, in balia del terribile Podestà. Ci sarà un lieto fine, quando si scoprirà il nido della Gazza. L’ouverture dalla “Gazza Ladra” è famosissima, e Claudio Abbado sostiene che sarebbe perfetta come inno italiano (se solo avesse un titolo diverso...). Kubrick la usa in diversi momenti del film: all’inizio, dopo il pestaggio del barbone, nella scena dello stupro nel teatro (stupro che non avviene, la ragazza riesce a fuggire perché i suoi aggressori vengono distratti dall’arrivo di Alex e dei suoi: questi maschi preferiscono le scazzottate al sesso). “La Gazza Ladra” continua fino all’arrivo nella villa dello scrittore, dove si interrompe: la scena successiva dello stupro e della violenza è senza musica, fatta eccezione per Alex che canta “Singing in the rain”. Alla ripresa, c’è ancora Carlos con Purcell. Al minuto 31, “La Gazza Ladra” torna nella scena in cui Alex pesta i suoi che gli si stavano ribellando e li getta in acqua, e prosegue nella scena dell’irruzione in casa della donna dei gatti.
Ancora di Gioacchino Rossini è l’ouverture dal “Guglielmo Tell”. E’ un brano molto lungo, dura quasi un quarto d’ora; qui se ne ascoltano due estratti, il famoso “galoppo” e il solo di violoncello che precede il temporale. Si ascolta per la prima volta nella scena con le due ragazze a casa di Alex, minuto 24: ma è molto accelerata e caricaturale, come tutta la scena. Al minuto 44, nel penitenziario, brevemente il solo di violoncello. A 1h28’ ancora il violoncello per Alex respinto dai genitori, prima nell’appartamento poi sul ponte fino all’incontro col mendicante.
Edward Elgar (1857-1934) è uno dei grandi musicisti inglesi del Novecento. L’Inghilterra, dopo Purcell, non ha avuto grandissimi musicisti; hanno adottato Haendel, che di nascita era tedesco e che deve molto all’Italia, ma per avere dei grandi musicisti davvero inglesi abbiamo dovuto aspettare Elgar, Britten, Vaughan Williams...
Di Elgar Kubrick sceglie il brano più famoso, “Pomp and Circumstance”: marcia n.1 e marcia n.4. Al minuto 58, nel carcere, dopo il colloquio con il cappellano, e ancora a 1h05’, il dottor Brodskij e la visita al carcere del Ministro degli Interni. Elgar è di solito un compositore molto sobrio e misurato, enigmatico; ma questo brano è diverso dalla sua solita produzione, ed è diventato quasi un secondo inno nazionale. E’ usato con evidenti fini caricaturali, ed è curioso notare il profluvio di ritratti di Beethoven durante la visita del Ministro nella cella di Alex, proprio mentre scorre la musica (peraltro bellissima) di Elgar.
Al minuto 53, nella scena in cui Alex in carcere si immagina come centurione romano , ascoltiamo brevemente la Sheherazade di Nikolaj Rimskij-Korsakov (solo di violino) . Rimskij-Korsakov (1844-1908) è un compositore fondamentale nella storia della musica, maestro di orchestrazione di un’intera generazione di musicisti, da Stravinskij ad Ottorino Respighi.
Di Ludwig van Beethoven (1770-1827) tutto sommato ascoltiamo poco: quasi sempre c’è di mezzo Walter Carlos, e io direi che è una scelta voluta. Kubrick sceglie di non far ascoltare davvero Beethoven, anche perché sarebbe stato difficile rendere nel film l’idea originale del romanzo di Anthony Burgess (le opinioni di Burgess su questo film e sulla violenza in genere sono qui nell’archivio del blog). Carlos storpia la marcia turca (dal quarto movimento della Nona di Beethoven) per l’incontro con le ragazze al minuto 24, nel negozio di dischi: il testo di Schiller, in origine cantato da un tenore e qui reso inintelligibile, recita: “Froh, wie seine Sonnen fliegen durch des Himmels prächt’gen Plan; Laufet, Brüder, eure Bahn, Freudig, wie ein Held zum Siegen” (“Felici, così come volano i suoi Soli attraverso le magnifiche piane del Cielo: così, fratelli, seguite il vostro cammino, gioiosamente, come un eroe alla vittoria”).
In quello che segue, una parte dell’Ouverture dal Guglielmo Tell di Rossini corre a velocità caricaturale, così come le immagini, in una scena famosissima e molto divertente .
La Nona Sinfonia si sente bene, senza distorsioni o storpiature, solo quando Alex è a casa sua e mette una cassetta (dal minuto 18), che termina quando Alex esce dalla sua stanza, la mattina dopo. Prima, al bar, un soprano aveva cantato “Alle Menschen werden brüder”, “Che tutti gli uomini diventino fratelli” (inizio del quarto movimento della Nona Sinfonia) e Alex aveva pestato duramente il suo compagno che aveva detto “basta, ma che cos’è questa roba”.
Il campanello dello scrittore, nella scena in cui ritorna Alex prima del finale, suona le prime tre note dalla Quinta (che non è la Nona, attenzione!). A 1h53’, Beethoven ancora distorto, questa volta dall’amplificazione esagerata: la Nona usata contro Alex dallo scrittore. Prima dei titoli di coda ascoltiamo il finale della Nona Sinfonia, con il Coro, non distorto.
Ed è Walter Carlos, e non Beethoven, durante il filmato dei nazisti a 1h12’: una finezza di Kubrick, perché due minuti dopo Alex si ribella e grida: “E’ un delitto usare Ludwig van Beethoven a quel modo! Lui non ha mai fatto del male a nessuno!” Purtroppo, è storicamente vero che i nazisti usarono ripetutamente per i loro scopi la musica di Beethoven (il cantore della fratellanza), e anche di Anton Bruckner (l’uomo più mite del mondo). E’ una cosa tristissima, che purtroppo si ripete spesso – e i musicisti non possono più difendersi, così come non può difendersi Giuseppe Verdi dall’uso improprio che si fa oggi, in alcune sedi, del “Va pensiero” (oltretutto scandito e gridato e non cantato con dolcezza, un peccato gravissimo che grida vendetta dal Cielo).
“Singing in the rain”, scritta da Arthur Freed e Nacio Herb Brown, dal film di Stanley Donen (1952) è cantata da Gene Kelly nei titoli di coda, e da Malcolm Mc Dowell in due momenti del film: due momenti molto diversi, ma sempre nella casa dello scrittore.
Al minuto 52, in carcere, ascoltiamo un inno al Redentore.
Terry Tucker (Overture to the sun) ed Erika Eigen (I want to marry a lighthouse keeper) pubblicarono dei dischi nel 1969, dai quali sono tratti i due brani, ma di loro non sapevo niente e ho fatto una breve ricerca su internet. Suppongo che della Tucker sia la musica in stile medievale a 1:18 durante gli insulti ad Alex per vedere se la cura ha funzionato, però potrei sbagliarmi (e poi c’è anche la musica delle scene dei film che Alex è obbligato a vedere). Ho trovato su internet un sito dove il disco di Terry Tucker, un lp del 1969 intitolato “Sounds of Sunforest”, è valutato la bellezza di 140 dollari: per chi fosse interessato...
Invece la canzone della Eigen è chiaramente ascoltabile a 1:24, quando Alex torna a casa dopo la cura e trova un inquilino al suo posto. “I want to marry a lighthouse keeper” è una canzone piuttosto semplice (ne ho trovato il testo intero su internet) che parla di una ragazza che vuole sposare un guardiano del faro, e che dopo lo aiuterà a tenere la luce accesa. Una metafora molto chiara, e probabilmente anche un doppio senso da cogliere.
Alla lista della musica, per quanto mi riguarda, aggiungo la voce di Romolo Valli (la più bella voce del cinema italiano), che doppia il Ministro degli Interni e che purtroppo qui si sente poco, mentre in Barry Lyndon è il narratore nella versione italiana.
Ma, soprattutto, “Arancia Meccanica” è il trionfo della forma. Ogni volta che rivedo il film rimango colpito dalla sua simmetria, che immagino cercata e voluta. Non è una simmetria “generica”, ma rispecchia la forma sonata, come fu codificato da Haydn a metà del Settecento:
1)Esposizione: primo tema, nella tonalità principale. Ponte o transizione. Secondo tema, alla dominante o al relativo maggiore. Gruppo cadenzale conclusivo.
2)Parte centrale: sviluppo tematico di elaborazione del primo tema, talvolta del secondo.
3)Ripresa: ritorno del primo tema, nella tonalità principale. Ponte. Ripresa del secondo tema, nella tonalità principale. Gruppo cadenzale, pure nella tonalità principale.
4) Coda (facoltativa)
(da: Breve storia della musica, di Massimo Mila)
E’ abbastanza facile identificare i vari “temi”, nella storia di Alex: temi che verranno ripresi, con variazioni, nella seconda parte del film. In mezzo c’è qualcosa come un Adagio, o un Andante: il carcere e la cura. Le Sonate non hanno queste dimensioni, non durano due ore e passa, e per questo la simmetria può sfuggire; però va detto che sia Burgess che Kubrick erano appassionati di musica, e questa struttura non è certamente casuale.
Aggiungo che questo non è un film che rivedo volentieri. E’ un film violento, del quale si è discusso molto; però basta mettersi dalla parte delle vittime, assumere la visuale dello scrittore quando è a terra, e tutto prende un altro significato. Invece viene spontaneo assumere la visuale di Alex, e anche questa è una bella domanda sulla quale dovremmo meditare.
Ieri ho sfilato dal posticino in cui era stato sistemato almeno 10 anni fa, un cd acquistato in Irlanda e, scorrendo la lista dei brani essenzialmente di tradizione celtica, un titolo mi ha riportato a uno scritto di Giuliano che voglio qui riproporre. Giuliano trovò una relazione tra un passo tratto dall' Evgenij Onegin di Pushkin, un passo de "La linea d'ombra di Conrad" e infine il testo della canzone che ieri ho ascoltato e che poi ho scoperto essere in realtà una poesia di Yeats, Down by the Salley Gardens.
Ripropongo di seguito il post di Giuliano, pubblicato sul suo blog, Deladelmur
Ho conosciuto la voce d'altri desideri,
ho conosciuto la nuova tristezza;
per i primi non ho speranze,
e per le vecchie tristezze ho pietà.
O fantasie ! Dov'è la vostra dolcezza?
dov'è la giovinezza, ritmo eterno ?
è proprio vero che dunque, alla fine,
io sono appassito, e appassita è la sua corona?
E' vero, proprio vero,
che senza elegiache illusioni
è fuggita la primavera dei miei giorni
( cosa ch'io ripetevo finora scherzando ) ?
Ed è proprio vero ch'essa non ha ritorno?
Vero proprio che presto avrò trent'anni ?
...
Così è giunto il mezzodì, e debbo
confessarmi, lo vedo io stesso
...
e tu, ispirazione giovanile,
agita la mia immaginazione,
rianima il sonnecchiante cuore,
vieni più spesso al mio cantuccio,
non lasciar raffreddare l'anima del poeta,
fa' che essa non sia crudele, non si irretisca,
non si pietrifichi infine,
nell'incanto distruttore del mondo,
fra i gelidi superbi,
fra gli sciocchi brillanti,
...
fra i figli astuti, pusillanimi,
folli e male avvezzi,
tra i delinquenti e i ridicoli, noiosi,
ottusi e faccendieri giudici,
tra le civette baciapile,
tra i servi volenterosi,
tra le scene quotidiane alla moda,
i tradimenti rispettosi, garbati,
tra i verdetti gelidi
della crudele vanità,
tra la vuotaggine dispettosa
dei calcoli, dei pensieri e delle convenzioni,
in quel vortice, insomma,
dove con voi io nuoto adesso,
amici cari !
...
Beato chi è stato giovane da giovane
beato chi è maturato a tempo,
chi gradualmente il freddo della vita
ha saputo sopportare con gli anni;
chi non s'è abbandonato a sogni strani,
chi non s'è fatto estraneo al volgo mondano ...
(Pushkin, Evgenij Onegin, cap. 6-8,ed. Sansoni, traduzione di Ettore Lo Gatto)
Solo i giovani hanno di questi momenti. Non parlo dei giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. E' il privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezioni. Uno chiude dietro di sè il piccolo cancello della mera fanciullezza ed entra in un giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta l'umanità ha percorso quella strada. Ma si è attratti dall'incanto dell'esperienza universale da cui ci si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po' di se stessi. Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene ed il male insieme - le rose e le spine, come si dice - la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi le merita o, forse, a chi ha fortuna. Sì. Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d'ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.
Questo è il periodo della vita che può portare i momenti ai quali ho accennato. Quali momenti? Momenti di tedio, di stanchezza, di scontento. Momenti d'irriflessione. Parlo di quei momenti nei quali i giovani sono propensi a commettere atti inconsulti, come sposarsi all'improvviso o rinunziare ad un'occupazione senza motivo. Questa non è la storia di un matrimonio. Non mi andò così male. Il mio atto, per quanto avventato, ebbe più il carattere di un divorzio, quasi di una diserzione. Senza una ragione plausibile per una persona di buon senso, piantai il mio lavoro - abbandonai il mio posto - lasciai il bastimento del quale non si sarebbe potuto dire altro di peggio che era un bastimento a vapore e che, perciò, non esigeva quella cieca fedeltà che... Ma è inutile voler giustificare quello che io stesso anche allora immaginai che fosse un po' un mio capriccio. (...)
(Joseph Conrad, inizio di “La linea d’ombra”)
Down by the Salley Gardens
(Words: W. B. Yeats, 1889. Tune: Maids of the Mourne Shore, Trad.)
It was down by the Sally Gardens, my love and I did meet.
She crossed the Sally Gardens with little snow-white feet.
She bid me take love easy, as the leaves grow on the tree,
But I was young and foolish, and with her did not agree.
In a field down by the river, my love and I did stand
And on my leaning shoulder, she laid her snow-white hand.
She bid me take life easy , as the grass grows on the weirs
But I was young and foolish, and now am full of tears.
Down by the Sally Gardens, my love and I did meet.
She crossed the Sally Gardens with little snow-white feet.
She bid me take love easy, as the leaves grow on the tree,
But I was young and foolish, and with her did not agree.
(edizione consigliata: innanzitutto Kathleen Ferrier, ( qui )e poi John Mac Cormack) ( qui ) ( qui la traduzione )
Ascolto l'Eugenio Onieghin di Pushkin, nella versione messa in musica da Ciaikovskij, e non posso non rimanerne ancora colpito. Eppure non è la prima volta che ascolto quest'opera, dovrei essermi abituato; ma è un po' l'effetto che fa la Bohème di Puccini, che credi di sapere già tutto e magari anche di esserne stufo, e invece mi sorprende sempre e mi trovo ad essere commosso. Di che cosa parla l'Eugenio Onieghin? Del tempo che passa, e che non torna più; e delle diverse strade che la vita ci mette davanti. La scelta, il più delle volte, spetta a noi: ma non sempre sappiamo individuare la strada giusta.
Evgenij Onegin è un giovane ufficiale russo, di quelli dei primi dell'Ottocento. Di lui si innamora Tatiana, che è poco più che una bambina; lei gli scrive una lettera, ma lui non le risponde nemmeno, ha ben altro per la testa. Ma passa poco tempo e Tatiana è ormai una giovane donna; per lei Eugenio litiga col suo migliore amico, Lenski. I due si sfidano a duello, e Lenski muore. Nel finale, Tatiana è una donna sposata; ad un ricevimento, Eugenio la incontra dopo molto tempo e scopre di esserne perdutamente innamorato. Ma ormai è tardi.
Credo poi che siano in pochi a conoscere davvero “The shadow line” di Conrad: il titolo di questo libro è stato talmente copiato e inflazionato che ha finito per perdere significato, ed è un peccato gravissimo. “La linea d’ombra” e “The end of the tether”, tradotto spesso con “Al limite estremo”, sono i libri dove Conrad parla del primo lavoro, del primo comando di una nave (il mestiere di Conrad, capitano su una nave mercantile) , delle prime responsabilità. Alle volte ci sono ostacoli incomprensibili sul nostro cammino, non riusciamo a capacitarci di quello che succede, ed è facile sbagliare (come capita in “Lord Jim”) oppure rinunciare e accontentarsi di qualcos’altro.
E infine “Down by the Salley Gardens”, una melodia bellissima sui versi di Yeats, che racconta l’incontro di un giovane con una ragazza; un incontro che non avrà seguito e che lascerà un grande vuoto nel ricordo: ancora l’Eugenio Onieghin.
Erano i tempi in cui la sera giravo per le vie intorno a Nybroplan con un agnello in braccio.
Me lo ricordo perfettamente. Era arrivata la primavera. L’aria era secca e come polverosa. La sera era fresca, ma conservava ancora il tiepido profumo del giorno: profumo di terra e delle foglie morte dell’autunno scaldate dal sole. L’agnello belava spaurito mentre attraversavo la Sybillegatan.
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Da "Works" ( edizione ampliata ) di Vitaliano Trevisan
" In più, anzi soprattutto, ed è un altro comune fraintendimento, si crede, anzi si dà per scontato, che chi scrive voglia comunicare, abbia cioè un qualcosa, un oggetto, che ha necessità di essere comunicato, ovvero, volendo parlare con lingua diritta, di essere venduto; e ancora, procedendo nella addizione, in negativo, si dà per scontato che il vero oggetto che l’autore vuole comunicare, al di là dell’oggetto libro e attraverso esso, sia in realtà l’autore medesimo. Anche questo è, purtroppo, del tutto normale, ma, in questo caso, qualcosa da aggiungere forse c’è. Comunicazione!, parola chiave dei tempi nostri attorno a cui ruota un insieme di rispettabili professionisti che fanno della contraffazione semantica una scienza. Se i cosiddetti "professionisti della comunicazione" comunicassero in modo semplice e chiaro non avrebbero alcuna ragione d’essere; lo stesso per i vari corsi di laurea, più o meno specialistici, e anche essi proliferanti, in scienze della comunicazione, dove tutto si insegna meno che a comunicare in modo chiaro e diretto, semmai il contrario. Ne escono giovani mostri addestrati a complicare e a manipolare il linguaggio, qualsiasi linguaggio, in modo tale che, allo stato attuale, ogni vera genuina umana conversazione, ovvero una pratica di relazione non contaminata dal germe della comunicazione, che non voglia perciò sempre necessariamente imporre (vendere) all’altro un oggetto, una verità, una sensazione, un’opinione, una visione del mondo eccetera, dove chi parla o scrive, voglia semplicemente esprimersi, è ormai praticamente impossibile, a partire da quella con se stessi. Non c’è dunque di che stupirsi se, nella produzione libresca, degli ultimi ultimi decenni, il novecentesco (cosiddetto) "flusso di coscienza" sia stato sostituito da quell’insopportabile, insostenibile, illeggibile "flusso di comunicazione", oltretutto interiore. Comunicare se stessi a se stessi, cioè vendersi e comprarsi da sé! Spesso inconsciamente. Altrettanto spesso consciamente. Più spesso ancora, come per un sacco di altre cose, si sa ma ci si rifiuta di sapere. Ci basti dire, per chiudere con questa triste e penosa digressione, che allo stato attuale lo scrivere, il pubblicare, l'andare in scena eccetera, non sono affatto un fine, ma un mezzo, uno degli elementi che concorrono a una più complessa e per definizione, subdola strategia di comunicazione, ovvero di marketing, di cui l’autore, che si crede un marchio, è un marchiato, è al tempo stesso oggetto e soggetto. La critica, quando non addormentata, non aiuta, anzi al contrario, si affanna a fabbricare adeguate teorie che arrivano al punto da considerare la strategia di vendita, ovvero il packaging artistico intellettuale, spessissimo disgustosamente corretto (prugna?), come opera in sé, trasformando così il contenitore in contenuto. Del resto, in un’epoca quale la nostra, in cui tutto si trasforma inesorabilmente in merce, non deve stupire che anche per le teorie letterarie artistiche esista un florido quanto asfittico mercato."
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(fonte dell'immagine) |
Da "Album di famiglia" di Ernesto Ferrero Giulio Einaudi editore
" Pensa con le mani", diceva l'editore, beato. Il mago sorvola la materia, la solleva in volo. I vuoti, gli spazi, i bianchi, valgono anche più dei pieni. Vuole creare intorno all'oggetto il cuscinetto d'aria che lo fa respirare, che lo solleva da terra. (...)
Riporto di seguito uno scritto di Giuliano ( pubblicato tempo fa sul suo blog, "deladelmur") dedicato a Claudio Monteverdi.
A scuola ho avuto un buon insegnante di lettere, ma i programmi delle scuole sono quello che sono, e lo sappiamo tutti. Ti fanno disamorare di Leopardi, per esempio; e tacciono del tutto su poeti straordinari. Per fortuna, dopo il diploma (perito chimico) non ho più avuto obblighi di esami o interrogazioni, ed ho potuto sfogarmi. Il mondo dell'opera, per esempio, mi ha portato a scoperto straordinarie: Lorenzo Da Ponte e i suoi libretti per Mozart, ma anche quello che Ranieri de' Calzabigi scrisse per Gluck.
Andando ancora più indietro nel tempo, Monteverdi. Nei madrigali di Monteverdi ho trovato Tasso e Petrarca, ma anche tanti altri dei quali ignoravo l'esistenza, come quell'Alessandro Striggio che scrisse per lui l'Orfeo. Ma, per esempio, e per citare un poeta che ben difficilmente troverete nei libri scolastici, cosa può dire un innamorato sotto il balcone dell'amata che lo ha abbandonato per un uomo ricco e potente ? Se è in un'opera di Monteverdi, questo: ( qui per l'ascolto )
E pure io torno qui, qual linea al centro,
qual foco a sfera, e qual ruscello al mare,
e se ben luce alcuna non appare
ah, so ben io che sta il mio sol qui dentro.
Caro tetto amoroso,
albergo di mia vita e del mio bene,
il passo e 'l cor ad inchinarti viene.
Apri, apri un balcon, Poppea,
col bel viso in cui son le sorti mie,
previeni, anima mia, precorri il die.
Sorgi, e disgombra homai
da questo ciel caligini e tenebre
con il beato aprir di tue palpebre.
Sogni, portate a volo
su l'ali vostre in dolce fantasia
questi sospir alla diletta mia.
(aria di Ottone, da L'incoronazione di Poppea ) (versi di Francesco Busenello )
Purtroppo, è ancora molto diffuso il vizio di affidare quest’aria a falsettisti più o meno intonati, rendendo così poco più che una curiosità questa musica meravigliosa. Si ascolta “l’uomo che canta con la voce da donna” e si perde del tutto il senso del discorso: si finisce per considerare tutta l’opera lirica come un’inutile bizzarria, per non dire altro. Ricordo invece bellissime esecuzioni di questa melodia ad opera di voci femminili (per esempio Bernadette Manca di Nissa, che la cantò alla Scala negli anni ’90), purtroppo introvabili. Il vero rimpianto, però, è Tito Schipa: che l’avrebbe cantata magnificamente, come nessun altro al mondo, con voce di tenore.
PS: i concetti esposti all’inizio, “qual foco a sfera, e qual ruscello al mare”, sono di origine matematica e alchemica. Monteverdi era figlio di un medico e farmacista, e nel ‘500 il confine tra alchimia, chimica, medicina e farmacia era ancora molto labile. Si tratta comunque di immagini rare e affascinanti, anche solo ad una semplice lettura: la ricchezza della poesia e della letteratura di quel tempo (si pensi all’Ippogrifo dell’Ariosto) oggi ci sembra strana ed esagerata, e io direi che succede perché il nostro immaginario, svilito prima dalla tv commerciale e poi dal 3D e dai videogames, è ormai ridotto a ben poca cosa.
Giuliano Bovo
I film di animazione, come gli haiku, brevi ma densi, possono suggerire tante cose. Ad essere rappresentata qui è la storia di un riccio che si perde nella nebbia.
E' un'opera di Jurij Borisovič Norštejn
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fotogramma di Salmonberries |
Dal racconto "Nella grande solitudine" in Le civette impossibili di Brian Phillips
Colin aveva un modo fascinosamente bizzarro di continuare a guardarti negli occhi pur morendo di imbarazzo per il fatto di essere osservato - lo stesso che potrebbe avere tua cugina dark quindicenne. E' una cosa che ho notato più volte negli abitanti delle zone remote dell'Alaska, la sensibilità totale e indifesa nei confronti degli sconosciuti. Era come se l'isolamento avesse impedito loro di rendersi insensibili alla presenza degli altri. Quando cammini per strada a Manhattan riesci magari a intuire che ogni persona che incroci è una costellazione di memorie e sensazioni vasta e unica quanto quello che hai dentro tu, ma è impossibile apprezzarlo davvero, una persona dopo l'altra: diventeremmo pazzi. Vivere tra la folla ci anestetizza all'effetto dei volti. La terra incognita di ogni sguardo, come la chiamava Saul Bellow. Ma se ti fai due passi nell'Alaska remota, anche solo per comprarti un sacchetto di patatine al negozio del paesino, spesso la reazione che ottieni è tipo: SALVE, VASTO E TERRIFICANTE COSMO DELLA PERSONALITA'. I varchi sono spalancati.