giovedì 29 settembre 2016

Heine e le lucertole di Lucca


Le lucertole, con le loro codine intelligenti e con i loro occhietti penetranti, mi hanno raccontato cose meravigliose mentre mi arrampicavo solitario tra le rocce dell'Appennino. Infatti ci sono cose tra cielo e terra che non solo i nostri filosofi, ma nemmeno il più semplice degli sciocchi può arrivare a comprendere. Le lucertole mi hanno raccontato che tra le pietre circola una leggenda secondo la quale Dio un giorno si farà pietra per salvarle dalla loro durezza. Una vecchia lucertola era però dell'opinione che questa petrificazione sarebbe avvenuta solo dopo che Dio si fosse incarnato in ogni specie animale e vegetale e le avesse redente tutte. Solo poche pietre sono capaci di sentimento, ed esse respirano solo al chiaro di luna. Queste pietre si rendono conto della loro condizione e sono terribilmente infelici. Gli alberi sono più fortunati: possono piangere. Gli animali sono più fortunati ancora perché possono parlare, ognuno a suo modo, e gli uomini meglio di tutti gli altri. Un giorno, quando il mondo intero sarà redento, anche a tutte le altre creature verrà concesso di parlare, come in quelle epoche remotissime cantate dai poeti.
 Le lucertole sono una razza ironica e si beffano volentieri degli altri animali. Ma con me furono gentilissime, sospirarono con sincerità e mi raccontarono la storia dell'Atlantide, che io trascriverò un giorno ad edificazione del mondo intero. Si stabilì una grande dimestichezza tra me e quelle bestiole che sono quasi gli archivisti degli annali segreti della natura. Forse esse sono famiglie di sacerdoti stregati, come quelle dell'antico Egitto che vivevano come le lucertole in grotte labirintiche spiando i segreti della natura. Sulle loro testoline, sui piccoli corpi e sulle code fioriscono segni meravigliosi come sugli egizi berretti fitti di geroglifici e sulle vesti degli ierofanti.
I miei piccoli amici mi hanno insegnato un linguaggio mimico per mezzo del quale posso parlare con la natura muta: e questo mi solleva spesso l'anima, specie verso sera quando i monti sono avvolti di ombre dolci e paurose e le cascate scrosciano e tutte le piante mandano i loro profumi, e intorno guizzano rapidi lampi. Natura, vergine muta! Capisco il tuo lampeggiare, il vano tentativo di parole che trema sul tuo bel viso, e tu mi commuovi così profondamente da farmi piangere. Ma anche tu mi capisci, ti rassereni e mi sorridi con i tuoi occhi dorati. Vergine bella, io capisco le tue stelle e tu capisci le mie lacrime.
(Heine ironizza sul concetto di Schelling che la Natura sia "intelligenza pietrificata")
Heinrich Heine, da "La città di Lucca", tratto da "Reisebilder - Impressioni di viaggio", ed. De Agostini 1981, traduzione di Vanda Perretta)

martedì 27 settembre 2016

L'equipaggio della regina Mab





illustrazione di John Fray
Benvolio, Romeo e Mercuzio si chiedono in che modo introdursi nella  festa che Capuleti ha dato e tra i cui invitati figura Rosalina, la donna amata dal giovane Montecchi prima di incontrare Giulietta. Romeo è inquieto, ha un presentimento cattivo, ha fatto un sogno...

Romeo : Stanotte ho fatto un sogno.

Mercuzio: Anch'io.

Romeo: Ebbene, che cosa hai sognato?

Mercuzio: Che coloro i quali sognano, spesso sono messi in mezzo

Romeo: In mezzo alle coltri, e sognano delle cose vere.

Mercuzio: Ah! Allora, lo vedo, la regina Mab è venuta a trovarti.
Essa è la levatrice delle fate, e viene, in forma non più grossa di un agata
all'indice di un anziano, tirata da un equipaggio di piccoli atomi, sul naso degli uomini, mentre giacciono addormentati.
I raggi delle ruote del suo carro son fatti di esili zampe di ragno;
il mantice di ali di cavallette,
le tirelle del più sottile ragnatelo;
i pettorali di umidi raggi di luna,
il manico della frusta di un osso di grillo,
la sferza di un filamento impercettibile;
il cocchiere è un moscerino in livrea grigia,
grosso neppure quanto la metà del piccolo insetto tondo,
tratto fuori con uno spillo dal pigro dito di una fanciulla.
Il suo cocchio è un guscio di nocciola,
lavorato dal falegname scoiattolo o dal vecchio verme,
da tempo immemorabile carrozzieri delle fate.
In questo arnese essa galoppa da una notte
all'altra attraverso i cervelli degli amanti,
e allora essi sognan d'amore; sulle ginocchia dei cortigiani,
che immediatamente sognan riverenze;
sulle dita dei legulei, che subito sognano onorari,
sulle labbra delle dame che immantinente sognano baci,
(…)
Lei è la strega, che quando le fanciulle giacciono supine,
le preme, e insegna loro per la prima volta a portare,
e ne fa delle donne di buon portamento.
Essa è colei...

Romeo: Taci, taci, Mercuzio, taci!
tu parli di niente.

Mercuzio: E' vero, io parlo dei sogni,
che sono figli di un cervello ozioso,
generati da nient'altro che da una vana fantasia,
la quale è di una sostanza sottile come l'aria,
e più incostante del vento, che in questo momento carezza
il gelido grembo del settentrione, e, corrucciato,
se ne va via sbuffando, e volta la faccia
verso il mezzogiorno stillante di rugiada

dall' Atto I , scena IV  di Romeo e Giulietta   di William Shakespeare
traduzione di C.Chiarini   ed. Sansoni

domenica 25 settembre 2016

L'uomo rana del Bramantino


Alla Pinacoteca Ambrosiana, appena aperta dopo un lungo restauro, perso tra le meraviglie che vi sono esposte, rimango a un certo punto perplesso davanti a un quadro del Bramantino, questo qui sotto.

Ha un titolo, "Madonna delle Torri", e risale al 1505-1519 (data incerta, ma è già tanto saperla con approssimazione). Sono perplesso perchè mi chiedo che cosa ci faccia una rana a pancia in su nell'angolo a destra; solo molto tempo dopo Primo Casalini mi spiegherà che il rospo con sembianze umane è una rappresentazione del demonio sconfitto. Rana o rospo che sia, traviato forse da un'antica passione per le scienze naturali, non riesco a capire come una rana possa essere demoniaca. Passi per il serpente, ma la rana? Allora, abbandono per un momento le mie conoscenze attuali e provo a mettermi nei panni di una persona dell'inizio del 1500. Siamo prima della nascita di Galileo, ben prima di Newton e di Carl von Linné; Charles Darwin sarebbe arrivato trecento anni dopo il quadro del Bramantino. Tutto questo per tacere di Lavoisier, di Mendeleev, di Bohr e Planck, di Crick e Watson, e quant'altro ancora. Un rospo, sì, il rospo delle streghe; il rospo, o magari il ranocchio, in cui viene tramutato il principe delle fiabe... Comincio a capire, ma il ranocchio a pancia in su continua a sembrarmi buffo e sconveniente, piuttosto che demoniaco: un rospo ubriaco, magari, ubriaco perso come il poeta in "The Fairy Queen" di Henry Purcell.

venerdì 23 settembre 2016

Ottimo Massimo e Cosimo di Rondò



illustrazione di Roger Olmos ( dettaglio )
Ottimo Massimo è il bizzarro e simpatico cane che Italo Calvino mette accanto all’altrettanto eccentrico Cosimo, barone di Rondò. Ottimo Massimo, con la sua visione da  bassotto, è il naturale complemento di Cosimo. Il cagnolino guarda le cose dal basso, Cosimo le guarda dall'alto. Insieme possono mettere meglio a fuoco ciò che sta nel mezzo..

Cosimo è un originale, si mantiene fedele solo al proprio codice interiore. Sale un giorno sugli alberi e diviene  “Barone rampante”: mai più toccherà il suolo; si riscatta in questo modo dalla limitata visione dei bipedi e dai tanti vincoli derivanti dalla umana condizione d'essere.
“ Stando in alto” Cosimo può accorgersi di cose che, chiuso in una dimensione ristretta, non avrebbe potuto notare  ( “... Se innalzi un muro, pensa a ciò che resta fuori...” ).
L’orizzonte di Cosimo si allarga ulteriormente grazie alla lettura, per cui egli nutre un’autentica passione, e ai contatti con la gente che incontra. 

mercoledì 21 settembre 2016

Rane


Samuel Beckett scrive il romanzo "Watt" (da leggersi anche come "What?") nel 1945, e lo pubblica nel 1953 in Francia. Il riassunto, peraltro del tutto inutile, lo prendo da wikipedia:
Suddiviso in quattro parti, descrive il viaggio del protagonista, Watt, verso e nella casa del signor Knott, dove diventa il domestico solitario del padrone e sostituisce Arsene che pronuncia un lungo monologo d 'addio alla fine della prima parte. Nella seconda, Watt si sforza di trovare senso alla vita nella casa del signor Knott, avendo provato una grande preoccupazione durante la visita degli accordatori di pianoforte Galls, padre e figlio, e tra altri episodi, per un contenitore misteriosamente resistente alle lingue. Nella terza parte (narrata da un certo Sam) Watt è in reclusione, la sua voce mascherata oltre il limite dell'identificazione, mentre il racconto parte per tangenti fantastiche come la storia del resoconto di Ernest Louit al comitato della vecchia università di Beckett, il Trinity College a Dublino, su un viaggio di ricerca nell'Irlanda occidentale. La quarta parte è la più breve e mostra Watt che arriva in una stazione ferroviaria da dove, nella distorta cronologia del romanzo, si mette in viaggio verso il ricovero che ha già raggiunto nella terza parte.

Ma poi consiglio subito di andare a leggersi il libro, si fa un po' fatica ma ne vale la pena: per esempio per ritrovare queste magnifiche rane.
(Samuel Beckett, Watt - pag.140 ed.Sugarco 1994, traduzione Cesare Cristofolini)
(avrei dovuto trascrivere tutto come si deve, lo so; ma la paura di fare errori nella partitura mi ha consigliato la scansione della pagina) (facendo clic si legge tutto meglio, i musicisti potranno divertirsi a ricreare il ritmo)
(la vignetta è della Settimana Enigmistica, un po' taroccata però)

martedì 20 settembre 2016

Il pettirosso gigante


illustrazione di Dino Buzzati
La storia è autentica, benchè apparentemente inverosimile. Un pettirosso si invaghì per l'appunto della Domenica Assunta la quale era fidanzata con un bravo giovane di Pedavena. Quando vennero celebrate le nozze, l'infelice volatile, magnificato dall'impossibile amore, assunse all'improvviso dimensioni mastodontiche e con le gigantesche ali planò nella piazza centrale di Feltre all'arrivo del
corteo. Dopodiché, tra lo sbigottimento degli astanti, afferrò dolcemente la giovane con le zampe e la trasse a volo verso il gruppo dolomitico di Cimonega, ripromettendosi forse di depositarla in qualche recondito abituro. Senonché, essendo intervenuta Santa Rita, chiamata dai parenti della sposina, il ciclopico uccello depositò con la massima cura su un tenero pascolo l'oggetto del suo amore, riacquistò le dimensioni normali di pettirosso e non si fece più vedere.

Dino Buzzati

da I Miracoli della Val Morel , ed. Oscar Mondadori  ( info )

lunedì 19 settembre 2016

Cicale



Ancora un'altra sera estiva al manicomio di Lucca; le cicale in massa gridano a non si sa chi.
(Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, pag.60 ed. Oscar Mondadori 1967)


Siamo all'otto luglio. Le cicale anche di qui, dall'ingresso dove ora abito invece che nell'altra stanza che sulle cicale sovrastava, mi chiamano e con più familiare dolcezza come mi volessero dire di sperare ancora, che tanto lo so bene che c'è Dio.
(Mario Tobino, come sopra, pag.116)



(la cicalona è un design originale di Elsa Schiaparelli)

domenica 18 settembre 2016

Gatti e amanti

La Lella ha dunque due gatti, uno nero e uno bianco. Prima erano piccoli, di nido, e la Lella li trattava come bambini, ma in pochissimi mesi son diventati giovanotti e la notte stanno fuori di casa ritornando stanchi al mattino, e, dopo aver mangiato, sdraiati in un angolo della cucina, o ravvolti in se stessi sopra una sedia, dormono ore e ore. Da quando son giovanotti come tali la Lella li tratta, con bonomia, consapevole che la legge della natura vuole così; la mattina la si sente esclamare mentre ritornano: «Avete fatto nottata!» e già ha preparato il latte in una scodella. Ma perché i due gatti non vadano troppo distanti a ricercare le gatte, la Lella prepara da mangiare anche alle amanti.
(Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, pagg.85-86 ed.Oscar Mondadori 1967)



(non sono riuscito a trovare il nome di chi ha fatto questo disegno, mi dispiace molto)

sabato 17 settembre 2016

Inventario


Mario Tobino era un medico, primario di psichiatria dagli anni '30 fino agli anni '60. "Le libere donne di Magliano" racconta la vita quotidiana nel manicomio nei pressi di Lucca

La gran novità è la civetta. Il dottor Oliviero, che è cacciatore, ha portato alla Lella, perché gliela allevi, una giovane civetta, che ora trionfa in cucina dentro una gabbia fatta di ramuscoli verdi intrecciati. Così abbiamo, nel reparto medici, diretto inflessibilmente dalla malata Lella:
due gattini (uno bianco e uno nero);
i garofani (gelosamente custoditi);
Fido, il cane dello stesso dottor Oliviero (che però è il festosissimo ospite di solo dieci giorni ogni tre o quattro mesi);
Cecco, il merlo del dottor V. (però ospite solo d'estate, quando il dottor V. va in ferie e porta Cecco alla Lella perché lo custodisca);
una cagna (ospite saltuaria), nera e lucida, forse di buona razza, che ogni sera alle sette viene a mangiare il cibo che la Lella nascostamente le ha preparato in un angolo del giardino;
e ora la civetta, stabile, superba e indifferente. La Lella, che si riempie il cuore di trilli con queste bestie, già l'ha abituata a beccare delicatamente la carne che le viene offerta nel palmo della mano.
Ci sono poi dei gatti saltuari e oscuri, ed anzi, più precisamente, delle gatte, amanti dei due nostri gatti, alle quali la Lella prepara da mangiare dentro un chioschetto con la speranza che i nostri gatti avendo le amanti sotto la finestra non vadano a passare la notte lontano.
(Mario Tobino, Le libere donne di Magliano  pag.56-57 ed. Oscar Mondadori 1967)

(Mario Tobino in una foto dai suoi libri)

venerdì 16 settembre 2016

Gatti e topi lucchesi

Qui siamo in campagna e spesso si vedono correre topi di diversa misura. Oggi mentre ero sdraiato sul letto mi sono sentito vellicare la nuca. Era successo che stanotte mi ero svegliato perché un topino frugava e gli ho dato la caccia, anche con la granata, ma senza successo. Sdraiato sul letto, sentendo il vellichio non me ne sono curato rifiutando di indulgere alle suggestioni. Ma dopo un poco proprio sotto la testa ho udito un grazioso pigolio e mi son detto: «E' lui», infatti ho sollevato il guanciale e subito dopo l'ho ricalato e compresso perché c'era, un topino piccolo e gentile. Ho stretto i due guanciali che nascondevano il topino e sono riuscito ad arrivare alla porta, e fuori li ho aperti; il topino è caduto in terra ed è corso via; per un po' l'ho lasciato correre poi, ricordandomi l'irritazione notturna, l'ho ucciso, con un po' di ribrezzo.
Suor Giacinta mi ha promesso che stasera alle otto mi porterà la gattina della Giuffré, una malata che ha una gatta affezionatissima, dal pelo nero lustro con una chiazza bianca per metà muso. Ho pensato di mettere la gatta nella cucina che c'è dopo il mio andito e rinchiuderla. Vedremo se ci starà o se non diverrà una diavolessa per sentirsi serrata.

(ore otto) Mi hanno portato la gattina, c'era suor Giacinta, una infermiera e la Giuffré con la gattina spaventata in braccio. C'era un'aria come la portassero, eccitate, a fecondare. Suor Giacinta, poiché pioveva, per attraversare il giardino esposto al cielo ha rannicchiato le ali della cornetta e ha detto a chi le offriva l'ombrello: «No! no! domani è domenica e me la cambio!» ed è fuggita via sotto l'acqua; era ritornata fanciulla. La gattina ora è di là, sola, in cucina, spaurita; le ho lasciato la luce accesa. Si è nascosta nella penombra tra l'acquaio e i fornelli. La Lella, quando è venuta a portarmi il caffè e gliel'ho fatta vedere ha esclamato gelosa che era più bello il suo gatto, quella "bestiaccia" invece faceva paura.
Se stanotte sento il brusichio di un topo, libero la gatta e vediamo se, da desiderosa di fuggire, improvvisamente attenta si mette a cacciare come successe quella volta col gatto della Lella che, piccolo Napoleone, in un attimo fece prigioniero il topino.

(Mario Tobino, Le libere donne di Magliano, pagg.128-130 edizione Oscar Mondadori 1967)

(la gatta è di Inogaki Tomoo)

giovedì 15 settembre 2016

La cicala e la formica


La storia della cicala e della formica è molto antica, da Esopo (620-560 aC) fino a Jean de La Fontaine (1621-1695) e fino ai nostri giorni; è così conosciuta da essere diventata proverbiale; a me piace e sulla sua morale sono completamente d'accordo. Eppure, ci sono degli errori: la realtà è questa, le formiche non fanno scorte e la cicala ha una vita lunghissima di cui noi vediamo solo l'ultima parte.
Le formiche consumano tutto quello che raccolgono, e d'inverno vanno in una specie di letargo, o di ibernazione; sono parenti delle api, in quanto imenotteri, ma non producono niente di simile al miele e nei formicai d'inverno non sono mai state trovate scorte alimentari. Le cicale, dal canto loro (esistono molte varietà di cicale) hanno una vita lunghissima sottoterra, alcune specie arrivano addirittura ai sette, tredici e perfino diciassette anni nello stato di larva, o di ninfa, o come volete chiamarla; l'adulto, alato, vive poi per poche settimane, ma nel complesso bisogna prenderne atto, la cicala vive molto più della formica.
La vita sotterranea della cicala, e la sua metamorfosi finale in adulto alato e capace di volare, rimanda a miti antichissimi, Euridice, Proserpina, anche la nostra stessa vita potrebbe essere così (ma a noi non è dato saperlo). La formica ha un ciclo vitale inverso: una breve vita da insetto alato, un volo nuziale, e poi la morte (per i maschi) o una lunga vita sotterranea (le regine) senza mai più vedere la luce del sole. Dietro tutto questo, c'è la Natura con il suo ciclo ininterrotto, la trasformazione continua della materia, e anche noi umani non siamo esenti da questa sorte.

La poesia di Lafontaine la metto qui nell'originale francese, la storia è nota e anche chi non sa il francese (come me) può arrivare a capire.
La Cigale, ayant chanté
Tout l'été,
Se trouva fort dépourvue
Quand la bise fut venue :
Pas un seul petit morceau
De mouche ou de vermisseau.
Elle alla crier famine
Chez la Fourmi sa voisine,
La priant de lui prêter
Quelque grain pour subsister
Jusqu'à la saison nouvelle.
"Je vous paierai, lui dit-elle,
Avant l'Oût, foi d'animal,
Intérêt et principal. "
La Fourmi n'est pas prêteuse :
C'est là son moindre défaut.
Que faisiez-vous au temps chaud ?
Dit-elle à cette emprunteuse.
- Nuit et jour à tout venant
Je chantais, ne vous déplaise.
- Vous chantiez ? j'en suis fort aise.
Eh bien! dansez maintenant.


mercoledì 14 settembre 2016

Il corso topigno della vita




Laggiù a casa, secondo l'uso d'un cento anni fa, molti soffitti erano di tela. Cioè, intendiamoci, erano ad antiche travate, ma rozze per lo più e irregolari; donde che, per coprire quelle brutture e d'altra parte risparmiare le spese di cassettatura ( bella parola in fede mia, non però peggiore di "evidenziazione" o dello scioglilingua "competitività" ), si ricorreva a tele, appunto; le quali poi, incartate, potevano venire più o meno vagamente dipinte. E, com'è ovvio, tale disposizione comportava una sorta di intercapedine tra le travi sbilenche e la faccia superiore della tela medesima. Col che siamo al punto che ci interessa.


In questa intercapedine i topi menavano al ruzzo la loro prole. Dove meglio avrebbero potuto? Lì non giungevano gatti nè insidie umane nè insidie meteorologiche nè luci pregiudizievoli agli occhietti bianchi e alquanto ripugnanti dei topini di nido.

E quegli esserini erano tanto felici della loro tregua spaziale e forse temporale, che nei loro giochi rendevano rumore ossia pesta di ginneti, pesta rossiniana. Cavalleria di topi. Di solito si udiva innanzi tutto un piccolo tonfo che corrispondeva, penso, al salto del topino da qualche buco un po' elevato sul piano della tela, o forse alla sua caduta in seguito a spintone della genitrice; cui tenevano dietro numerosi altri tofi del genere e da ultimo, come nelle sagre paesane, un "colpo scuro" corrispondente al salto materno.

Dopo di che, principiava una galoppata generale, che in particolari giorni molto umidi o troppo caldi poteva diventare frenetica: finchè non si spegneva, ritirandosi topi grandi e piccini pel sonno nei loro quartieri diurni, con qualche rumore inverso o antagonistico rispetto a quelli descritti.

Ecco, e tutto questo affascinava stranamente me bambino: quasi avessi presentito o meglio scoperto per mio conto il "corso topigno della vita " di cui un celebre poeta iperboreo.


Tommaso Landolfi

( da " La cavalleria dei topi" in Diario perpetuo ( qui ) ed. Adelphi pp. 334-335)


( topinho e topinha sono mamozzi di Giuliano )

martedì 13 settembre 2016

Mosche




Così ogni uomo, prima o dopo, prova invidia della mosca, che ha davanti a sè tutta l'estate.
(Samuel Beckett, Watt; pag.169 ed.Sugarco 1994)
(la mosca fra i topini è di Beatrix Potter)

domenica 11 settembre 2016

Unicorni


Due unicorni, bianchissimi peraltro, salgono la rampa che porta dentro l'arca di Noè: succede nell'affresco di Aurelio Luini, uno dei figli del grande Bernardino Luini. Se volete vederlo con i vostri occhi, l'affresco è a Milano dentro la chiesa di San Maurizio, in corso Magenta (la chiesa merita una visita di per sè, per Bernardino Luini soprattutto). A dirla tutta, non credo che sia andata così. Bisognerebbe chiederne conto a Noè o a qualcuno dei suoi figli, ma sul fatto che gli unicorni siano davvero saliti sull'arca ho qualche ragionevole dubbio. Però, chissà, magari uno dei figli di Noè si chiamava Aurelio; vado a vedere se la Bibbia ne parla, e per intanto metto qui sotto una riproduzione dell'affresco di Aurelio Luini, invitando chi può ad andare a fare un giro in San Maurizio.


Ma, adesso che ci penso, qualcosa dentro di me mi dice che Luini junior doveva avere le sue fonti, non può essersela inventata di sana pianta. O magari aveva vicino una bambina che gli ha chiesto di mettere anche gli unicorni, e non se l'è sentita di spiegarle tutta la faccenda; o forse invece è andata davvero così, come nella vignetta della Settimana Enigmistica: