domenica 29 aprile 2018

La luna (Stevenson)


The moon has a face like the clock in the hall;
she shines on thieves on the garden wall,
on streets and fields and harbour quays,
and birdies asleep in the forks of the trees.
The squalling cat and the squeaking mouse,
the howling dog by the door of the house,
the bat that lies in bed at noon,
all love to be out by the light of the moon.
But all of the things that belong to the day
cuddle to sleep to be out of her way;
and flowers and children close their eyes
till up in the morning the sun shall arise.

(Robert Louis Stevenson, The Moon, n.32 da "A child's garden of verses")

Anthony Burgess una volta ha scritto che l'inglese è una lingua monosillabica, come il cinese; e già leggendo il primo verso di questa poesia si può capire che cosa intendeva. Di fatto, il ritmo usato da Stevenson è intraducibile in italiano, a meno di non voler scrivere qualcosa di completamente differente. Per esempio, "bat" è un monosillabo ma va tradotto per forza di cose con "pipistrello", una parola che da sola riempirebbe un verso intero; la stessa cosa accade con "clock" e "orologio". Di conseguenza, il mio tentativo di traduzione ha l'unico significato di risparmiare a chi passa di qui l'andare a prendere il dizionario se non ci si ricorda qualche parola (spero di non aver fatto troppi errori). (purtroppo non ho trovato il nome dell'autore del disegno, mi dispiace molto)

La luna ha una faccia come l'orologio nel salone;
splende sui ladri sul muro nel giardino,
su strade e campi e banchine del porto,
e sugli uccellini che dormono nelle biforcazioni dei rami.
Il gatto che schiamazza e il topo che squittisce,
il cane che abbaia dalla porta della casa,
il pipistrello che giace nel suo letto a mezzogiorno,
tutti amano essere fuori quando c'è il chiaro di luna.
Ma tutte le cose che appartengono al giorno
si stringono nel sonno per essere lontani dalla sua via;
e i fiori e i bambini chiudono i loro occhi
finché nel mattino non torni a salire il sole.

(Robert Louis Stevenson, n.32 da "A child's garden of verses")

venerdì 27 aprile 2018

La luna (Italo Calvino)



La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. E' un'ombra biancastra che affiora dall’azzurro del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? E' così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste. E' come un’ostia trasparente, o una pastiglia mezzo dissolta; solo che qui il cerchio bianco non si sta disfacendo ma condensando, aggregandosi a spese delle macchie e ombre grigiazzurre che non si capisce se appartengano alla geografia lunare o siano sbavature del cielo che ancora intridono il satellite poroso come una spugna.
In questa fase il cielo è ancora qualcosa di molto compatto e concreto e non si può essere sicuri se è dalla sua superficie tesa e ininterrotta che si sta staccando quella forma rotonda e biancheggiante, d’una consistenza ancora più solida delle nuvole, o se al contrario si tratta d’una corrosione del tessuto del fondo, una smagliatura della cupola, una breccia che s’apre sul nulla retrostante. L’incertezza é accentuata dall'irregolarità della figura che da una parte sta acquistando rilievo (dove più le arrivano i raggi del sole declinante), dall’altra indugia in una specie di penombra. E siccome il confine tra le due zone non è netto, l’effetto che ne risulta non è quello d’un solido visto in prospettiva ma piuttosto d’una di quelle figurine delle lune sui calendari, in cui un profilo bianco si stacca entro un cerchietto scuro. Su questo non ci sarebbe proprio nulla da eccepire, se si trattasse d’una luna al primo quarto e non d’una luna piena o quasi. Tale essa infatti sta rivelandosi, man mano che il suo contrasto col cielo si fa più forte e la sua circonferenza si va disegnando più netta, con appena qualche ammaccatura sul bordo di levante.
Bisogna dire che l’azzurro del cielo ha virato successivamente verso il pervinca, verso il viola (i raggi del sole sono diventati rossi), poi verso il cenerognolo e il bigio, e ogni volta il biancore della luna ha ricevuto una spinta a venir fuori più deciso, e al suo interno la parte più luminosa ha guadagnato estensione fino a coprire tutto il disco. E' come se le fasi che la luna attraversa in un mese fossero ripercorse all’interno di questa luna piena o luna gobba, nelle ore tra il suo sorgere e il suo tramontare, con la differenza che la forma rotonda resta più o meno tutta in vista.
In mezzo al cerchio le macchie ci sono sempre, anzi i loro chiaroscuri si fanno più contrastati per rapporto alla luminosità del resto, ma ora non c'è dubbio che è la luna che se li porta addosso come lividi o ecchimosi, e non si può più crederli trasparenze del fondale celeste, strappi nel manto d’un fantasma di luna senza corpo. Piuttosto, ciò che ancora resta incerto è se questo guadagnare in evidenza e (diciamolo) splendore sia dovuto al lento arretrare del cielo che più s’allontana più sprofonda nell'oscurità, o se invece è la luna che sta venendo avanti raccogliendo la luce prima dispersa intorno e privandone il cielo e concentrandola tutta nella tonda bocca del suo imbuto. E soprattutto questi mutamenti non devono far dimenticare che nel frattempo il satellite è andato spostandosi nel cielo procedendo verso ponente e verso l’alto.
La luna è il più mutevole dei corpi dell’universo visibile, e il più regolare nelle sue complicate abitudini: non manca mai agli appuntamenti e puoi sempre aspettarla al varco, ma se la lasci in un posto la ritrovi sempre altrove, e se ricordi la sua faccia voltata in un certo modo, ecco che ha già cambiato posa, poco o molto. Comunque, a seguirla passo passo, non t'accorgi che impercettibilmente ti sta sfuggendo. Solo le nuvole intervengono a creare 1’illusione d’una corsa e d’una metamorfosi rapide, o meglio, a dare una vistosa evidenza a ciò che altrimenti sfuggirebbe allo sguardo.
Corre la nuvola, da grigia si fa lattiginosa e lucida, il cielo dietro è diventato nero, è notte, le stelle si sono accese, la luna è un grande specchio abbagliante che vola. Chi riconoscerebbe in lei quella di qualche ora fa? Ora è un lago di lucentezza che sprizza raggi tutt'intorno e trabocca nel buio un alone di freddo argento e inonda di luce bianca le strade dei nottambuli. Non c'è dubbio che quella che ora comincia è una splendida notte di plenilunio d’inverno. A questo punto, assicuratosi che la luna non ha più bisogno di lui, il signor Palomar torna a casa.
(Italo Calvino, da "Palomar": Luna di pomeriggio)

 
(le immagini: una carta di una lotteria messicana; una foto di Lourdes Castro;
una cartolina postale di Libby Hall)

 

martedì 24 aprile 2018

Britten's cuckoo


Benjamin Britten mette in musica il cuculo almeno due volte, la prima a 19 anni. E' una composizione brevissima, meno di due minuti, su testo di Jane Taylor. Una composizione per bambini, ma Britten sapeva trarre piccole meraviglie anche dai cori per i bambini.  (qui)

Cucù, cucù, cosa fai tu?
« In aprile, faccio i miei progetti;
in maggio, canto notte e giorno;
in giugno, cambio la mia canzone;
in luglio, volo via lontano;
in agosto devo essere via da qui.»
Cucù, cucù.
Cuckoo!

testo di Jane Taylor , da "Tom Tiddler's Ground"

Cuckoo, Cuckoo, what do you do?
"In April I open my bill;
In May I sing night and day;
In June I change my tune
In July Far far I fly;
In August away I must."
Cuckoo, Cuckoo!

Benjamin Britten, da "Friday afternoons op.7"

Il secondo cuculo di Benjamin Britten è su testo dell'elisabettiano Edmund Spenser e fa parte della "Sinfonia di primavera", l'opera 44 ("Spring Symphony op.44"): "L'allegro cucù, messaggero della primavera..." (qui)  Così inizia, ma qui mi fermo con la traduzione perché il testo è pieno di simboli e di immagini difficili da tradurre, al di là dell'inglese elisabettiano. Un altro pezzo molto breve, due minuti circa, che fa parte di una lunga e complessa cantata costruita sui versi dei grandi poeti inglesi.

The merry cuckow, messenger of spring
His trompet shrill hath thrise already sounded:
that warnes al louers wayt upon their king,
who now is comming forth with girland crouned.
With noyse whereof the quyre of Byrds resounded
their anthemes sweet devized of loves prayse,
that all the woods theyr ecchoes back rebounded,
as if they knew the meaning of their layes.
But mongst them all, which did Loves honor rayse,
no word was heard of her that most it ought,
but she his precept proudly disobayes,
and doth his ydle message set at nought.
Therefore O love, unlesse she turne to thee
ere Cuckow end, let her a rebell be.

(Edmund Spenser)

(Peter Pears, Kathleen Ferrier, Benjamin Britten)


domenica 22 aprile 2018

Cape Cod


Trascorsi quell'estate in una casa ai margini delle dune. La mia camera era un attico dal soffitto basso, con una finestra dalla quale si vedevano le dune, la spiaggia e l'oceano. La mattina presto, vedevo il sole sul mare e la spuma argentea dei frangenti.

Il sole sorgeva nella foschia del mattino poi bruciava la foschia e era d'oro sulla spiaggia e bianco sulle case di Cape Cod, alcune centinaia di metri più in là sulle dune, dove una macchia scura cresceva stenta nella terra sabbiosa.  (...)                                    Osservavo i gabbiani dalla finestra della mia stanza e dalla veranda della casa e non mi stancavo di dipingerli, usando gli acquarelli o lievi strati di colori a olio; (...) Spesso non dipingevo affatto, ma sedevo nella veranda ad ascoltare e osservare, a farmi investire dal vento salato sulla faccia, a udire il rumore della risacca e le grida dei gabbiani.
- Un artista ha bisogno di tempo per non fare nient'altro che sedersi qua e là e pensare e lasciare che le idee vengano a lui - , mi disse Jacob Kahn un pomeriggio in quella veranda , dopo che ero stato seduto per ore su una sedia a contemplare la luce sull'acqua e la sabbia e le case più in alto sulle dune. - Lo disse una volta Gertrude Stein. Era un essere impossibile. Ma era saggia.-
- Ora capisco la luce nei quadri di Hopper-.
Guardò le case sulle dune. - Si -, disse. - E' la bianca luce solare di Hopper. Un giorno capirai la luce del sole in Monet, Van Gogh e Cézanne-.

Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, ed Garzanti
Traduzione di Donatella Saroli









Qui un confronto il paesaggio rappresentato nei dipinti di Hopper ed il luogo reale






                                               




mercoledì 18 aprile 2018

L'annaffiatoio celeste


Piove, e c'è il sole. Fenomeno tutt'altro che raro, piuttosto stupisce il modo in cui piove: piove un po', cinque minuti, dieci minuti, poi esce il sole. Piove così poco che le gatte non ci fanno quasi caso, cosa vuoi che siano queste quattro gocce. Invece no, non sono quattro gocce ma piove bene, regolare, e tanto: è acqua che bagna, nonostante quel che dicono le gatte. Non è acqua che devasta o inonda, ma qualcosa che sembra mandato apposta dal cielo per far fiorire le piante. Un annaffiatoio, insomma, ma usato da qualcosa o da qualcuno che non ci è dato conoscere. Un annaffiatoio celeste, per il quale le mie piantine ringraziano il Cielo (e mica solo loro, anche tutte le altre erbe che ci sono e che non serve affatto seminare perché fanno tutto da sole). Il che mi riporta all'estate scorsa, quando ero io l'annaffiatore e c'era molto caldo: prendevo l'acqua dal bidone dell'acqua piovana, cominciavo a dare sollievo a qualche piantina che ancora resisteva, ed ecco il gattino dal musetto buffo che mi veniva dietro, e dovevo stare attento a non calpestarlo - ma molto attento davvero, mica si sposta. Il gattino buffo è incuriosito dall'annaffiatoio: da dove viene quell'acqua? Come fa Giuliano (ammesso che lui mi chiami così, e poi chissà come mi chiama e chissà se mi ha dato un nome) a far piovere così bene e così regolare? E, soprattutto: si può toccare? Ci prova, gli piace, poi si spaventa, annusa dove è bagnato, torna da me che mi sono spostato un po' più in là. Lo bagno un pochino, non si sposta: sa già che non fa male, che c'è la pelliccia, e poi con questo caldo che cosa vuoi che sia.

Ma tutto questo succedeva l'anno scorso. Il gattino dal musetto buffo e la sua sorellina timida hanno trovato casa (lontano da qui, nel bergamasco) e a dirla tutta ne sento la mancanza ma non è che posso passare il mio tempo ad allevare gattine timide e gattini dal musetto buffo, anche se l'idea non mi dispiacerebbe. Un anno è passato, vedremo che gattini mi porterà l'anno nuovo (sono già arrivati, a dire il vero, ma la Gatta li tiene nascosti). Per adesso ho qui la loro mamma Ciccetta, e ho anche l'annaffiatoio celeste, che ogni tanto smette e poi riprende; si vede che anche lassù hanno un bidone dell'acqua piovana da cui bisogna attingere ogni tanto. Ma, poi, da dove verrà quell'acqua piovana che hanno lassù? La domanda è di quelle che fanno nascere tante altre domande, e nel dubbio, in attesa di trovare una risposta, mi ritiro con discrezione nei miei appartamenti.

lunedì 16 aprile 2018

Poi entrò un'ape

Tre bambini sono rinchiusi nell'ampia biblioteca di una torre antica, ostaggio dei monarchici della Vandea; sono stati sottratti ai soldati dell'esercito repubblicano che li proteggeva e che ne aveva fatto la propria mascotte; i bimbi  sono completamente ignari del destino che li attende: se i soldati repubblicani assalteranno la roccaforte dei ribelli della Vandea, i tre piccoli moriranno,  una miccia è già pronta per far saltare in aria l'ambiente in cui si trovano; intanto loro giocano a fare di un prezioso in-folio miniato, minuscoli colorati coriandoli o  osservano un millepiedi che attraversa la sala e  rondini che svolazzano vicino alla finestra lanciando il loro leggero grido primaverile...

E tutti e tre guardarono le rondini.
Poi entrò un'ape.
Nulla rassomiglia a un'anima più di un'ape. Va di fiore in fiore come un'anima di stella in stella, e dà il miele come l'anima dà la luce.
Quell'ape entrando fece un gran rumore, ronzava forte e sembrava dire: "Sono qui, sono stata dalle rose, ora vengo a vedere i bambini. Che succede qui?"
Un'ape è una massaia, e mentre canta brontola.
Finchè l'ape rimase nella stanza, i tre piccini non la abbandonavano con gli occhi.
L'ape esplorò tutta la biblioteca, frugò negli angoli, svolazzò con l'aria di essere in casa propria in un alveare, ronzò, alata e melodiosa, d'armadio in armadio, guardando attraverso i vetri dei titoli dei libri, come fosse stata uno spirito.
Fatta la visita se ne andò.
-Va a casa sua- disse René-Jean.
- E' una bestia"- disse Gros-Alain.
- No- replicò René Jean, -è una mosca.
- Musca- disse Georgette
(...)
Di fuori si sentiva un fracasso vaglo e lontano; era probabilmente il campo di assalto che eseguiva qualche movimento srategico nella foresta: cavalli nitrivano, tamburi battevano, cannoni rotolavano, catene si urtavano, segnali militari si chiamavano e rispondevano, una confusione di rumori discordanti che mescolandosi formavano una specie di armonia; i fanciulli ascoltavano estatici.




Il passo che ho riportato è tratto da Novantatre, un romanzo di Victor Hugo che documenta la ribellione della Vandea nel periodo della dittatura giacobina. 
I bambini sopravviveranno, la loro innocenza finirà per salvarli; l'ape anticipa la venuta di una figura che porterà la vicenda verso esiti inaspettati.


Victor Hugo e i suoi nipoti

sabato 14 aprile 2018

Dujardin

Una sera, al tramonto, aeree lontananze, cieli profondi; e folle confuse; rumori, ombre, moltitudini; spazi aperti all’infinito; vaga sera... Ma sotto il caos delle apparenze, fra i tempi e i luoghi, nell’illusione delle cose che si generano e nascono, uno fra gli altri, uno come gli altri, distinto dagli altri, simile agli altri, uno eguale e uno in più, dall’infinito delle esistenze possibili, io sorgo; ed ecco che il tempo e il luogo si precisano; e l’oggi, e il qui; l’ora che suona; e, intorno a me, la vita; l’ora, il luogo, una sera d’aprile, Parigi, una chiara sera al tramonto, i monotoni rumori, le case bianche, i fogliami d’ombra; la sera più dolce, e una gioia di esistere, di camminare; le strade e le folle e, nell’aria che spazia lontano, il cielo; Parigi intorno canta e, nella foschia delle forme intraviste, mollemente incornicia l’idea.
L’ora è suonata; le sei, l’ora attesa. Ecco la casa dove debbo entrare, dove troverò qualcuno; la casa; il portone; entriamo. Cade la sera; l’aria e piacevole; c’è una gaiezza nell’aria. La scala; i primi scalini. Se, per caso, fosse uscito in anticipo? lo fa qualche volta; e io vorrei raccontargli la mia giornata. Il pianerottolo del primo piano; la scala ampia e chiara; le finestre. Gli ho confidato, a questo buon amico, la mia storia d’amore. Che bella serata passerò! Non si burlerà più di me. Che deliziosa serata sarà! (...)

(Edouard Dujardin, I lauri senza fronde, ed. Einaudi 1975, traduzione Nicoletta Neri; l'inizio)


(foto dei fratelli Lumière, inizi 900; i colori sono originali, in autochrome)


giovedì 12 aprile 2018

Rattlesnakes


"...Rattlesnakes, per esempio, è proprio basato su un racconto che ha per protagonista una donna di circa trent‘anni; la frase chiave, pronunciata dal padre di lei, dice “la vita è un duro e sporco gioco, c‘è un serpente nascosto sotto ogni roccia”. È da qui che nacque l‘idea di scriverci una canzone. "

( da un' intervista rilasciata da Lloyd Cole a Federico Guglielmi )



Qui Rattlesnakes
Qui qualcosa su Lloyd Cole
Qui una selezione di canzoni di Lloyd Cole




Jodie wears a hat although it hasn't rained for six days
She says a girl needs a gun these days
Hey on account of all the rattlesnakes

She looks like Eve Marie saint in on the waterfront
She reads Simone de Beauvoir in her American circumstance

She's less than sure if her heart has come to stay in San Jose
And her never-born child still haunts her
As she speeds down the freeway
As she tries her luck with the traffic police
Out of boredom more than spite
She never finds no trouble, she tries too hard
She's obvious despite herself

She looks like Eve Marie Saint in on the waterfront
She says all she needs is therapy, yeah
All you need is, love is all you need

Jodie never sleeps 'cause there are always needles in the hay
She says that a girl needs a gun these days
Hey on account of all the rattlesnakes

She looks like Eve Marie Saint in on the waterfront
As she reads Simone de Beauvoir in her American circumstance
Her heart, heart's like crazy paving
Upside down and back to front
She says "ooh, it's so hard to love
When love was your great disappointment."

martedì 10 aprile 2018

Tempesta di mare



In mezzo a una tempesta di mare non ci sono mai stato, però è facile immaginare come ci si sente (non bene). Vivaldi ha scritto almeno due concerti con questo nome, e sono molto belli ma non sono sicuro che rendano l'idea. Si tratta del Concerto per flauto oboe e fagotto RV 433 (FXII n.28) "Tempesta di mare",  (qui) e del Concerto per violino, archi e basso continuo op.8 n.5 RV 253 "Tempesta di mare" (l'opera 8 di Vivaldi, "Il cimento dell'armonia e dell'invenzione", comprende anche le famose "Quattro Stagioni") (qui). Due concerti molto belli, ma l'elemento drammatico è quasi del tutto assente; per sapere cosa era capace di fare Vivaldi in proposito bisognerà dunque rivolgersi al Temporale dall'estate delle Quattro Stagioni, davvero molto realistico.
 


Per capire cos'è una tempesta di mare forse è meglio rivolgersi a Benjamin Britten, i Quattro interludi marini dall'opera Peter Grimes (qui), e di sicuro con l'Otello di Giuseppe Verdi ci siamo proprio dentro, una tempesta di mare da far paura (qui). Sul molo di Cipro, ad osservare la nave di Otello e di Desdemona in mezzo alla tempesta, c'è anche Jago: che commenta con queste parole, "l'alvo frenetico del mar sia la sua tomba". Però poi la nave arriva in porto, anche se noi sappiamo che il sereno durerà poco. Otello è Shakespeare, e Shakespeare rimanda subito a "La Tempesta": ma qui mi conviene di fermarmi, altrimenti gira davvero la testa - ma per le vertigini, non per il mal di mare.


(i dipinti sono di Turner)




domenica 8 aprile 2018

Da piccolo


Da piccolo credevo che le albicocche secche fossero orecchie, e mi domandavo a quali infelici fossero state tagliate. Quando fui costretto a assaggiarne una, prelevandola da una composizione natalizia di datteri e frutta candita, mi dissi:" Di questo dunque sanno le orecchie".

Michele Mari, Tu, sanguinosa infanzia, ed. Einaudi



venerdì 6 aprile 2018

Più rossa della ciliegia


La storia di Aci e Galatea (da Ovidio, Metamorfosi, XIII) è tragica, perché l'intervento brutale di Polifemo spezzerà l'amore fra i due giovani. Ma quando Haendel la mette in musica a Londra nel 1718 utilizzando un libretto di John Gay, non mancherà il tono di commedia, perfino con effetti comici, almeno fino al momento fatale. E' un dramma pastorale, che Haendel aveva già musicato a Napoli nel 1708, in italiano (libretto di Nicola Giuvo); le due opere sono completamente diverse e sono unite solo dal soggetto. Polifemo, nella versione londinese, viene presentato come un campagnolo rozzo e molto diretto nelle sue espressioni; la caratterizzazione non avrà mancato di divertire il pubblico, e se si trova un bravo interprete è divertente ancora oggi. Polifemo diventa parente stretto di Braccio di Ferro, forse un antenato del suo eterno rivale Bluto; si innamora di Galatea (Olivia?) e se ne esce con questa cosa qui, recitativo e aria.
Infurio, brucio, fremo! Il fragile dio mi ha pugnalato al cuore. Tu, pino fedele, sostegno dei miei passi divini, ti depongo! Portatemi cento canne ben cresciute per farne un flauto per la mia grande bocca; in lievi fascinosi accenti fatemi sussurrare di Galatea la bella e del mio amore. Più rossa della ciliegia, più dolce della bacca, fanciulla più luminosa di una notte di luna, leggera e allegra come un capretto! Gonfia come un grappolo maturo, più lustra di un giglio, ma indomabile come il fuoco e fiera come la tempesta!

 photo Tamara Giorgetti del blog Un pezzo della mia maremma


mercoledì 4 aprile 2018

Needles in the camel’s eyes



Brian Eno tra poco più di un mese compirà settant’anni. Il compositore inglese ne aveva 25 quando incideva con Phil Manzanera e Robert Fripp  “ Here come the warm Jets”. Il brano che apre il disco, come altri di Eno, non ha un senso univocamente accessibile; lo stesso compositore avverte che  Needles in the camel’s eyes venne scritta in un tempo minore di quello necessario a cantarla. Il significato del brano dunque è quello che ognuno vuol dargli. 
Lo propongo perché  mi piace e poi perché nel titolo c’è un cammello :-)

lunedì 2 aprile 2018

Ornitorinco ( II )

PER DARE IL NOME ALLA "COSA" ECO RIPARTE DALL'ORNITORINCO
Giulio Giorello, Corriere della sera 23.10.1997

Un naturalista nel 1798 invia dall’Australia al British Museum la pelle impagliata di un animaletto che i coloni chiamano «talpa d’acqua». E' grande come una talpa, ha occhi piccoli come una talpa, ma non è una talpa. Si è mai vista una talpa con il becco? Gli esperti britannici lo battezzano Platypus anatinus, a causa di quel suo becco da brutto anatroccolo che fa pensare allo scherzo di qualche burlone che lo abbia «innestato» sulla testa di un quadrupede.
Nel 1800 il tedesco Blumenbach lo chiama Ornythorynchus paradoxus. Oggi lo conosciamo come ornitorinco; ma che ne è del «paradosso»? Lo sconcertato Blumenbach con quella qualificazione alludeva all’ingrato compito di “categorizzare qualcosa come incategorizzabile». Così Umberto Eco, in questo Kant e l'ornitorinco (Bompiani). Il riferimento al filosofo di Koenigsberg, ossessionato dal problema di ricondurre «il caso particolare» sotto una qualche «regola generale» (sì, proprio lui - quello che anche il più distratto liceale ricorda come il filosofo della «tavola delle categorie», o magari dell’«imperativo categorico»), é a sua volta paradossale. Quando i primi esemplari dell’animale arrivano in Europa il vecchio Immanuel, malato nel fisico e inacidito nel carattere, non si accorge certo dell'ornitorinco: eppure, esso avrebbe costituito una bella sfida per chi riteneva che è l'uomo a imporre le proprie leggi alla natura. Per altro, si è occupato dell'ornitorinco un altro Grande Vecchio, quel Jorge Luis Borges che ha ispirato Eco per il "cattivo" del Nome della rosa. «Un animale orribile, fatto con pezzi di altri animali», lo definiva l'autore di Finzioni. Invece, Eco ci tiene a «insinuare che essendo l'apparizione dell'ornitorinco molto remota nello sviluppo delle specie, più che essere fatto con pezzi di altri animali, siano gli altri animali a essere stati fatti con pezzi suoi».