venerdì 31 gennaio 2020

Lupi nella notte


(Andrew Wyeth)
Erano le tre di notte, quando alzò gli occhi dalla scrivania e dalla carta. Dalla chiusa concentrazione in cui era completamente sprofondato, ritornava a sé, alla realtà, felice, forte, tranquillo. All'improvviso, nel silenzio degli spazi lontani che si stendevano fuori della finestra, udì una nota triste e accorata. Passò nella stanza vicina, buia, per guardare fuori. Durante le ore che aveva trascorso scrivendo, i vetri si erano coperti di uno spesso strato di brina e non lasciavano distinguere nulla. Scostò il tappeto arrotolato messo davanti alla porta d’entrata per le correnti d’aria, si buttò sulle spalle la pelliccia, e uscì sul terrazzino d'ingresso.
Lo abbagliò il bianco fulgore che ammantava e faceva splendere la neve, senza un'ombra, sotto la luce della luna. Dapprima non riuscì a fissare lo sguardo e a vedere nulla. Ma, dopo un istante, affievolito dalla distanza, gli arrivò un ululio, prolungato, lamentosamente uterino, e notò allora sull'orlo della radura, al di là del burrone, quattro ombre in lungo, non più grandi di un trattino.
I lupi stavano in fila, coi musi rivolti verso la casa e protesi in alto; ululavano contro la luna o contro le finestre della casa dei Mikulicyn, che riflettevano quella luce argentea. Per alcuni istanti rimasero immobili, ma, nell'attimo in cui Jurij Andreevic capì che si trattava di lupi, come se il suo pensiero li avesse raggiunti, trottarono via dalla radura, le groppe abbassate come cani. Non riuscì a capire in quale direzione fossero fuggiti. 'Brutta novità,” pensò. 'Ci mancavano anche loro. Possibile che abbiano la tana qui vicino? Forse proprio nel burrone. E' terribile! E c'è la cavalla di Samdevjatov nella stalla. Forse hanno fiutato proprio la cavalla. "
Decise per il momento di non dir nulla a Lara, per non spaventarla; rientrò, chiuse per bene il portone e tutte le porte tra la parte riscaldata della casa e quella non abitata, tappò le fessure e i buchi e tornò verso la scrivania. La lampada ardeva luminosa e accogliente, come prima. Ma ora non aveva più voglia di scrivere. Non riusciva a rasserenarsi, non poteva più pensare a nulla, all'infuori dei lupi e delle altre complicazioni che li minacciavano. E poi era stanco. In quel momento Lara si svegliò. (...)

Jurij Andreevic sentiva che il suo sogno di stabilirsi a Varykino per un lungo periodo non si sarebbe avverato e che l'ora della sua separazione da Lara era prossima, che l'avrebbe immancabilmente perduta, e con lei avrebbe perduto la sua ragione di vita, forse la vita stessa. L’angoscia lo consumava. Ma ancor più lo struggeva l'attesa della sera e il desiderio di piangere quell'angoscia in una forma che suscitasse anche negli altri il pianto.
I lupi a cui aveva pensato per tutta a giornata non erano più i lupi sulla neve, al lume della luna: erano diventati il tema dei lupi, una figurazione della forza avversa che si era prefissa di perdere lui e Lara, o di scacciarli da Varykino. Sviluppandosi, l'idea di questa forza ostile aveva raggiunto verso sera un'intensità estrema, come se nella Sut'ma fossero apparse le tracce di un mostro antidiluviano e nel burrone si fosse rintanato un drago favoloso, di mostruosa grandezza, avido del suo sangue e bramoso di Lara.

Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pagine 353-355 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate


mercoledì 29 gennaio 2020

Rabia

A.Carracci, Il venditore di pasta per topi
 Ma i veri padroni di Venezia e delle strade nelle ore del mattino erano gli ambulanti, e Mattia non tardò ad accorgersene. Il primo ambulante in cui era capitato di imbattersi e che gridava a pieni polmoni:” Rabia! Rabia!”, era stato per l’appunto un venditore di rabia  cioè di veleno per topi. Mattio s’era stretto contro il muro per scansarlo e l’ambulante gli era passato davanti tutto impettito -anche un venditore di veleno per topi, nel suo piccolo, può essere un grande uomo! -tenendo in spalla un lungo bastone, una canna d’India da cui penzolavano, attaccati ad altrettanti uncini, dodici topi morti: sei per parte, grossissimi e molto vecchi, a giudicare dalle code quasi prive di pelo. Sull’altra spalla il venditore aveva una bisaccia con dentro la rabia, e poi anche portava appesi alla cintura due fiaschetti di inchiostro, tre o quattro mazzi di piume d’oca già tagliate e una filza di spugnette da calamaio, che costituivano il resto della sua mercanzia destinata a topi e scrittori. Gridava camminando: “ Penne, inchiostro, spugne da calamaio! Rabia, rabia!”

Sebastiano Vassalli, Marco e Mattio
Ed. Mondadori

lunedì 27 gennaio 2020

Notizie dal cielo


Emanuele Kant riconosceva due meraviglie nel creato: il cielo stellato sopra il suo capo, e la legge morale dentro di lui. Lasciamo da parte la legge morale: abita in tutti? E' vero, si può ammettere che sia congenita in noi, nasca con noi, e nel corso di ogni singola vita si evolva e maturi, o invece degeneri e si spenga? Ogni anno che passa accresce i nostri dubbi; davanti alla necrosi politica che affligge il nostro Paese, e non solo il nostro; davanti alla corsa insensata verso il riarmo nucleare, non si sfugge al sospetto che sulla legge morale prevalga un principio perverso, per cui acquista potere chi di questa legge, che sentiamo unica in ogni tempo e luogo, cemento di tutte le civiltà, non sa che farsene e non ne percepisce il pungolo, é senza e sta bene senza. Il cielo stellato invece rimane: sta sul capo di tutti, anche se noi cittadini lo possiamo vedere di rado, offuscato dai nostri fumi, stretto fra i tetti, offeso dalle antenne Tv. (...)
 Quando lo scorgiamo nelle notti serene, da un qualche osservatorio lontano dalle nostre luci disturbatrici, è ancora sempre quello: il suo fascino non è mutato. Le «vaghe stelle dell’Orsa» sono quelle che ridavano pace a Leopardi, la W di Cassiopea, la Croce del Cigno, Orione gigantesco, il triangolo di Boote affiancato dalla Corona e dalle Pleiadi care a Saffo, sono ancora sempre quelli, abbiamo imparato a conoscerli da bambini e ci hanno accompagnato per tutta la vita. E' il cielo "delle stelle fisse", immutabile, incorruttibile; l'antagonista del nostro mondo terrestre, il nobile-perfetto-eterno che abbraccia e avvolge l’ignobile-mutevole-effimero.

E invece non ci è più lecito guardare alle stelle così, in questo modo ingenuo e riduttivo. Il cielo dell’uomo d'oggi non è più quello. Abbiamo imparato ad esplorarlo con i radiotelescopi, ed a mandare in orbita strumenti capaci di cogliere le radiazioni che l'atmosfera intercetta: ora siamo obbligati a sapere che le stelle visibili dai nostri occhi, nudi od aiutati, sono una minoranza esigua; il cielo si sta rapidamente popolando di una folla di oggetti nuovi, insospettati.
Cent’anni fa, l’universo era puramente ottico; non era molto misterioso, e si riteneva che lo sarebbe diventato sempre meno. Appariva amico e domestico: ogni stella era un sole come il nostro, più grande o più piccola, più calda o meno, ma non eterogenea; alcune erano in realtà un po’ inquiete, qualche stella nuova era comparsa, ma tutto faceva pensare che il disegno dell'universo fosse dappertutto lo stesso. Gli spettroscopi mandavano messaggi rassicuranti: niente paura, nelle stelle c’era idrogeno, elio, magnesio, sodio, ferro, le materie prime dei chimici nostrani. Si riteneva probabile che ogni stella-sole avesse il suo corteggio di pianeti: alcuni astronomi (primo fra tutti Camille Flammarion, il divulgatore infaticabile ed entusiasta) asserivano anzi che doveva averlo, altrimenti non avrebbe avuto ragione d’esistere. Infatti ogni pianeta, ivi compresi quelli del nostro Sole, doveva essere albergo di vita, o esserlo stato, o essere destinato a diventarlo in futuro: osservatori dagli occhi troppo acuti vedevano sulla Luna fumi e luci fugaci, e su Marte reti di canali troppo regolari e geometrici per essere opera solo della natura. Un universo abitato solo da noi, così imperfetti, sarebbe stato un'immensa macchina inutile.

Ora il cielo che pende sopra il nostro capo non è più domestico. Si fa sempre più intricato, imprevisto, violento e strano; il suo mistero cresce invece di ridursi, ogni scoperta, ogni risposta alle vecchie domande fa nascere miriadi di domande nuove. Copernico e Galileo avevano sbalzato l'umanità dal centro del creato: non era stato che un trasloco, da cui pure molti si erano sentiti destituiti ed umiliati. Oggi ci accorgiamo di ben altro: che la fantasia dell’artefice dell’universo non ha i nostri confini, anzi, non ha confini, e sconfinato diventa anche il nostro stupore. Non solo non siamo il centro del cosmo, ma ne siamo estranei: siamo una singolarità. E' strano l’universo per noi, noi siamo strani per l’universo.
Generazioni di amanti e di poeti avevano guardato alle stelle con confidenza, come a visi famigliari: erano simboli amici, rassicuranti, dispensatori di destini immancabili nella poesia popolare ed in quella sublime; con la parola "stelle" Dante aveva terminato le tre cantiche del suo poema. Le stelle d’oggi, visibili ed invisibili, hanno mutato natura. Sono fornaci atomiche. Non ci trasmettono messaggi di pace né di poesia, bensì altri messaggi, ponderosi ed inquietanti, decifrabili da pochi iniziati, controversi, alieni.
L'anagrafe dei mostri celesti si allunga a dismisura: a descriverli, il nostro linguaggio di tutti i giorni fallisce, è inetto.(...)

Non è ancora nato, e forse non nascerà mai, il poeta-scienziato capace di estrarre armonia da questo oscuro groviglio, di renderlo compatibile, confrontabile, assimilabile alla nostra cultura tradizionale ed all'esperienza dei nostri poveri cinque sensi fatti per guidarci entro gli orizzonti terrestri. Queste notizie dal cielo sono una sfida alla nostra ragione.
E' una sfida da accettare. La nostra nobiltà di fuscelli pensanti ce lo impone: forse il cielo non farà più parte del nostro patrimonio poetico, ma sarà, anzi è già, nutrimento vitale per il pensiero. E' possibile che il nostro cervello sia un unicum nell'universo: non lo sappiamo, né probabilmente lo sapremo mai, ma sappiamo già fin d’ora che è un oggetto più complesso, più difficile a descriversi, che una stella o un pianeta. Non neghiamogli alimento, non cediamo al panico dell’ignoto. Forse spetterà a loro, agli studiosi degli astri, dirci quanto non ci hanno detto, o ci hanno detto male, i profeti ed i filosofi: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo.
L’avvenire dell'umanità è incerto, anche nei paesi più prosperi, e la qualità della vita peggiora; eppure io credo che quanto si va scoprendo sull’infinitamente grande e sull’infinitamente piccolo sia sufficiente ad assolvere questa fine di secolo e di millennio. Quanto alcuni pochi stanno audacemente acquistando nella conoscenza del mondo fisico farà sì che questo periodo non sarà giudicato un puro ritorno alla barbarie.

Primo Levi, da "L'altrui mestiere" pagine 172-175  

illustrazioni: una mappa stellare del 1600; Preissiger 1851, un libro scolastico francese

sabato 25 gennaio 2020

Sparare alla colomba


- La vedi, là, quella colomba nel cielo? Spara.
- Non sparare!
Quella per la colomba, là nel cielo, sarebbe stata la settima pallottola di quelle fuse nella Gola del Lupo: è la pallottola del diavolo. Ma nel "Franco Cacciatore" di Carl Maria von Weber finisce tutto bene, nonostante la paura e gli spaventi che ci siamo presi; la colomba è salva, è salva anche Agathe, il piano del diavolo Samiel non è andato in porto, o forse Samiel si è solo divertito un po' con il disgraziato Kaspar, chissà. Ma il lieto fine ci sta, e poi la musica è così bella che ci si perde dentro.


(dipinto di Carl Probst)
Carl Maria von Weber (1786-1826) è un po' parente di Mozart, nel senso che era parente della moglie di Mozart, Konstanze Weber; molto più giovane di loro, condivide però con Mozart la brevità della sua vita. Weber può essere considerato come uno degli eredi di Mozart, la sua musica e le sue opere discendono direttamente dal Mozart tedesco, dal Flauto Magico e dal Ratto dal Serraglio. Il Franco Cacciatore, "Der Freischütz", è stato composto fra il 1817 e il 1820 ed è magico e meraviglioso, tenebroso e pieno di luce, insomma qualcosa da non perdere, e vale la pena anche di imparare un po' il tedesco, per capire bene cosa vi succede.

qui per ascoltare questa scena


giovedì 23 gennaio 2020

Madrigale senza suono


Stravinskij,  Craft e la partitura del Momumentum pro Gesualdo

Madrigale senza suono è un romanzo di Andrea Tarabbia che delinea la relazione sul piano artistico tra Carlo Gesualdo, principe di Venosa, e Igor Stravinskij, due musicisti, distanti per i secoli che li dividono ma non per il gusto della ricerca e della sperimentazione.
Le loro voci e i loro pensieri si intrecciano e si inseguono, durante la narrazione, proprio come succede in un madrigale, e le parole, mute sulla pagina, acquisiscono un suono, solo interiore, durante la lettura. 
A sostanziare, giustificare la relazione tra i due musicisti  c’è l’intenzione di Stravinskij di “edificare” un Monumentum pro Gesualdo, riscrivendo in chiave strumentale tre madrigali composti dal principe di Venosa, ovvero Asciugate i begli occhi ( qui ), Ma tu cagion di quella atroce pena ( qui ), Beltà poi che t'assenti ( qui ). La stesura della partitura si accompagnerà, nel romanzo,  alla lettura di un misterioso manoscritto, opera di un essere deforme al servizio di Gesualdo; il testo, ritrovato, in una singolare circostanza, in  una libreria antiquaria, si presenterà, pur nella incerta attendibilità, come il mezzo per rendere possibile a Stravinskij la conoscenza, da una particolare prospettiva, del principe, delle ossessioni e dei desideri che lo definiscono e ne determinano il destino, dell’idea che ha della funzione della musica e delle sue potenzialità espressive. 
Stravinskij interviene nel romanzo commentando i momenti del manoscritto che più lo suggestionano e che riguardano non solo la ricerca compositiva di Carlo Gesualdo ma anche la  drammatica esperienza privata del principe di Venosa, e dunque l' omicidio  della prima moglie e dell’amante di questa.
Più  voci, più punti di vista, più lettori, visto che oltre a Stravinskij che  nel romanzo commenta la storia che sta leggendo, c’è, naturalmente, il lettore del romanzo di Tarabbia. Un intersecarsi di sguardi e di sensibilità,  uno spartito  a più voci destinato a produrre effetti ogni volta diversi in relazione all’unica variabile, quella del lettore di tutte le voci di una narrazione in forma di madrigale.

Un clic qui per l'ascolto di Monumentum pro Gesualdo 

qui un estratto del romanzo

martedì 21 gennaio 2020

Gazze


(Bewick, 1826)


Due gazze arrivarono nel cortile e presero a svolazzare cercando dove posarsi. Il vento arruffava e gonfiava le loro piume. Si posarono sul coperchio del cassone delle immondizie, passarono sullo steccato, scesero a terra e cominciarono a camminare nel cortile. «Le gazze annunciano neve», pensò. Nello stesso momento dietro la tenda sentì Sima che diceva: «Le gazze portano notizie. Visita o lettera.» Dopo poco suonarono il campanello (...) Fuori nevicava. Al vento, la neve scendeva obliquamente, sempre più rapida e fitta, come per riguadagnare il tempo perduto. Jurij Andreevic guardava dinanzi a sè fuori dalla finestra, come se non la vedesse cadere ma continuasse a leggere la lettera di Tonja, e non asciutte stelline di neve balenassero e volassero via, ma piccoli spazi bianchi tra i piccoli caratteri neri, bianchi, bianchi, senza fine, senza fine.


Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.335 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate




domenica 19 gennaio 2020

Una rosa


Una rosa

Cera una rosa che maspettava.
Tutta ianca, sinni stava affacciata alla finestra. No niuru che la circondava, pareva ca parrava sulu ammia: "No viri ca sugnu ca?" diceva.
Però non cera astiu, no, na sò dumanna e mancu scantu a farisi viriri in tutta a so biddizza in nda strada deserta, nella notte.
"I paroli veri su muti, fatti sulu picchì i sapi ascutari" pinsai e trasii a casa a inchiri u bicchieri.
A darici acqua, a darimi acqua.

Dario D'Angelo, 10 dicembre 2019
 
C'era una rosa che mi aspettava. Tutta bianca, stava affacciata alla finestra. Nel buio che la circondava, sembrava parlare solo a me: "Non vedi che sono qua?" diceva. Però non c'era astio, no, nella sua domanda e nemmeno vergogna nel farsi vedere in tutta la sua bellezza nella strada deserta, nella notte. "Le parole vere sono mute, fatte solo per chi le sa ascoltare", pensai, ed entrai in casa a riempire un bicchiere. Per darle acqua, per darmi acqua.

venerdì 17 gennaio 2020

La meneuse de tortues d'or

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il dipinto è di Susan Culver

mercoledì 15 gennaio 2020

Gelo

(Jacob Frank, Yellowstone)







Una chiara notte di gelo. Straordinaria luminosità e compiutezza di tutto quello che si vede. La terra, l'aria, la luna, le stelle sono inchiodate, saldate insieme dal gelo. Nel parco, di traverso sui viali, si stampano le ombre degli alberi come tornite e in rilievo. Pare che nere figure attraversino continuamente la strada in vari punti. Grosse stelle sono sospese fra i rami del bosco come azzurre lanterne di mica. Tutto il cielo è un prato estivo disseminato di piccole margherite.


Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag.232 ed. Feltrinelli 1998, traduzione Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate




lunedì 13 gennaio 2020

Storia dell'amaca ( II )


La rete-amaca dura poco più di un anno, poi crollerà sotto l'effetto congiunto del vento e di una breve nevicata; tutt'altro che da escludersi che le escursioni del gattino Disaster abbiano avuto l'effetto che temevamo. Nel frattempo, io ho fatto amicizia - o meglio, sono stato costretto a fare amicizia - con il gattino - pardon, gattina - e l'ho chiamata non più Disaster ma Ciccetta (o meglio Cicetta, con una c sola: vezzeggiativo scherzoso comunemente in uso nel comasco) ma ogni tanto Disaster riaffiora.
Che fare. A Ciccetta la rete antigrandine piaceva tantissimo, ma adesso non c'è più. Aspetto per un po' per vedere se viene ripristinata (non oso chiedere direttamente) poi mi rendo conto che la rete è destinata a rimanere un ricordo e comincio a riflettere. In fin dei conti, ho un pezzo di rete in garage: può servire? Ne ritaglio un pezzo abbastanza grande da contenere un gatto - pardon, una gattina - e lo lego ai rami di un pesco. Ci sta perfettamente, sembra fatta apposta; il filo che ho usato per appenderla è bello robusto (filo elettrico, avanzi di vecchi lavori), vediamo se si fida a entrarci. Dopo un po' di titubanza (mi ha guardato bene per tutto il tempo dei lavori, è stata attenta) finalmente il collaudo: funziona, sono anche riuscito a prendere bene le misure lasciando pendere la rete quel tanto che basta per contenere il corpo. Manca ancora una cosa, però, e Ciccetta me lo fa notare: allunga una zampina sulla siepe, poi la tira indietro e mi guarda. Ripete il gesto, è chiaro: mica si può camminare sulla siepe, le piantine pungono e si rischia di scivolare di sotto. Io pensavo che avrebbe usato il pesco per salire, ma così non è: abituata a scorrazzare sui tetti dei garage, Ciccetta vorrebbe un collegamento diretto. Una tavola di legno va bene? Certo che sì, approvato. Sistemo bene la tavola, anzi la cambio perché è troppo stretta, e la variante di valico è pronta. Siamo nel gennaio 2018, quindi l'amaca sta per compiere due anni - ma ormai la storia dell'amaca qui in giro la conoscono tutti, mancavate solo voi.

domenica 12 gennaio 2020

Storia dell'amaca ( I )


Nella primavera del 2016 il mio vicino decide di mettere la rete antigrandine nell'orto. Io non ci avrei mai pensato, non sapevo neanche che esistessero le reti antigrandine, ma in effetti lavorare tanto e poi vedersi tutto rovinato da una grandinata non è bello, e parlo per esperienza diretta. E dunque, nel giro di poco tempo ecco qui la rete pronta e montata. Quello che il mio vicino non sa, e non potrebbe certo immaginarselo, è che nel frattempo la Gatta ha fatto i gattini e ha deciso di allevarli qui. Dettaglio insignificante? Non proprio, perché - tempo due mesi - uno dei gattini finirà proprio a casa sua (sarà lui a rapirlo), e dei due che sono rimasti uno si mostrerà particolarmente vivace, così vivace che mi viene da chiamarlo Disaster. Disaster non sta mai fermo (un moto perpetuo), mi mastica le piantine di porro, fa la pipì scavando nel prezzemolo, si arrampica sulle piante di pesco, sale sui tetti dei garage, corre a trecento all'ora, e soprattutto ha una passione irrefrenabile per la rete antigrandine del mio vicino. Non solo il gattino ci passeggia sopra, con grande divertimento, ma ci si addormenta dentro. Gli piace proprio, la rete antigrandine, a Disaster. Che fare? In fin dei conti è solo un gattino, pesa poco, si pensa che col tempo gli passerà. E invece no, col tempo la rete diventa una vera e propria amaca, il gattino cresce ma è tenero e simpatico, lo si lascia fare.




Quello che non so io, invece, e che scoprirò col tempo, è questo: non solo il gattino è una gattina, ma mi ha preso di mira e non intende affatto andar via. Un po' alla volta scopro che si lascia avvicinare e perfino toccare, nonostante i soffi e le minacce della Gatta sua mamma; poi accetta una carezza, e infine compio l'errore fatale: la grattatina sulla testa. Non avevo la minima intenzione di prendermi cura di un gatto, ma non me la staccherò più di dosso.
(1- continua)

venerdì 10 gennaio 2020

Neve






Aprii la finestra e allungai una mano fuori. Aspettai che un fiocco di neve mi si posasse sul palmo:
era bagnato e pesante, si scioglieva subito a contatto con la pelle, ma chissà come era stato 2000 metri più su.

Paolo Cognetti, Le otto montagne
Ed. Einaudi





mercoledì 8 gennaio 2020

Un'esca per le rane


Il tempio non è diverso da come lo vide con i suoi occhi Fosco quando vi tornò dieci anni dopo la prigionia. Il monaco indica un laghetto accanto al cimitero, celato da una folta vegetazione. «Qui Fosco-san, eludendo la sorveglianza delle guardie, veniva a pescare le rane. Come esca usava l'anello della moglie: luccicava, e questo bastava per farle abboccare. Andò avanti finché non perse l'anello, e questa, raccontava poi scherzando nel dopoguerra, fu la causa del suo divorzio.»


dal Venerdì di Repubblica 23 agosto 2019, articolo di C. Martini Grimaldi su Fosco Maraini

lunedì 6 gennaio 2020

Romanesca


M'affaccio alla finestra e vedo l'onde
vedo le mie miserie che so' granne
chiamo l'amore mio
nun m'arisponne.

Maurice Ravel, "Canzone italiana" (1910) da Quatre chanson populaires, no. 3   (qui)


(Maurice Ravel, 1922)



sabato 4 gennaio 2020

The birds

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Spring came far too early this year:
May flowers blooming in February.
Should I be sad for the months,
or glad for the sky?
The birds don't know which way to sing and, my friends,
neither do I.
Two days ago, a girl I truly thought I loved
suddenly didn't seem to matter at all.
Should I sing sad farewell to things
I'm really glad I've left behind?
The birds don't know which way to sing and, my friends,
neither do I.
In another day, heavy snow will lie upon the ground,
and buds prematurely bloom shall fail;
And every creature living now, then will
surely die...
The birds don't know which way to sing and, my friends,
neither do I.
The birds don't know if it's time yet to fly,
and they don't know which way to go and, my friend,
neither do I.
Neither do I.
Neither do I.
Neither do I 

(Peter Hammill)




giovedì 2 gennaio 2020

Pettirosso




- Quale giardino? - fece lui con voce alterata, smettendo per un momento di zappare.
- Quello che c'è dall’altra parte del muro, - rispose Mary. - Ci sono gli alberi. Ne ho visto le cime. Un uccellino dal petto rosso si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare.
Con sua sorpresa, il viso arcigno del vecchio, che portava i segni del tempo, mutò d’espressione. Un lieve sorriso gli illuminò il volto e il giardiniere parve assolutamente diverso. Ciò la fece riflettere sul fatto che è sorprendente quanto una persona sembri più simpatica quando sorride. Non ci aveva mai pensato, prima di allora.
Il vecchio si girò verso il frutteto e cominciò a fischiare. Era un fischio dolce e delicato. Mary non riusciva a credere che un uomo tanto burbero potesse emettere un fischio così persuasivo. Quasi subito accadde una cosa meravigliosa. Si udì nell’aria un frullo d’ali rapido e breve e l’uccellino dal petto rosso, volando verso di loro, andò a posarsi sopra un grosso mucchio di terra, vicino ai piedi del giardiniere.
- Eccolo, - disse sottovoce il vecchio. Poi si rivolse all'uccellino come se parlasse a un bambino.
- Dove sei stato, piccolo birbante? - domandò. - Oggi non ti ho ancora visto. Hai cominciato a far la corte a qualcuna, così presto? Sei troppo in anticipo!
L'uccellino piegò il capino da una parte e lo guardò con gli occhietti brillanti, che sembravano due gocce nere di rugiada. Pareva perfettamente a suo agio e non era minimamente spaventato. Saltellò di qua e di là e beccò vivacemente la terra, alla ricerca di semi e insetti. Mary sentì in cuor suo un curioso sentimento; l'uccellino era grazioso e vispo e si comportava quasi come se fosse una persona. Aveva il corpo minuscolo e paffutello, il becco piccolo e le zampette sottili.
- Viene sempre, quando lo chiamate? - chiese con un soffio di voce.
- Certo che viene. Lo conosco da quando era piccino. Venne fuori dal nido nell’altro giardino e quando volò per la prima volta al di sopra del muro, per qualche giorno era troppo debole per tornare indietro, così diventammo amici. Quando volò nuovamente al di là del muro, il resto della nidiata era andato via. Allora si sentì triste e tornò da me.
- Che specie di uccello è? - domandò Mary.
- Non lo sapete? E' un pettirosso. I pettirossi sono gli uccelli più socievoli e più curiosi che esistano. Sono socievoli quasi quanto i cani, sanno comportarsi come loro. Guardatelo, come becca qui in giro e come ogni tanto ci osserva. Sa che stiamo parlando di lui.
Era davvero strano vedere quel vecchio che guardava teneramente l’uccellino dal petto rosso, come se fosse orgoglioso di lui.
- E' molto vanitoso, - sussurro. - Gli piace che la gente parli di lui. Ed è curioso, mio Dio, non conosco uccellino più curioso e più intrigante. Viene sempre a vedere che cosa semino. Sa tutto quello che il signor Craven non si è mai preoccupato di sapere. E' il capo giardiniere, ecco che cos'è! (...)

(Frances Hodgson Burnett, "Il giardino segreto", ed. Einaudi 2010, traduzione di Luca Lamberti.)




La signora Burnett esagera un po' (è pur sempre un libro per bambini, quasi una favola), ma i pettirossi si comportano davvero così e si vede che l'autrice del "Giardino segreto" li aveva osservati con attenzione, e preso nota. Troverete facilmente qualcuno che vi spiega che, in realtà, il pettirosso è un insettivoro e se mostra curiosità quando si lavora in giardino è perché sa che muovendo la terra molto probabilmente salterà fuori qualche buona preda; ma, a parte questo, il comportamento del pettirosso è davvero come viene descritto nel libro. Il pettirosso sembra non aver paura, anche se è sempre svelto a volare via, e sembra davvero disposto a fare conoscenza con noi. Aiuta anche l'aspetto fisico, il torace imponente, gli occhi vivaci, il becco sottile da insettivoro: esattamente come questo qui, ospite del mio balcone tra dicembre e gennaio. Questi sono i mesi più duri dell'inverno, insetti non se ne trovano e vengono buoni anche i biscotti e il panettone: contengono burro e zucchero, quindi proteine. Il panettone gli piace, ma non appena torneranno gli insetti non lo degnerà più di uno sguardo. Un'ultima cosa soltanto: il pettirosso ha il petto color arancione.