sabato 31 dicembre 2016

a cavallo di uno pterodattilo ( forse )





Arzach è lo ptero-guerriero creato da Moebius; è protagonista di  avventure quasi sempre mute, che hanno come scenario un tempo e uno spazio indefiniti. Arzach cavalca una creatura alata, meccanica, simile a uno pterodattilo. In questa tavola, notte e giorno sembrano compresenti, così come antico e nuovo, passato e futuro.
"Il cavallo di Brunilde" pensa di andare  così verso il 2017..
Auguri a chi passa di qui!


martedì 27 dicembre 2016

Krazy Kat

La situazione è semplice e antica: un triangolo. La gatta Krazy Kat ama Ignazio (un topo), che però le risponde tirandole mattoni in testa. Krazy Kat equivoca, e considera le mattonate come dichiarazioni d'amore. Terzo protagonista, l'agente Pupp (un cane): anch'egli innamorato di Krazy Kat, tenta sempre di mettere in galera Ignazio, spesso riuscendovi. Sullo sfondo, la contea di Coconino nei disegni magici di George Herriman.  (nativo di New Orleans, 1880-1944: Krazy Kat è degli anni '30).
La storia del mattone mi è sempre sembrata una cosa strana, però poi ho trovato delle comiche di Charlot, le primissime girate un America, dove si vede esattamente questa cosa, per esempio in "Laughing gas" (Charlot dentista, 1914). Nella sua autobiografia, Chaplin si lamenta della rozzezza di queste comiche, tutte basate su sganassoni e inseguimenti; ne era responsabile Mack Sennett, che comunque ebbe il merito di far debuttare Charlot sullo schermo (va ricordato che nel 1914 il cinema esisteva da meno di vent'anni). E' molto probabile che Herriman abbia preso ispirazione proprio da queste comiche di Mack Sennett, o da una fonte comune.

venerdì 23 dicembre 2016

Il cammello nel presepio


Il cammello ha due gobbe, il dromedario ne ha una sola. Questo lo sanno tutti, o forse no, non lo sanno davvero tutti, molti se ne dimenticano, altri se ne infischiano, come dar loro torto. In fin dei conti, non è che tutti i giorni ci capiti di incontrare un cammello (o dromedario che sia). A dirla tutta, vengono chiamati "kamel" o "camel" entrambi, un po' in tutte le lingue. Vivono in due posti molto diversi: il cammello a due gobbe è asiatico, per sua natura lo si trova dalle parti dell'Afghanistan o dell'Iran; è peloso, ha una lana lunga che è poi quella dei cappotti di cammello (si usano ancora?). Il dromedario vive in Egitto e in tutto il Sahara: ha una gobba sola e il pelo è corto, quindi il cappotto di dromedario ce lo possiamo dimenticare. Una volta l'ho detto a un collega sul posto di lavoro, che mi ha risposto "io sono stato in Egitto e ci ho visto il cammello con due gobbe"; se è per questo (ma non gli ho risposto, ho sospirato e ho lasciato perdere) io i cammelli li ho visti a Como, non distanti dal lago, al confine con la Svizzera: ero allo zoo, da bambino. Li ho visti anche e duecento metri da casa mia, dromedari e cammelli ed elefanti: al circo, allora si usava. I dromedari sono anche in Australia, numerosissimi: ce li hanno portati nell'800, non sono più andati via, l'Australia è piena di deserti e i dromedari ci si trovano benissimo. Sono due specie molto vicine, lo si vede dal nome scientifico: Camelus dromedarius e Camelus bactrianus; questo significa che possono incrociarsi e fare figli insieme. Non in natura, ma negli zoo e nei circhi, in cattività.

mercoledì 21 dicembre 2016

Una pulce gentile



Viviamo in un'epoca fortunata: non abbiamo frequentazioni con le pulci. Nei secoli passati, invece, le pulci erano compagnia quotidiana dei nostri avi. Compagnia non certo gradita, ma ci si poteva anche scherzare sopra: come fa Goethe nel Faust, che ci costruisce sopra una canzone da osteria. Volendo, si può ascoltare come l'ha messa in musica Héctor Berlioz (in francese, però)


Hector Berlioz, Méphistophélès's aria from La Damnation de Faust ( clic qui per l'ascolto )

Une puce gentille
Chez un prince logeait.
Comme sa propre fille,
Le brave homme l'aimait,
Et, l'histoire assure,
À son tailleur un jour
Lui fit prendre mesure
Pour un habit de cour.
L'insecte, plein de joie
Dès qu'il se vit paré
D'or, de velours, de soie,
Et de crois décoré.
Fit venir de province
Ses frères et ses sœurs
Qui, par ordre du prince,
Devinrent grands seigneurs.
Mais ce qui fut bien pire,
C'est que les gens de cour,
Sans en oser rien dire,
Se grattaient tout le jour.
Cruelle politique!
Ah! plaignons leur destin,
Et, dès qu'une nous pique,
Ecrasons-la soudain!

Ballata della pulce, dal Faust di Goethe
C'era una volta un re che aveva una gran pulce che egli amava non poco, come se fosse stata suo figlio. Chiamò il suo sarto e il sarto venne: « Misura i vestiti al signore, misuragli i calzoni!»
Venne vestita di velluto e di seta, ebbe nastri e decorazioni, fu persino ministro e portava una grande stella sul petto; allora i suoi fratelli e le sue sorelle diventarono importanti a corte; e dame e signori a corte vennero assai tormentati, la regina e le ancelle pizzicate e morsicate. Ma non era permesso di schiacciare la grande pulce e di cacciarla via grattandosi; noi però le schiacciamo e le affoghiamo subito, quando una ci pinza.

(traduzione di Giovanni Amoretti, dal Faust di Goethe, scena della cantina di Auerbach a Lipsia)

(il dipinto è di Giuseppe Maria Crespi; il disegno è di Ray Caesar)

martedì 13 dicembre 2016

Il gatto della prima amorosa

La voglia di attenuare la noia derivante dalle lezioni di filosofia impartite dai domenicani, porta Carlo Goldoni a assistere alle recite di una compagnia di commedianti veneziani in tournée a Rimini, città in cui il giovane Goldoni studia e, successivamente, col pretesto di voler riabbracciare la madre, a imbarcarsi di nascosto con la compagnia di comici in partenza. Il viaggio per Chioggia dura tre giorni e lo scrittore nelle sue memorie lo ricorda così :

 "... presentava peraltro un piacevole colpo d’occhio, questa compagnia imbarcata. Dodici persone fra comici e attrici, un suggeritore, un macchinista, un guardaroba, otto servitori, quattro cameriere, due nutrici, ragazzi d’ogni età, cani, gatti, scimmie, pappagalli, uccelli, piccioni e un agnello: pareva l’arca di Noè.
La barca essendo spaziosissima, vi erano molti spartimenti e ogni donna aveva il suo bugigattolo con tende; era stato accomodato un buon letto per me accanto al direttore, e ciascuno era ben allogato.
particolare di un dipinto di J.H. Fragonard
Dopo la colazione fu proposta una partita per aspettare il pranzo. (...) Si giocava, si rideva, si scherzava, e si facevano burle a vicenda: ma la campana annunzia il pranzo, e tutti vi concorrono. Maccheroni! tutti vi si affollano sopra, e se ne divorano tre zuppiere; bue alla moda, pollame freddo, lombi di vitella, frutta, eccellente vino: ah, che buon pranzo - oh, che appetito! La tavola durò quattro ore; si suonarono diversi strumenti e si cantò molto. La servetta cantava a meraviglia; io la guardavo attentamente, ed essa mi faceva una sensazione singolare: ma ahimè! successe un caso che interruppe il brio della compagnia. Scappò dalla sua gabbia un gatto, che era il trastullo della prima amorosa; ella chiama tutti in soccorso, e gli si corre dietro; ma il gatto, che era selvatico come la sua padrona, sgusciava, saltava, si rimpiattava dappertutto, e vedendosi inseguito si arrampicò sull’albero del legno. Madama Clarice si trova impacciata; un marinaio sale per riprenderlo, e il gatto si slancia in mare e vi resta. Ecco la sua padrona in disperazione; vuol fare strage di tutti gli animali che scorge, vuol precipitar nella tomba del suo caro gattino la sua cameriera: tutti ne prendono la difesa, e diviene generale l’altercazione. Sopraggiunge il direttore; ride, scherza, fa carezze all’afflitta dama, che termina col ridere ella stessa: ed ecco il gatto in oblio. "


C. Goldoni, Mémoires
traduzione di Francesco Costero

domenica 11 dicembre 2016

Pioppi dorati e passeri saltellanti

Attraversammo una specie di letto di fiume melmoso traverso un folto sottobosco e radi salici e uscimmo dall'altra parte un po' bagnati e attaccammo il sentiero (...).

"Guarda laggiù" cantò Japhy "pioppi ingialliti. Mi danno l'ispirazione per un Haiku... "
"Parlando di vita letteraria - i pioppi dorati".
Percorrendo quella regione era facile comprendere le gemme perfette di haiku scritti dai poeti orientali, che mai si ubriacavano sulle montagne né altro ma semplicemente camminavano puri come bambini annotando ciò che vedevano senza artifici letterari né espressioni ricercate. Componemmo alcuni haiku mentre salivamo su a serpentina, su sempre più su ora lungo il declivio cespuglioso.

"Sassi sul fianco del precipizio" dissi "perchè non rotolano giù ?" " Forse è un haiku, forse no può darsi che sia un po' troppo complicato" disse Japhy. " Un vero haiku deve essere semplice come il porridge e nello stesso tempo farti vedere la realtà delle cose, così il più grande di ogni haiku è probabilmente quello che dice "Saltella il passero sulla veranda, con le zampette bagnate". Di Shiki.
Tu vedi le impronte umide delle zampe come una visione della mente eppure in quelle poche parole vedi anche la pioggia che è caduta quel giorno e quasi profuma di aghi di pino bagnati."
"Dimmene un altro"
" Questa volta ne faccio uno io, vediamo un po', " Sotto il lago...buche nere che fanno le sorgenti", no porco cane questo non è un haiku, non si fa mai abbastanza attenzione con questi haiku".
" Che cosa ne diresti di comporli di getto lungo la strada, spontaneamente?


Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma




L'haiku, di tradizione giapponese, è un componimento poetico di 17 sillabe, distribuite in tre versi secondo lo schema 5, 7, 5 .
Privo di titolo, essenziale, l'haiku lascia al lettore la possibilità di completarne e interpretarne il senso. La natura costituisce il suo soggetto e nell’ultimo verso appare di solito un accenno alla stagione in cui il testo è stato composto (kigo).

sabato 3 dicembre 2016

Falco grillaio



Un falco grillaio, la cupa-cupa e del muschio. Tre immagini che mi ricordano Matera, città a cui sono legata, e che hanno ispirato a Giuliano un sonetto.
Voi quali parole avreste scelto per la vostra città?







Un falco in volo nel cielo di Matera
un falco in volo spiato dal solaio
un falco in volo poco prima che sia sera;
fa ancora freddo, è già quasi febbraio,

fuori s’annuvola e il falco si dispera

non trova la sua preda e questo è un guaio.
Ricorda il tempo che ci culla e che ci assilla,
tempo che passa nel volgere di un nulla;

è un ritmo primordiale, un cupa-cupa

che mi sospinge qui, come la lupa
come la lonza e come fa il leone

ma il muschio e i Sassi non son la selva oscura,

la luce della sera è chiara e pura,
e vola ancora su il falco grillaio.

II


Non essendo mai stato a Matera,

devo ammetterlo, è un sonetto un po’ strano;
non essendo mai stato a Grassano
non essendo mai stato a Matera
ma comunque pensandovi, è umano.

( ma comunque ci penso, Giuliano )


Giuliano Bovo


                                                                                                  ( il pastello con il falco grillaio è opera mia )

mercoledì 30 novembre 2016

« Have you had your tea? ».


Eravamo in un bel giardino, tenuto in ordine dai giardinieri del Collegio e curato personalmente con edoardiana finezza dalla moglie del Guardiano ("Direttore"), la nostra amica Thelma. C'erano aiuole di fiori, ogni specie di fiori, e Thelma ci diceva i nomi dei più esotici; c'erano forbite aiuole di ortaggi, arbusti ornamentali, ben curati alberi da frutto. Rientrando, sulla porta della scullery ci venne incontro una gatta, che usciva pigramente. Thelma le chiese, in perfetta serietà, « Have you had your tea? ». Incontrammo poi Emily. Thelma fece le presentazioni, il nome per me poetico (la Dickinson, e quella meravigliosa bambina in Giamaica) mi sembrò un po' incongruo per una gallina. Del resto non sarebbe stato un po' imbarazzante, quando fosse venuto il momento... non sapevo come dirlo delicatamente, insomma, metterà Emily in pignatta...mangiarla...
Thelma in principio non capiva. Mangiarla? Poi un lampo le squarciò la mente, non molto diverso da uno spasimo di terrore. Si riprese subito, gli stranieri dicono cose strane quasi per definizione, ma per fortuna le convenzioni della vita civile sono fatte proprio per allontanare dagli occhi, dalle orecchie, dal pensiero ciò che è crudo, orrendo... La gentilezza deve prevalere sul resto, i giovanotti stranieri in fondo non sono cattivi, è bene sorridergli, dirgli quietamente che Emily, no, davvero non è da mangiare, è un'amica... Emily gettava le sue occhiate sghembe di qua e di là. Mah! Sarà più assurdo allevarle impersonalmente nel pollaio e poi mangiarle, o invece trattarle da signorine au pair, immangiabili?

(Luigi Meneghello, Il dispatrio, pag. 124 ed.BUR 2007)


(le galline sono di Gustav Klimt, anno 1917)

domenica 27 novembre 2016

Scintilla, diamante


Dapertutto (con una p sola) è uno dei mefistofelici cattivi che popolano i racconti di Hoffmann, tra fine Settecento e inizio Ottocento. Persone all'apparenza normali, che noi frequentiamo come se fossero normali conoscenze, ma che lavorano per il male e per la nostra rovina; che ci rubano l'ombra, o l'immagine riflessa allo specchio, o chissà cos'altro ancora. Jacques Offenbach mette in musica i Racconti di Hoffmann a fine Ottocento; questa è l'aria di Dapertutto, che confida nelle pietre preziose e nei gioielli, non diversamente dal Mefistofele di Goethe con lo scrigno offerto a Margherita.




clic sull'immagine



Scintille, diamant,    
Miroir où se prend l'alouette,    
Scintille, diamant, fascine, attire-là    
L'alouette ou la femme a cet appas vainqueur    
Vont de l'aile ou du coeur    
L'une y laisse la vie    
Et l'autre y perd son âme.    
Beau diamant, scintille, attire-là.    
(scintilla, diamante, specchietto per le allodole... scintilla, diamante, affascinala, attirala.
Che sia allodola o donna, a quest'esca vincente vanno con le ali o con il cuore.
Una vi lascia la vita, l'altra vi perde l'anima.)

                                                                                  un clic qui per ascoltare l'aria

venerdì 25 novembre 2016

Federigo Tozzi


Che punto sarebbe quello dove s'è fermato l'azzurro ?
Lo sanno le allodole che prima vi spaziano e poi vengono come pazze vicino a me ?
Una mi ha proprio rasentato gli occhi, come se avesse avuto piacere d'impaurirsi così, fuggendo.

(Federigo Tozzi, Bestie, pag.17 ed. Theoria 1987)



(dipinto di Caspar David Friedrich)

martedì 22 novembre 2016

Sera d'autunno


In una sera d'autunno calda e umida arrivai in una città che mi era quasi sconosciuta; la poca luce delle strade era attenuata dall'umidità e dalle foglie degli alberi. Entrai in un caffè che si trovava vicino a una chiesa, mi sedetti a un tavolino in fondo e pensai alla mia vita. Sapevo ritagliarmi le ore di felicità e rinchiudermi in esse; innanzitutto rubavo con gli occhi dalla strada o dall'interno delle abitazioni una qualunque cosa dimenticata, e quindi la posavo nella mia solitudine. Provavo un tale piacere nel riesaminarla che se la gente lo avesse saputo mi avrebbe odiato.

da "Il coccodrillo" in Le Ortensie di Felisberto Hernández,
ed. laNuovafrontiera

Qui qualcosa sull'autore

Qui composizioni musicali di Felisberto Hernández

domenica 20 novembre 2016

Il gatto di Wilcock


Rientrai nel teatro col Riccardo III di Shakespeare, per la regia di Ronconi. (...) La traduzione era di Rodolfo Wilcock, letterato fine e personaggio singolare. L'avevo conosciuto a Velletri, dove viveva in una casa disadorna alitante di piccoli misteri. Gigi Proietti racconta di avere un giorno visitato Wilcock per parlare di una versione del Faust di Marlowe; Wilcock esponeva il suo pensiero con voce pacata quando un gatto attraversò la stanza DICENDO distintamente: «Io vado fuori, mi sono seccato.» Lo scrittore continuò a discorrere; dopo un paio di minuti Gigi non resse e chiese stupefatto: «Ma... io ho visto passare un gatto, poco fa...». «Sì, sì, il mio gatto.» «Ho capito, ma... Parla?» E Wilcock, secco: «Sì, ma non sempre. Dicevamo dunque che Faust...»

(Vittorio Gassman, Un grande avvenire dietro le spalle, pag. 188 ed. Longanesi 1981)



(dipinto di Adolf von Becker, 1863)

venerdì 18 novembre 2016

Ragni e Giardini


(la foto del ragno sulla finestra è mia)
In fondo al parco c'era un pergolato protetto da piante rampicanti, profumato di gelsomino e di caprifoglio; uno di quegli angolini deliziosi che, spinti da impulsi generosi, gli uomini erigono a esclusivo beneficio dei ragni.


(Charles Dickens, Il circolo Pickwick, pag.132 vol.1 ed. Garzanti 2003)

mercoledì 16 novembre 2016

Corcal



Un mar deserto
sensa vele e rumuri
de lontani vapuri
su l'urizonte inserto.
Ale ferme, un corcal
vilisa col maistral
ne l'alta solitae
de la fiamante istae.
Solo 'l sol, al so logo,
fermo, siguro,
difuso ne l'azuro
el grande fogo.
Solo elo nel spassio
fora d'ogni misura
in quel topassio
che te riduse a luse pura.

(Un mare deserto, senza vele né rumori di barche a vapore lontane, sull'orizzonte incerto. Ali ferme, un gabbiano veleggia col maestrale nell'alta solitudine dell'estate fiammante. Solo il sole, al suo posto, fermo, sicuro, diffuso nell'azzurro il gran fuoco. Solo lui nello spazio, fuori d'ogni misura, in quel topazio che ti riduce a luce pura.)
(Biagio Marin, pagina 205 dalla raccolta "Nel silenzio più teso" ed. Rizzoli 1981)

lunedì 14 novembre 2016

Il porcelet di Chartres



fai click qui








                                                      ( grazie a Grazia )

sabato 12 novembre 2016

Gli alfieri del tempo


Giulietta e Romeo hanno passato insieme la notte. Sentono cantare l’allodola, messaggera del mattino; Romeo deve fuggire prima che la luce del giorno riveli nella casa e nella città la sua presenza ma Giulietta cerca come può di trattenerlo ancora

l'usignolo e la rosa di D.K.Barton
Giulietta Vuoi già partire? Il giorno non è ancora vicino: era l’usignolo e non l’allodola, quello che che ti ha ferito col suo canto l’orecchio trepidante; esso canta tutte le notti su quel melograno laggiù: credi, amor mio, era l’usignolo.

Romeo Era l’allodola, messaggera del mattino, non l’usignolo: guarda amore come quelle strisce di luce, invidiose della nostra gioia, cingono di una frangia luminosa le nubi che si disperdono laggiù nell’oriente; i lumi della notte si sono spenti a poco a poco, e il dì giocondo si affaccia in punta di piedi sulle nebbiose cime delle montagne: io debbo partire e vivere, o restare e morire.


William Shakespeare, Romeo e Giulietta ,  Atto III , scena V  

giovedì 10 novembre 2016

Il cavallo di Brunilde


Nel mondo di Wagner, così come nella mitologia e nei racconti cavallereschi, spade e cavalli hanno sempre un nome: Baiardo, Bucefalo, Durlindana, Excalibur... Nell'Anello del Nibelungo la spada si chiama Notung, e il cavallo di Brunilde è Grane.
Grane, mein Ross!
Sei mir gegrüsst!
Weisst du auch, mein Freund,
wohin ich dich führe? (...)
Grane, mio cavallo! Abbi il mio saluto! Sai anche tu, amico mio, dove io ti conduco? Tra fuoco rilucente, là giace il tuo signore.
(Richard Wagner, parole e musica.)
E' il finale di "Götterdämmerung", Il Crepuscolo degli dèi, che chiude tutto il lungo percorso dell'Anello del Nibelungo. Non un bel destino, quello di Grane; ma alla fine, nel rogo finale del Walhalla, l'oro ritornerà al suo posto, nella Natura incontaminata, tra le acque del Reno. Così sarà anche di noi e delle nostre imprese umane, viene da pensare; non sappiamo però quando, anche se - è quasi sicuro - noi non ci saremo.





clic sull'immagine per ascoltare il finale di "Götterdämmerung"

(le illustrazioni wagneriane sono di Rackham)

martedì 8 novembre 2016

Swift, il bonsai salvato da Méliès



Amelie Nothomb

La salvezza appartiene al campo del più bizzarro mistero. Il 21 dicembre 2011 ho ricevuto in regalo un bonsai di raffinata bellezza. L'ho portato nel mio appartamento e l'ho battezzato Swift. Due settimane dopo Swift ha cominciato a morire. Sono corsa dalla venditrice autoproclamatasi specialista di quella specie che mi ha detto:

- Il suo bonsai è agonizzante.
- Lo so. Cosa mi consiglia?
- Niente.
- Ma ci sarà pure qualcosa che si può fare!
- Contro la morte?
- Non è ancora morto. Finchè c'è vita, c'è speranza.
Lei alzò gli occhi al cielo.

- Queste scemenze non valgono per i bonsai. Fin dall'infanzia ha vissuto torture che lei non può neanche immaginare. Non ci tiene più a vivere, capisce...
Mi resi conto che la venditrice era una depressa che attribuiva le proprie patologie alle sue piante, e me ne andai.
Per la strada, passai davanti a un cinema in cui davano Hugo Cabret di Scorsese.L'orario era quello giusto. Acquistai un biglietto e aspettai in fila con Swift in braccio. La gente mi guardava e scuoteva la testa. Venuto il momento, mi accomodai in sala. Swift, sulle mie ginocchia, sembrava sul punto di esalare l'ultimo respiro. Osavo appena immaginare i tormenti che gli erano stati inflitti durante la crescita per ridurlo alla condizione di bonsai. Il fatto di apprezzare questa specie torturata la dice lunga sul nostro grado di sadismo.
Cominciò il film. La prima metà mi piacque poco ed ebbi quasi la tentazione di addormentarmi. Al cinema si dorme molto meglio che a letto: è un sonno cosciente. Ma la seconda parte mi entusiasmò da matti e fui svegliata in preda a emozioni lunari. La figura di Méliès mi riconciliò con la conquista dello spazio e uscii dalla sala esultante. Tra le mie braccia Swift manteneva un silenzio meditativo.
Una volta a casa depositai la mia pianta di compagnia accanto alla caffettiera e continuai la mia vita. L'indomani il bonsai era resuscitato. Solo che non è più un bonsai. Ne ha sempre il corpo gracile, ma ormai produce delle foglie grandi come quelle di un baobab. Scorsese lo ha lberato dal maleficio della piccolezza.

Amelie Nothomb, La nostalgia felice, ed. Voland

Méliès, L'homme à la tête en cahoutchouc (Star Film, 1901)

domenica 6 novembre 2016

Biblico


Ecco, l'ippopotamo, che io ho creato al pari di te,
mangia l'erba come il bue.
Guarda, la forza è nei suoi fianchi
e il suo vigore nei muscoli del ventre.
Rizza la coda come un cedro,
i nervi delle sue cosce s'intrecciano saldi,
le sue vertebre, tubi di bronzo,
le sue ossa come spranghe di ferro.
Esso è la prima delle opere di Dio;
il suo creatore lo ha fornito di difesa.
I monti gli offrono i loro prodotti
e là tutte le bestie della campagna si trastullano.
Sotto le piante del loto si sdraia,
nel folto del canneto e della palude.
Lo ricoprono d'ombra i loti selvatici,
lo circondano i salici del torrente.
Ecco, si gonfi pure il fiume: egli non trema,
è calmo, anche se il Giordano gli salisse fino alla bocca.
Chi potrà afferrarlo per gli occhi,
prenderlo con lacci e forargli le narici?
(Libro di Giobbe 40, 15-24) (traduzione da La Bibbia di Gerusalemme, 1983, edizioni Dehoniane Bologna)

(fotografie di Lewis Hine)

venerdì 4 novembre 2016

Ma cosa sono i lupini?


foto scattata da G. Verga ( 1911 )
" Padron 'Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c'era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po' avariati; ma non ce n'erano altri a Trezza, e quel furbaccio di Campana di legno sapeva pure che la Provvidenza se la mangiavano inutilmente il sole e l'acqua, dov'era ammarrata sotto il lavatoio, senza far nulla;
(...)
Allorché la Longa seppe del negozio dei lupini, dopo cena, mentre si chiacchierava coi gomiti sulla tovaglia, rimase a bocca aperta; come se quella grossa somma di quarant'onze se la sentisse sullo stomaco. Ma le donne hanno il cuore piccino, e padron 'Ntoni dovette spiegarle che se il negozio andava bene c'era del pane per l'inverno, e gli orecchini per Mena, e Bastiano avrebbe potuto andare e venire in una settimana da Riposto, con Menico della Locca. Bastiano intanto smoccolava la candela senza dir nulla . Così fu risoluto il negozio dei lupini, e il viaggio della Provvidenza, che era la più vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Maruzza se ne sentiva sempre il cuore nero, ma non apriva bocca, perché non era affar suo, e si affaccendava zitta zitta a mettere in ordine la barca e ogni cosa pel viaggio, il pane fresco, l'orciolino coll'olio, le cipolle, il cappotto foderato di pelle, sotto la pedagna e nella scaffetta
."


Per uno studente o per un lettore italiano che non sia nato al Sud, sono tante le parole misteriose de "I Malavoglia". Alla "sciara", il terrazzamento lavico dove Maruzza la Longa aspetta inutilmente il ritorno del marito, e alla "Puddara", la stella polare che 'Ntoni vede prima di abbandonare per sempre la casa del Nespolo, si sommano i "lupini"di zio Crocifisso. Insegnanti  ignari, allo sbaraglio quanto i loro alunni, e vaghe o del tutto assenti note nelle edizioni critiche del romanzo hanno  finito per infittire il mistero  sul carico trasportato da Bastianazzo con la Provvidenza.

Cosa sono dunque i lupini e perchè Verga li ha legati al primo sfortunato tentativo di riscatto della famiglia Toscano?

mercoledì 2 novembre 2016

Cani e sciacalli


All'inizio dell'era neolitica compare il primo animale domestico, un piccolo cane addomesticato solo a metà, simile a un volpino, che certamente discende da uno sciacallo. (...) Ma come è avvenuto l'incontro fra l'uomo dell'età della pietra e il suo cane? Probabilmente nell'era paleolitica grossi branchi di sciacalli seguivano le orde dei cacciatori nomadi circondandone gli insediamenti, come fanno ancor oggi i "cani paria" che nessuno sa se vadano considerati dei cani domestici rinselvatichiti, oppure dei cani selvatici che hanno fatto il primo passo verso l'addomesticamento. (...)

lunedì 31 ottobre 2016

I cigni di Bruges


fai click qui
" Ma il volto della Città è soprattutto quello di una Credente. Da Lei, dai muri dei suoi ospizi e dei conventi, come dalle tante chiese inginocchiate nelle loro tuniche di pietra, emanano consigli di fede e di rinunzia.(...) Per le strade vuote, dove di tanto in tanto sopravvive un lampione, si muoveva in lontananza qualche rara figura; donne del popolo con lunghe mantelle, quelle mantelle di panno, nere come le campane di bronzo e ugualmente oscillanti. (...)
Ma fra tutti i suoi pellegrinaggi attraverso la città, Hugues amava in particolare l'ospedale Saint-Jean, dove era stato il divino Memling (...). Hugues pure vi si recava con la speranza di guarire, di lenire la sua retina in fiamme lungo quelle pareti bianche...
Il grande Catechismo della Quiete!
I giardini interni, circondati di bosso; le stanze dei malati, tutte distanti, dove si parla a voce bassa. Passano delle religiose, turbando appena il silenzio, come i cigni dei canali muovono impercettibilmente la superficie dell'acqua. Nell'aria fluttua un odore di panni umidi, di cuffie sgualcite dalla pioggia, di tovaglie d'altare appena tolte dagli armadi antichi...
 (...)
Quella sera, tornandosene lungo i quais, si sentì inquieto, minacciato da un pericolo sconosciuto. (...) Nel canale che stava costeggiando si agitarono i cigni, quei bei cigni secolari, discesi, secondo la leggenda, da un antico blasone... Cigni dell'espiazione, che la città fu condannata a mantenere in eterno, per aver messo a morte ingiustamente il nobile alle cui insegne appartenevano. Essi, di solito così bianchi e calmi, a un tratto si spaventarono: impressionati e febbrili, graffiando la superficie screziata del canale, si mossero attorno a uno di loro, che batteva le ali e si sollevava sull'acqua... "

Geoges Robenbach, Bruges la morta, Fazi editore

sabato 29 ottobre 2016

Il cagnolino del Barocci


Del Barocci, l'enciclopedia narra che era di Urbino, dove nacque in un anno imprecisato tra il 1528 e il 1535; e che il suo vero nome era Francesco Fiori. Dice anche che si ispirò a Raffaello e a    Correggio, e che  "avviò un manierismo prebarocco".
Non m'intendo di queste cose, e la storia dell'Arte non è il mio forte (ammesso che io ne abbia uno). Però mi piace girare per le mostre, e in una di queste, anni fa, mi sono imbattuto nel Barocci, o meglio in un suo dipinto di dimensioni molto grandi. In un angolino, in basso, c'era un cagnolino; ho dimenticato tutto il resto e mi sono fermato a guardarlo.

giovedì 27 ottobre 2016

Cocorita


Entrò in un bar - una casa verde, una specie di castelletto con i merli - all'angolo di via Meliàn con via Olazabàl. Dietro il banco c'era un individuo malaticcio e molto sporco. (...) Gauna ordinò una grappa. Dopo il terzo bicchiere sentì una voce gutturale, stridula e, secondo quanto gli sembrò, diabolica, che ripeteva: "La fortuna". Si voltò a destra e vide avanzare verso di lui, sull'orlo del banco, una cocorita. Più indietro, più in basso, rigidamente allungato su una piccola sedia, quasi sdraiato per terra, un uomo riposava, con la faccia rivolta al soffitto; accanto all'uomo, appoggiata alla spalliera di una sedia identica, c'era una cassetta che aveva nel mezzo, a modo di piede, un lungo palo. La cocorita insisteva: "la fortuna, la fortuna"; continuava ad avanzare e ormai era vicinissima. Gauna voleva pagare e andarsene, ma il barista era scomparso da una porta aperta sulla penombra del retrobottega. L'animale agitò le ali, aprì il becco, rizzò le sue piume verdi e, subito, recuperò la sua liscezza; poi fece un altro passo verso Gauna. Questi si rivolse all'uomo coricato sulla sedia.
- Signore, - gli disse - il suo pappagallino vuole qualcosa.
L'altro, immobile, rispose:
- Vuole indovinare la sua fortuna.

lunedì 24 ottobre 2016

Il giardino di Barbablù


illustrazione di Arthur Rackham
Nella favola di Perrault, Barbablù chiede in sposa una tra due bellissime sorelle e, aprendo la sua dimora a parenti e amici delle fanciulle, riesce a far dimenticare il colore della sua barba e la sua cattiva reputazione: offre ai suoi ospiti otto giorni di perfetto svago.
E’ la più giovane delle sorelle a decidere di accettare la proposta di matrimonio.

A un mese dalle nozze, Barbablù, dovendo partire, affida alla sua sposa le chiavi delle stanze della dimora, vietandole però di aprire la porta di un salottino. Barbablù si allontana e la donna, pur temendo la collera del marito, si dirige verso la stanza cui le è precluso l’accesso e, senza indugiare, apre la porta. Sulle prime non vede niente, poi, pian piano, scorge sul pavimento sangue rappreso e, lungo le pareti, i cadaveri allineati di tutte le donne che Barbablù aveva sposato e poi ucciso. Sgomenta, la sposa lascia cadere le chiavi sul pavimento sporco di sangue. Barbablù torna prima del previsto; la moglie cerca di non far trapelare la sua agitazione ma Barbablù non tarda ad accorgersi che il suo divieto è stato infranto: le chiavi del salottino, sebbene ripulite, sono sporche di sangue. La sposa sa adesso cosa l’aspetta e chiede a Barbablù di darle modo di prepararsi a morire ritirandosi in preghiera; chiede una dilazione perché sa che i suoi fratelli stanno per giungere alla villa, sa che può salvarsi, è una questione di tempo. I fratelli giungeranno proprio quando Barbablu starà per colpire la fanciulla. Ad essere ucciso sarà Barbablù e non l’ultima delle sue spose. E’ il due ( le due sorelle, i due fratelli ) a prendere il sopravvento sull’uno; Barbablù dopo ogni matrimonio uccide per tornare ad essere “uno” ma nella favola di Perrault è il numero dell’unione a vincere, il numero della coppia.

sabato 22 ottobre 2016

Piero della Francesca e le vespe di Jean Fabre



Il dipinto, datato 1474, è uno dei più famosi, e si trova a Brera: come sempre in Piero della Francesca ci si trova davanti a qualcosa di meraviglioso, e di spiazzante. Vengono sempre i brividi davanti a Piero della Francesca, non solo per la bellezza delle sue composizioni. E' come se Piero avesse accesso a qualcosa di soprannaturale, penso che sia l'impressione di molti di noi davanti alla Madonna del Parto, o ai capolavori conservati a Urbino. Piero della Francesca è tutto così, ma questo dipinto fa nascere più di un interrogativo anche allo sguardo più distratto. Prendo allora un libro, il primo che mi capita sotto mano, e cerco una descrizione fatta come si deve:

«... Nella "Pala Brera" ritroviamo immagini e motivi familiari in un'impaginazione di eccezionale grandiosità: il profilo di Federico di Montefeltro sull'armatura rutilante di riflessi in primo piano e l'architettura dipinta entro la quale sono situate le figure richiamano la perfetta prospettiva della Flagellazione. Dieci figure di santi sono disposte a semicerchio intorno all'immagine della Vergine con il Bambino e riecheggiante, sottolineandolo, l'andamento della nicchia, che conclude l'abside a specchiature marmoree e lesene classiche sullo sfondo; dalla conchiglia nel catino absidale pende un guscio di uovo di struzzo, simbolo della Creazione e dei quattro elementi secondo la letteratura medievale, ovvero dello spazio centrico, armonico e perfetto, secondo l'ideale rinascimentale; si tratta comunque di un efficace elemento di definizione spaziale nella complessa geometria della composizione, guidata da princìpi di rapporti e rispondenze armoniche. (...) »
(pag.217 volume V Storia dell'Arte ed.De Agostini, autore non specificato)

giovedì 20 ottobre 2016

Foca

(James Thurber, da Linus ottobre 1965)

martedì 18 ottobre 2016

Licheni


Quando il mare era già mare, la terra non era altro che nuda roccia. I licheni, venuti dal mare, fecero le praterie. Loro invasero, conquistarono e inverdirono il regno della pietra. Questo accadde nella notte dei tempi, e continua ancora ad accadere. Dove non vive nulla, vivono i licheni: nelle steppe gelate, nei deserti ardenti, nella parte più alta delle montagne più alte. I licheni vivono fintanto che dura il matrimonio fra le alghe e i loro figli, i funghi. Se il matrimonio si disfa, si disfano i licheni. Talvolta le alghe e i funghi divorziano, per liti e discussioni. A detta delle alghe, i funghi le tengono al chiuso e non gli lasciano vedere la luce. A detta dei funghi, le alghe li nauseano con tutto lo zucchero che gli danno giorno e notte.
( Eduardo Galeano, da "Le labbra del tempo" pag.4 ed. Sperling & Kupfer 2004, traduzione di Marcella Trambaioli )

Gli incospicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli ad esistere...
Così dichiarava Camillo Sbarbaro, che visse tutta la vita studiandoli. E ne scoprì nuove specie diventando uno specialista di fama internazionale. Questo suo amore segreto e scabro, che riesce a vivere nell'aridità più totale e nell'indifferenza della roccia, è anche il paesaggio della sua terra; il deserto - poi - della sua poesia tesa e aspra. Il distacco e il disaccordo col mondo costituiscono il trucco di cui si veste la sua opera (che per i temi mi è così tanto cara...). Così la sua vita tanto ricca di energia e di pathos si fa tanto più essenziale e dimessa nel suo linguaggio lirico.

domenica 16 ottobre 2016

Soia


« Perchè dovrei chiamarmi fuori? no, io mi chiamo dentro, this land is my land. (...) ...ogni tanto, oltre il bordo della strada, due campi spelacchiati di granturco o di soia. Ma quanto è brutta, la soia! quando si seccano i campi, la soia ti scarica vagoni di cimici in casa. Dicevo, due campi spelacchiati di granturco e di soia ti illudono di essere in campagna, fuori porta: no, c'è una linea di villette e capannoni che ti corre parallela alla strada e ti trovi più o meno invischiato nella stessa area industriale artigianale centrodirezionale che avevi appena mollato. (...) »
(Marco Paolini, minuto 22 da Bestiario italiano, anno 2000)

"Bestiario italiano" è il più bello in assoluto tra gli spettacoli di Marco Paolini (parere personale, ma è ricco di poesia vera e ha musiche molto belle e molto ben eseguite). Qui Paolini, nel suo giro d'Italia, sta descrivendo la Padania (che è sua, ma anche mia): la Padania, "una secessione cantonale ogni pissàda de can" (purtroppo ormai è vero in ogni parte d'Europa dove si tiran su i muri...)

sabato 15 ottobre 2016

L'orologio della lumaca




illustrazione di E. Luzzati
— Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?… Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?… Scommetto che non me la perdona!… oh! non me la perdona di certo!… E mi sta il dovere: perchè io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!… ―
 Arrivò al paese che era già notte buia; e perchè faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata, coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.
Ma quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare, si allontanò, correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano, e bussò un piccolo colpettino.

Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:

giovedì 13 ottobre 2016

Il topo che andò in campagna


Una bella domenica un topo di città volle andare a trovare un topo di campagna. Si mise sul treno che il topo di campagna gli aveva detto di prendere, ma scoprì ben presto che il treno, di domenica, non si fermava a Beddington. Così il topo di città non potè scendere a Beddington e prendere l'autobus per Sibert's Junction, dove lo aspettava il topo di campagna. Il topo di città, purtroppo, dovette arrivare fino a Middleburg, dove aspettò tre ore un treno che lo riportasse indietro. Quando fu tornato a Beddington scoprì che l'ultimo autobus per Sibert's Junction era appena partito, così cominciò a correre, a correre e a correre, finché non riuscì a raggiungere l'autobus e a salirci sopra, scoprendo subito che non era l'autobus per Sibert's Junction ma quello che andava nella direzione opposta, attraverso Pell's Hollow e Grumm, fino a un posto che si chiamava Winsherby. Quando finalmente l'autobus si fermò, il topo di città ne discese, sotto una pioggia fitta, e scoprì che non c'erano più autobus, quella notte, per nessuna direzione. «Porco diavolo!» disse il topo di città, e si incamminò verso la città.

(James Thurber aggiunge una morale, che io metto a parte perchè il racconto mi piace già molto anche senza la morale, che è questa: "state dove siete che ci state comodi")

Testo e disegno sono di James Thurber, presi da Linus ottobre 1965; l'originale è facile da trovare, basta cercare su un motore di ricerca Sibert Junction's... (due anticipazioni: "stay where you are, you're sitting pretty" e "to the hell with it!")

martedì 11 ottobre 2016

Il minuscolo piumino

Tra i nostri compagni di pianeta c’è anche un certo animalino il cui nome, francamente, ignoro e con tutta probabilità ignorerei quando pure mi fossi dato la pena di consultare i più minuziosi repertori zoologici. Per darne un’idea alla svelta, dirò che le sue dimensioni appaiono estremamente ridotte ( sui quattro o al massimo cinque millimetri ) ; che la sua forma è all’incirca quella tra rotondeggiante ed oblonga di molti insetti; che il suo colore è di un bianco abbagliante; che il suo aspetto generale è quello di un minuscolo piumino.

domenica 9 ottobre 2016

Conigli a Milano


Questo racconto in realtà contiene una storia d'amore molto bella e molto delicata, al livello del Joyce dei Dubliners per intenderci; ma io qui mi devo limitare alla fuga dei conigli, e quindi si perde tutta la parte portante. Pazienza, vuol dire che chi legge provvederà a completare la lettura con i propri mezzi: in fin dei conti, è questo lo scopo che ci eravamo prefissi nel momento di aprire il blog. Siamo in tempo di guerra, il ventiduenne chimico neolaureato Primo Levi ha trovato lavoro a Milano. Durerà poco: il futuro di Primo Levi, come sappiamo, sarà molto drammatico.

I conigli non sono animali simpatici. Sono fra i mammiferi più lontani dall’uomo, forse perché le loro qualità sono quelle dell’umanità avvilita e reietta: sono timidi, silenziosi e fuggitivi, e non conoscono che il cibo ed il sesso.
Se si eccettua qualche gatto di campagna nell’infanzia più remota, io non avevo mai toccato un animale, e davanti ai conigli provavo repulsione; cosi anche Giulia. Per fortuna, la Varisco aveva invece grande confidenza sia con le bestiole sia con l’Ambrogio che le amministrava. Ci fece vedere che, in un cassetto, esisteva un piccolo assortimento di strumenti adatti; c’era una cassetta stretta ed alta, senza coperchio: ci spiegò che ai conigli piace intanarsi, e se uno li prende per gli orecchi ("che sono il loro manico naturale") e li infila in una cassetta, si sentono più sicuri e non si muovono più. C’era una sonda di gomma e un piccolo fuso di legno con un foro trasversale: bisogna forzarlo fra i denti dell’animale, e poi, attraverso il foro, infilare la sonda in gola senza tanti complimenti, spingendola giù finché si sente che tocca il fondo dello stomaco; se non si mette il legno, il coniglio taglia la sonda coi denti, la inghiotte e muore. Attraverso la sonda e facile spedire gli estratti nello stomaco con una comune siringa. Poi bisogna misurare la glicemia. Quello che per i topi è la coda, per i conigli sono le orecchie, anche in questo caso: hanno vene grosse e rilevate, che si congestionano subito se l’orecchio viene strofinato. Da queste vene, perforate con un ago, si preleva una goccia di sangue, e senza domandarsi il perché delle varie manipolazioni si procede poi secondo Crecelius-Seifert.
I conigli, o sono stoici, o sono poco sensibili al dolore: nessuno di questi abusi sembrava farli soffrire, appena lasciati liberi e rimessi in gabbia si rimettevano tranquilli a brucare il fieno, e la volta successiva non mostravano alcuna paura. Dopo un mese avrei potuto fare glicemie ad occhi chiusi, ma non sembrava che il nostro fosforo facesse alcun effetto; solo uno dei conigli reagiva all’estratto di chelidonia con un abbassamento della glicemia, ma dopo poche settimane gli venne un grosso tumore al collo. Il Commendatore mi disse di operarlo, io lo operai con acre senso di colpa e veemente ribrezzo, e lui morì.
Quei conigli, per ordine del Commendatore, vivevano ciascuno nella sua gabbia, maschi e femmine, in stretto celibato. Ma venne un bombardamento notturno che, senza fare molti altri danni, sfondò tutte le gabbie, ed al mattino trovammo i conigli intenti ad una meticolosa e generale campagna copulatoria: le bombe non li avevano spaventati per nulla. Appena liberati, avevano subito scavato nelle aiuole i cunicoli da cui traggono il nome, ed al minimo allarme abbandonavano a mezzo le loro nozze e ci si rifugiavano. L’Ambrogio ebbe pena a recuperarli ed a richiuderli in gabbie nuove; il lavoro delle glicemie dovette essere interrotto, perché solo le gabbie erano contrassegnate e non gli animali, e dopo la dispersione non fu più possibile identificarli.

Venne Giulia tra un coniglio e l’altro, e mi disse a bruciapelo che aveva bisogno di me. Ero venuto in fabbrica in bicicletta, non è vero? Ebbene, lei quella stessa sera doveva andare subito fino a Porta Genova, c’erano da cambiare tre tram, lei aveva fretta, era una faccenda importante: che per favore la portassi in canna, d’accordo? Io, che secondo il maniaco orario sfalsato del Commendatore uscivo dodici minuti prima di lei, l’attesi girato l’angolo, la caricai sulla canna della bicicletta e partimmo. Circolare per Milano in bicicletta non aveva allora nulla di temerario, e portare un passeggero in canna, in tempi di bombe e di sfollamenti, era poco meno che normale: qualche volta, specie se di notte, accadeva che estranei domandassero questo servizio, e che per un trasporto da un capo all’altro della città ti ricompensassero con quattro o cinque lire. Ma Giulia, già di regola piuttosto irrequieta, quella sera comprometteva la stabilità dell'equipaggio: stringeva convulsamente il manubrio contrastando la guida, cambiava di scatto posizione, illustrava il suo discorso con gesti violenti delle mani e del capo che spostavano in modo imprevedibile il nostro comune baricentro. Il suo discorso era in principio un po’ generico, ma Giulia non era il tipo che si tiene i segreti in corpo ad intossicarlo; a metà di via Imbonati usciva già dal vago, e a Porta Volta era in termini espliciti: era furiosa perché i genitori di lui avevano detto di no, e volava al contrattacco. Perché lo avevano detto?
- Per loro non sono abbastanza bella, capisci? - ringhiò, scuotendo il manubrio con ira.
- Che stupidi. A me sembri abbastanza bella, - dissi io con serietà.
- Fatti furbo. Non ti rendi conto.  (...)
(Primo Levi, il racconto intitolato "Fosforo" da "Il sistema periodico)

venerdì 7 ottobre 2016

Lepri

Al calar della sera arrivai in un fienile. Era diviso da un soppalco a circa due metri dell'altezza e per fortuna ci avevano lasciato la scala a pioli. In un attimo fui di sopra, a scartare i panini imburrati con prosciutto affumicato e pere che mi avevano dato a ó- Kígyós. Poi finii il vino che avevo stappato a mezzogiorno. (...)

Avvolto nel cappotto, la testa sullo zaino, rimasi sveglio a fumare (...) e mi abbandonai a pensieri euforici. Era come nella prima notte all'addiaccio sul Danubio: provavo la medesima sensazione quasi estatica all'idea che nessuno sapesse dov'ero (...).

Punteggiate di papaveri, le onde verde oro dei campi di grano scolorirono. Come in una bilancia a due piatti, il sole rosso si inabissò sotto l'orizzonte e simultaneamente salì una luna arancione. A due giorni soltanto dal plenilunio, la luna sorse dietro un bosco, perdendo velocemente colore man mano che fluttuava verso l'alto, finchè il frumento non apparve indistinto nella semioscurità come un mare metallico e puntuto.
Un gufo si svegliò tra gli alberi e, qualche istante dopo, un fruscio mi strappò dal torpore che precede il sonno. Uno sfregamento di steli e di spighe, e due sagome pallide sgambettarono allo scoperto, si rincorsero tra le stoppie, poi si bloccarono, fissandosi estatiche. Erano due lepri. Più grosse del vero, immobili come in preda a un incantesimo lunare, sedevano erette, con le orecchie drizzate.


Patrick Leigh Fermor, Fra i boschi e l'acqua, ed. Adelphi

Traduzione di Adriana Bottini e Jacopo M. Colucci
acquarello di Jackie Morris

mercoledì 5 ottobre 2016

Zeno e la mosca


Italo Svevo, da La Coscienza di Zeno (capitolo quinto)

Qualche segno su un foglio di carta che conservai, mi ricorda un’altra strana avventura di quei giorni. Oltre all’annotazione di un’ultima sigaretta accompagnata dall’espressione della fiducia di poter guarire della malattia dei cinquantaquattro movimenti, v’è un tentativo di poesia... su una mosca. Se non sapessi altrimenti, crederei che quei versi provengano da una signorina dabbene che dà del tu agl’insetti di cui canta, ma visto che sono stati stesi da me, devo credere che poiché io sono passato per di là, tutti possano capitare dappertutto. Ecco come quei versi nacquero. A tarda notte ero ritornato a casa e invece che coricarmi m’ero recato nel mio studiolo ove avevo acceso il gas. Alla luce una mosca si mise a tormentarmi. Riuscii a darle un colpo, lieve però per non insudiciarmi. La dimenticai, ma poi la rividi in mezzo al tavolo come lentamente si rimetteva. Era ferma, eretta e pareva più alta di prima perché una delle sue zampine era stata anchilosata e non poteva flettersi. Con le due zampine posteriori si lisciava assiduamente le ali. Tentò di moversi, ma si ribaltò sulla schiena. Si rizzò e ritornò ostinata al suo assiduo lavoro. Scrissi allora quei versi, stupito di aver scoperto che quel piccolo organismo pervaso da tanto dolore, fosse diretto nel suo sforzo immane da due errori: prima di tutto lisciando con tanta ostinazione le ali che non erano lese, l’insetto rivelava di non sapere da quale organo venisse il suo dolore; poi l’assiduità del suo sforzo dimostrava che c’era nella sua minuscola mente la fede fondamentale che la salute spetti a tutti e che debba certamente ritornare quando ci ha lasciato. Erano errori che si possono facilmente scusare in un insetto che non vive che la vita di una sola stagione, e non ha tempo di far dell’esperienza.




(Petrus Christus, pittore fiammingo, anno 1446, ritratto di certosino: il dipinto intero e un dettaglio)


lunedì 3 ottobre 2016

Professor Einstein


Il 3 agosto 1946 l'ingegnere capo di una nave mercantile americana scrisse una lettera divertita ad Einstein, raccontandogli un episodio successo a bordo. Il nostromo e il carpentiere avevano trovato un gattino mezzo morto di fame in un porto tedesco e lo avevano adottato, portandolo a bordo e dandogli da mangiare in abbondanza, così che il gattino si riprese, crebbe, e si affezionò ai genitori adottivi. Poi un giorno graffiò un marinaio che voleva giocare con lui; e il marinaio, lanciando un urlo, disse che il gatto era matto. Il nostromo difese l'animale affermando che era matto come Einstein, il quale aveva avuto l'intelligenza di lasciare la Germania per emigrare negli USA. Da qui in avanti in gatto venne ribattezzato dai marinai "Professor Einstein" (i marinai non sapevano distinguere tra "relatività" e "relazione").

Il 10 agosto 1946 Einstein rispose così, in inglese:
« La ringrazio per la sua cortese lettera e per le interessanti informazioni che mi manda. Invio i più cordiali saluti al mio omonimo, anche da parte del nostro gatto che era molto preso dal racconto e perfino un po' geloso, per il semplice motivo che il suo nome, "Tigre", non esprime, come nel vostro caso, una stretta relazione con la famiglia Einstein. Con i migliori saluti ai genitori adottivi del mio omonimo e al mio omonimo stesso....
(pag.91 di "Albert Einstein, il lato umano", ed. Einaudi 1973, traduzione A.M.Gilberti)

sabato 1 ottobre 2016

Spulciare i porcospini salva la vita

Maria Christine guardò per qualche tempo, senza il minimo timore, le due lacere figure, poi tirò di nuovo il padre per il giustacuore e domandò:
" Babbo che gente è? Son brava gente? Io non li conosco ".
" E' gente che cerca lavoro qui alla tenuta " le spiegò il cavaliere svedese.
Il Collotorto s'accovacciò a terra dinanzi alla figlia del suo antico capitano e incominciò a parlare con lei.
" Piccola principessina! " disse, " Sei bianca e rossa in volto come il più bello dei tulipani. Dimmi, cos'altro sai fare oltre a saltellar da una gamba all'altra? ".
" So leggere nel sillabario " disse  Maria Christine, salendo su un ciottolo per sembrare più alta. " So ballare la courante e la sarabanda, e so anche suonare il clavicordio, ma solo un poco, ho appena cominciato, e tu che sai fare? ".
" Io conosco mille arti " si vantò il Collotorto. " So spulciare un porcospino e ferrare un'oca. Alle cavallette faccio dei grembiulini colorati, e mi basta fischiare perchè i pesci vengan fuori dalla peschiera tutti in fila. "
Maria Christine rimase a bocca aperta e guardò il Collotorto con gli occhioni sgranati. Poi indicò il Mammola.
" E quello là? Che cosa sa fare? ".
" In un amen lui sa trasformare le salsicce lunghe in salsicce corte, questa è l'arte che conosce meglio " rise il Collotorto. " Però sa anche ragliare come un asino e sibilare come un'oca. E con la bocca ti fa sentire come fanno un cane e un gatto quando litigano ".
" Lo voglio sentire, come fanno un cane e un gatto quando litigano " implorò Maria Christine.
Il Mammola non si fece pregare. Si diede a ronfare e abbaiare e soffiare, e poi ringhiare e latrare e ululare, sempre continuando a soffiare rabbiosamente, e quand'ebbe finito, e il cane se la fu squagliata con alti guaiti, Maria Chistine congiunse le manine estasiata, saltellò da una gamba all'altra ed esclamò giubilante: " Non potete andar via, non voglio che ve ne andiate, il cane e il gatto non sanno fare meglio di lui, dovete rimanere qui alla tenuta. E ricordatevi bene, la servitù va a tavola alle dodici in punto e la sera alle sei, ci sono regole severe, chi a quell'ora non è lì col suo boccale, resta senza la birra ".
Il cavaliere svedese guardava con stupore alla confidente amicizia che così in fretta era sorta tra sua
illustrazione di Roberta Angeletti
figlia e i suoi due cenciosi compagni. Il cuore gli s'allegerì. Quei due uomini che avevano fatto tanto i buffoni dinanzi a Maria Christine per farla ridere, quei due non lo avrebbero tradito, di questo era sicuro. E ora li vide per quello che veramente erano : due miseri fratelli di sventura in balia della strada maestra, venuti non per distruggere la sua felicità ma perchè speravano di aver miglior fortuna lì da lui che non andando a elemosinare un boccone di pane in casa di estranei. E i pensieri omicidi, fugati da una risata infantile, sgomberarono il suo animo.

Leo Perutz, Il cavaliere svedese, ed. Adelphi  ( info )
traduzione di Elisabetta Dell'Anna Ciancia

giovedì 29 settembre 2016

Heine e le lucertole di Lucca


Le lucertole, con le loro codine intelligenti e con i loro occhietti penetranti, mi hanno raccontato cose meravigliose mentre mi arrampicavo solitario tra le rocce dell'Appennino. Infatti ci sono cose tra cielo e terra che non solo i nostri filosofi, ma nemmeno il più semplice degli sciocchi può arrivare a comprendere. Le lucertole mi hanno raccontato che tra le pietre circola una leggenda secondo la quale Dio un giorno si farà pietra per salvarle dalla loro durezza. Una vecchia lucertola era però dell'opinione che questa petrificazione sarebbe avvenuta solo dopo che Dio si fosse incarnato in ogni specie animale e vegetale e le avesse redente tutte. Solo poche pietre sono capaci di sentimento, ed esse respirano solo al chiaro di luna. Queste pietre si rendono conto della loro condizione e sono terribilmente infelici. Gli alberi sono più fortunati: possono piangere. Gli animali sono più fortunati ancora perché possono parlare, ognuno a suo modo, e gli uomini meglio di tutti gli altri. Un giorno, quando il mondo intero sarà redento, anche a tutte le altre creature verrà concesso di parlare, come in quelle epoche remotissime cantate dai poeti.
 Le lucertole sono una razza ironica e si beffano volentieri degli altri animali. Ma con me furono gentilissime, sospirarono con sincerità e mi raccontarono la storia dell'Atlantide, che io trascriverò un giorno ad edificazione del mondo intero. Si stabilì una grande dimestichezza tra me e quelle bestiole che sono quasi gli archivisti degli annali segreti della natura. Forse esse sono famiglie di sacerdoti stregati, come quelle dell'antico Egitto che vivevano come le lucertole in grotte labirintiche spiando i segreti della natura. Sulle loro testoline, sui piccoli corpi e sulle code fioriscono segni meravigliosi come sugli egizi berretti fitti di geroglifici e sulle vesti degli ierofanti.
I miei piccoli amici mi hanno insegnato un linguaggio mimico per mezzo del quale posso parlare con la natura muta: e questo mi solleva spesso l'anima, specie verso sera quando i monti sono avvolti di ombre dolci e paurose e le cascate scrosciano e tutte le piante mandano i loro profumi, e intorno guizzano rapidi lampi. Natura, vergine muta! Capisco il tuo lampeggiare, il vano tentativo di parole che trema sul tuo bel viso, e tu mi commuovi così profondamente da farmi piangere. Ma anche tu mi capisci, ti rassereni e mi sorridi con i tuoi occhi dorati. Vergine bella, io capisco le tue stelle e tu capisci le mie lacrime.
(Heine ironizza sul concetto di Schelling che la Natura sia "intelligenza pietrificata")
Heinrich Heine, da "La città di Lucca", tratto da "Reisebilder - Impressioni di viaggio", ed. De Agostini 1981, traduzione di Vanda Perretta)