sabato 31 agosto 2019

Bambino o porcellino?


- Bimbo - dice Eliana, tirando fuori dalla scatola un pupazzetto di plastica.
- E' un porcellino - dico io, riconoscendo Porky Pig.
- No, bimbo - mi corregge Eliana (due anni e quarantacinque giorni), e io concordo. Sì, è un bimbo: del resto, Porky Pig somiglia tantissimo a un bambino e anche questa non è mica una novità. Bugs Bunny e Daffy Duck si comportano da umani ma sono visibilmente ancora un coniglio (o una lepre? i cartoons giocano spesso sulla somiglianza) e un'anatra. Invece con Porky Pig e con Elmer Fudd (Taddeo) i confini si attenuano e siamo in una zona di passaggio. I tre porcellini, per esempio, sono visibilmente dei porcellini; ma alla fine dei Looney Tunes ricordarsi se c'era Porky Pig o Elmer Fudd per me è sempre stato difficile. Umano o maialino? Cacciatore o preda? Lascio i dubbi a un'altra occasione (più seria) e vado a seguire Eliana in una nuova avventura: adesso ha preso in mano un peluche bianco di quelli morbidissimi e pelosi, e non ha dubbi.
- Roar - dice Eliana (beh, più o meno). Per noi è un gatto, per lei è un leone. Lo guardo bene, in effetti ha un bel po' di criniera (anche sotto il collo) e vorrebbe essere l'imitazione di un persiano; ma per me, da adesso in poi, sarà sicuramente e per sempre un leone. Vorrai mica che dia torto ad Eliana?



PS: per chi se lo ricorda (spero un buon numero) sull'equivoco bambino / porcellino si gioca anche nel capitolo VI di "Alice nel Paese delle Meraviglie" (Pig and pepper)


giovedì 29 agosto 2019

Adieu old England


Da Middle England di Jonathan Coe ( qui )


                                                                                                 Qui il brano musicale di Shirley Collins 



Faceva ancora abbastanza caldo per lasciare aperta la finestra del soggiorno. A Benjamin piaceva, quando il tempo lo permetteva, restare seduto da solo al buio, ad ascoltare i rumori della notte, il richiamo di un gufo, l’ululato di una volpe predatrice e soprattutto il mormorio immutabile e senza tempo del fiume Severn (che, in quel punto, da straniero, aveva appena messo piede nel Paese, visto che aveva oltrepassato il confine con il Galles solo da pochi chilometri). Ma quella sera era diverso: c’era Doug a fargli compagnia, anche se non sembravano particolarmente desiderosi di fare conversazione. Erano amici da quasi quarant’anni e c’era ben poco che non sapessero l’uno dell’altro. Per Benjamin sarebbe stato sufficiente se fossero restati lì, seduti ai lati opposti del camino con un bicchiere di Laphroaig in mano, lasciando che le emozioni suscitate dalla giornata si placassero per essere sostituite da un clima di tranquillità.
Alla fine, invece, fu proprio lui a rompere il silenzio.
«Sei contento del tuo articolo?», chiese.
La risposta di Doug fu sorprendentemente umile.
«Dovrebbe funzionare», disse. «Anche se per la verità mi sento un imbroglione di questi tempi».
 Di fronte allo sguardo sorpreso di Benjamin, Doug si raddrizzò e cominciò a spiegare. «Sono convinto che siamo arrivati a una svolta. Il Labour è finito, lo penso sul serio. C’è una gran rabbia in giro e nessuno sa che cosa fare. Me ne sono accorto in questi ultimi giorni di campagna elettorale. La gente vede gli uomini della City, persone che hanno mandato a gambe all’aria l’economia due anni fa senza patirne le conseguenze; nessuno di loro è andato in galera e tutti continuano a riscuotere i loro bonus, mentre a noi altri si chiede invece di stringere la cinghia. Gli stipendi sono bloccati, non esistono più lavori sicuri o piani pensionistici, la gente non può più permettersi di portare la famiglia in vacanza o di far riparare la macchina. Quelli che, fino a qualche anno fa, avevano l’impressione di essere benestanti, ora si sentono in miseria».


Doug si stava animando. Benjamin sapeva quanto gli piacesse parlare, come, persino ora, dopo venticinque anni di giornalismo militante, niente lo eccitasse tanto quanto le schermaglie della politica nazionale. Lui non condivideva l’entusiasmo dell’amico, ma era contento di dargli corda.
«Pensavo che ad essere detestati fossero i Tories», disse in tono compunto. «Per via degli scandali legati alle spese. Le ipoteche sulle seconde case e tutto il resto...».
«La gente non salva nessuno, e forse è questa la cosa peggiore. C’è tanto di quel cinismo in giro. “Fanno tutti schifo” è il ritornello. Ecco perché i candidati erano praticamente alla pari... fino a oggi».
«Pensi che farà tutta questa differenza? Si è trattato solo di un errore. Di una momentanea perdita di controllo».
«Basta e avanza di questi tempi. A dimostrazione di quanto sia esplosiva la situazione».
«Dev’essere un buon momento per uno come te. C’è un sacco di materiale su cui scrivere».
«Sì, ma io sono lontano da tutto questo. Il risentimento, il peso delle difficoltà... sono sentimenti che non provo. Sono solo uno spettatore. Vivo in una sorta di nido protettivo. Abito a Chelsea in una casa che vale milioni. La famiglia di mia moglie possiede metà delle contee che stanno attorno a Londra. Parlo senza sapere bene quello di cui sto parlando, il che è evidente in quello che scrivo. D’altronde non sarebbe possibile il contrario».



(...)
 Rimasto solo, si versò un altro drink e andò a sedersi sulla panca di legno che correva attorno al vano della finestra. Spalancò i vetri e si lasciò avvolgere dall’aria fresca. La ruota del mulino era fuori uso da molti decenni e ora il fiume, senza più ostacoli e impedimenti, scorreva libero e tranquillo, in un flusso continuo, increspato e vivace. Si era alzata la luna e Benjamin vedeva i pipistrelli che sfrecciavano avanti e indietro, stagliandosi contro lo sfondo luminoso del cielo grigio. All’improvviso si sentì invadere da una profonda tristezza. Le riflessioni a cui aveva cercato di resistere per tutto il giorno, sulla morte di sua madre, l’agonia delle ultime settimane, non potevano più essere represse.

Gli tornò in mente un brano musicale e capì che doveva riascoltarlo. Si trattava di una canzone. Si avvicinò allo scaffale su cui era stato sistemato il suo iPod, lo tolse dal supporto in cui era inserito e cominciò a scorrere la lista degli artisti. A quanto pareva, l’ultimo che aveva ascoltato erano gli Xtc. Superò Wilson Pickett, Vaughan Williams, i Van der Graaf Generator, Stravinsky, Steve Swallow, gli Steely Dan, gli Stackridge, e i Soft Machine prima di arrivare al nome che stava cercando, quello di Shirley Collins, la cantante folk del Sussex di cui aveva iniziato a collezionare i dischi negli anni Ottanta. Gli piaceva tutta la sua musica, ma c’era una canzone in particolare che, durante le ultime settimane, aveva assunto un significato speciale. La scelse, cliccò Play, e nel momento in cui raggiunse la finestra per tornare a sedersi e guardare il fiume illuminato dalla luna, la voce forte, austera, piena di risonanze, che si levava senza accompagnamento dall’altoparlante, riempì la stanza con una delle più inquietanti e malinconiche melodie mai scritte.


Adieu to old England, adieu 
And adieu to some hundreds of pounds 
If the world had been ended when 
I had been young 
My sorrows I’d never have known.






Benjamin chiuse gli occhi e buttò giù un altro sorso. Che giornata era stata quella, piena di ricordi, incontri, conversazioni difficili. Emily, la sua ex moglie, era venuta al funerale con i due bambini e il marito, Andrew. Suo fratello Paul, con cui non parlava da tempo, era arrivato dal Giappone. Lui non era nemmeno riuscito a incrociare il suo sguardo, né durante la funzione né al ricevimento successivo. Aveva incontrato zii e zie, amici dimenticati e lontani cugini. Era venuto Philip Chase, l’amico fedele con cui aveva frequentato la King William’s School, era comparso Doug, del tutto inatteso, e Cicely gli aveva persino mandato un messaggio dall’Australia, più di quanto lui si sarebbe aspettato. E soprattutto c’era stata Lois. Lois, la sorella su cui poteva contare, che aveva per lui un attaccamento assoluto, i cui occhi si velavano di lacrime quando era certa che nessuno la stesse guardando. I ventotto anni di matrimonio che aveva alle spalle restavano per lui un mistero, anche perché suo marito, che le era rimasto devotamente al fianco per tutto il giorno, poteva ritenersi fortunato se veniva premiato con un’occhiata di tanto in tanto.

Once I could drink of the best 
The very best brandy and rum 
Now I am glad of a cup of spring water 
That flows from town to town.

La melodia lo riportò indietro, alle due ultime settimane di vita di sua madre, quando, senza più riuscire a parlare, se ne stava seduta nel letto e lui le restava accanto per ore, prima impegnandosi in un monologo faticoso, poi, quando si rendeva conto che il compito era superiore alle sue forze, decidendo di creare una playlist musicale per riempire il silenzio. E così aveva fatto la playlist, aveva cliccato su avvio e per il resto del tempo, quello che le restava da vivere, le aveva parlato solo di rado ma era rimasto seduto sul bordo del letto tenendole la mano mentre ascoltavano Ravel e Vaughan Williams, Finzi e Back, la musica più tranquillizzante a cui potesse pensare, con l’obiettivo che sua madre si spegnesse su una nota di bellezza. La playlist conteneva più di cinquecento canzoni e questa era arrivata tardi, nell’ultimo giorno di vita...

Once I could eat of good bread 
Good bread that was made of good wheat 
Now I am glad with a hard mouldy crust
And glad that I’ve got it to eat.




Anche Lois e suo padre erano in casa, ma a loro mancava la sua tenacia, entravano e uscivano dalla stanza da letto, cercavano di tenersi occupati in ogni modo al piano di sotto, preparando il tè, cucinando il pranzo. Benjamin, invece, non aveva mai avuto alcun problema con l’inattività, a lui andava benissimo restare lì seduto, così come andava bene a sua madre. A entrambi bastava guardare il cielo che quel giorno, se lo ricordava bene, era grigio scuro, plumbeo, basso, opprimente, forse in sintonia con quell’orribile aprile o forse, pensava, ridotto così dalla nube di ceneri vulcaniche proveniente dall’Islanda che riempiva le pagine dei giornali e aveva creato lo scompiglio nei voli aerei in tutto il continente. Era stato a metà mattina, mentre contemplava quel cielo e la sua sovrannaturale oscurità, che la canzone di Shirley Collins, scelta a caso dall’algoritmo dell’iPod, aveva preso a raccontare la sua storia dolente di antiche sventure...

Once I could lie on a good bed
A good bed that was made of soft down
Now I am glad of a clot of clean straw
To keep myself from the cold ground.

Ascoltando le parole, Benjamin pensò che la canzone doveva risalire al diciottesimo secolo o ai primi anni del diciannovesimo: il canto dava voce all'infelicità di un prigioniero che attendeva di essere trasportato altrove, ma ciò che gli si era presentato alla mente non aveva niente a che fare con una cella dalle mura cadenti o con un materasso infestato dai topi. (...) Sì, era possibile (...) che le parole si riferissero a una perdita di privilegi che riecheggiava nei secoli...



Traduzione di Mariagiulia Castagnone
Le immagini sono fotogrammi del film "The Party " di Sally Potter  

martedì 27 agosto 2019

I gatti di Elemire Zolla



Io mi sento soffocare, tra uomini.Non riesco a parlare con loro (...) è così difficile stabilire un rapporto, prima di tutto perché è basato sulle parole e le parole sono sempre un povero mezzo. Non è che si comunichi molto, con la parola, per le comunicazioni veramente importanti. A che servono le parole? Ci si guarda e ci si intende. (primo piano dei due gatti) Ma con l'animale la comunicazione diventa molto più intima. Con il gatto non è difficile poi mettersi in contatto, perché è un mondo, il suo, che non diverge molto dal nostro (...)


Elemire Zolla, minuto 32 intervista alla TSI (Televisione Svizzera Italiana, "Il filo d'oro", ottobre 1997)



domenica 25 agosto 2019

La prigione silvestre di Ariel

Ho trovato per caso una riduzione in chiave cinematografica, della durata di soli dodici minuti, di The tempest di William Shakespeare. L'autore è Percy Stow e l'opera risale al 1908. Riporto qui il link  a una delle prime scene del lavoro di Stow, quella in cui Ariel viene liberato dalla sua prigione silvestre da Prospero.

In realtà nell'opera shakespeariana tale momento non è compreso nell'azione scenica in quanto mero antefatto richiamato da Prospero in una battuta di dialogo.

Maud Tindal Atkinson, Ariel
Nell'atto I della Tempesta, Prospero chiama Ariel, lo spirito dell’aria al suo servizio. Lo spiritello dice al suo padrone che ha svolto a puntino i compiti assegnati: ha suscitato nell’equipaggio l’illusione della tempesta e del naufragio,ha ancorato la nave in una baia nascosta con la ciurma addormentata sotto coperta, ha lasciato Ferdinando da solo e in preda all’angoscia di essere l’unico sopravvissuto e ha sparpagliato tutti gli altri in piccoli gruppi in zone dell’isola tra loro distanti.
C’è di che essere premiati per i servizi resi e infatti Ariel chiede a Prospero la libertà

Prospero risponde ad Ariel che avrà la libertà a tempo debito e poi lo accusa di ingratitudine.

Prospero:  Ma tu, i tormenti da cui ti ho liberato, te li scordi?
Ariel: Io no.
Prospero:  Tu sì, gramigna grama e bugiardo. E te la sei scordata la brutta strega Sicorace, incurvata dagli anni e dalla protervia come un cerchio di botte? (…)
Quella stregaccia balugia fu scaricata, incinta, da certi marinai e abbandonata qui. Tu, che ora ti vanti di servir me, servivi lei, allora. Ma essendo tu uno spiritello troppo etereo e delicato per eseguir gli incantesimi terragni e orrendi che ti imponeva lei, ti ribellasti (…) e quella, nel suo furore implacabile, e con l’aiuto dei suoi più potenti ministri, ti serrò nello spacco fatto in un pino: dove, così strizzato, rimanesti in quel tormento una dozzina d’anni. 

Dinanzi alla minaccia di finire di nuovo conficcato nel tronco del pino per altri dodici anni, Ariel  , dopo aver chiesto perdono, continuerà a rendersi utile al suo padrone, generando illusioni nei naufraghi e inducendoli, a seconda dei casi e delle necessità,  all'azione o all'inazione.

venerdì 23 agosto 2019

Un sole vecchio e grasso


Un sole vecchio e grasso, ma detto con affetto - sia ben chiaro - e anche con un po' di rimpianto per i bei momenti vissuti sotto quel sole. E' in uno dei dischi più famosi dei Pink Floyd, Atom Heart Mother.  (qui)
 
(Newton, 1799)

Fat Old Sun
(David Gilmour)
When that fat old sun in the sky is falling,
Summer evening birds are calling.
Summer's thunder time of year,
The sound of music in my ears.
Distant bells,
New mown grass smells so sweet.
By the river holding hands,
Roll me up and lay me down.
And if you sit,
Don't make a sound.
Pick your feet up off the ground.
And if you hear as the warm night falls
The silver sound from a time so strange,
Sing to me, sing to me.
When that fat old sun in the sky is falling,
Summer evening birds are calling.
Children's laughter in my ears,
The last sunlight disappears.
And if you sit,
Don't make a sound.
Pick your feet up off the ground.
And if you hear as the warm night falls
The silver sound from a time so strange,
Sing to me, sing to me.
When that fat old sun in the ...

(il tentativo di traduzione è mio, serve solo per evitare di andare a prendere il dizionario; è difficile, quasi impossibile, rendere come si deve il testo: per esempio "fat old sun" sono solo tre sillabe, in italiano ne servono almeno sei...)
(Quando quel sole vecchio e grasso cade nel cielo, gli uccelli della sera d'estate stanno chiamando. Il tuono dell'estate cronometra l'anno, il suono della musica nelle mie orecchie. Campane distanti, l'erba appena falciata odora dolcemente. Lungo il fiume mano nella mano, mi fa cullare e mi fa lasciar andare. E, se ti siedi, non fare rumore. Stacca i piedi dalla terra. E, se ascolti come cade la calda notte, il suono d'argento che proviene da un tempo così strano, canta per me, canta per me. Quando quel sole vecchio e grasso cade nel cielo, gli uccelli della sera d'estate stanno chiamando. Risate di bambini nelle mie orecchie, l'ultimo sole che scompare. E, se ti siedi, non far rumore, stacca i piedi dalla terra.)

 

mercoledì 21 agosto 2019

Formiche volanti


E' successo tanto tempo fa, ma me lo ricordo ancora: era sera tardi, stavo leggendo con la luce accesa, ed ecco arrivare un mostriciattolo alato. Che sia una vespa? Punge? Poi un altro, poi un altro, poi un altro ancora: uno sciame intero di formiche alate. Formiche volanti, attirate dalla luce: smetto di leggere, metto giù il libro, provo a raccapezzarmi in tutto quel formicolare.

Parlandone mi sono accorto che non lo sa quasi nessuno, molti non ci credono neppure se glielo spieghi, ma le formiche volanti non sono una razza a sè stante. Sono formiche, e basta; le formiche sono imenotteri come le api, e come le api sciamano. Una regina nuova lascia il formicaio, i maschi alati la seguono, perderanno le ali e fonderanno una nuova colonia - non certo sulla mia lampada del comodino, ma in un bosco o in un orto di spazio ne troveranno di sicuro. In seguito, lo avrei visto molte altre volte; bisogna anche essere un po' fortunati, essere lì nel momento giusto (le formiche sono più discrete delle api), ma uno sciame di formiche alate è un evento ancora molto comune. Le ricordo sul pesco, due o tre anni fa: sembravano non finire mai, uscivano dalla terra e si fermavano lì, in attesa del segnale di partenza. Durò un quarto d'ora, poi a un segnale preciso e misterioso se ne andarono via tutte, volando. Le ho ritrovate in questi giorni, sullo stesso pesco; sono meno numerose, qualcosa deve essere successo nel frattempo, ma devono essere sempre loro, formiche nere alate.

Anche la somiglianza con le vespe non è casuale: sono tutti imenotteri, e il confine fra vespe, api e formiche è molto sottile e molto frequentato. Se avete un po' di tempo libero e provate a guardare sui fiori di un prato troverete di tutto, una enorme varietà di forme e di razze, api che sembrano vespe, formiche che sembrano api, api che sembrano formiche, vespe che sembrano formiche, c'è di tutto, perfino mosche che sembrano api (o vespe: ne ho parlato qui).

Di sicuro una cosa la posso dire: le nostre formiche non sono pericolose, non pungono, non mordono, non sceglierebbero mai un comodino per fare il loro nido. Era stata la luce ad attirarle, la luce e la finestra aperta d'estate. Oggi (sono passati tanti anni) ne raccolgo una, una sola, e la porto con delicatezza sul balcone. Cosa succederà dopo, non mi è dato saperlo.

 
(immagini da "Guida agli insetti d'Europa" di Michael Chinery, ed. Franco Muzzio)
 

lunedì 19 agosto 2019

Carillon ( IV )





qui

Celestial carillon della Compagnia Trans Express

( esibizione del 19 gennaio 2019 a Matera )

sabato 17 agosto 2019

Tuona


(Pierre Delvaux, 1935)
"Tuona," mi dicono; e io ogni volta aggiungo (ma dentro di me, mentalmente) "...e pioverà tra poco". Per fortuna vostra, io non canto: ma certe precise parole mi risvegliano subito la musica, e poi è difficile che la musica se ne vada via, mi tiene compagnia per tutta la giornata e magari anche l'indomani. E' una bella compagnia, s'intende: Giuseppe Verdi in uno dei suoi momenti più grandi.
E' l'ultimo atto del Rigoletto: a dire queste parole sono Maddalena e Sparafucile, sorella e fratello. Lui è un killer a pagamento, lei adesca le vittime con la sua bellezza. Ad assoldare il killer è stato proprio Rigoletto, che sarà poi beffato dal destino. Siamo subito dopo il famoso quartetto, e sta arrivando un temporale dentro una notte già molto cupa.
Una parte della critica ha da ridire su questa musica di Verdi, e anche su altri suoi momenti: anche a me verrebbe da dire "sì, ma" però poi dentro a quel temporale ci finisco anch'io, sembra un temporale vero anche se fatto con pochi mezzi. Quando ci si sposta all'aperto, alla fine dell'opera, ed è ancora notte fonda, sembra di sentirsi cadere addosso le ultime gocce di pioggia.
E' anche un'occasione per ascoltare, o riascoltare, uno dei capolavori del teatro e della musica. Ho scelto l'edizione diretta da Arturo Toscanini (qui)per me ancora inarrivabile.




giovedì 15 agosto 2019

Un caldo inelegante


(Kate Greenaway, 1897)


What dreadful hot we have! It keeps me in a continual state of inelegance.
(Jane Austen, lettera alla sorella datata 18.9.1796; trovato on line)
(Che caldo terribile abbiamo! Mi tiene in un continuo stato di ineleganza)




martedì 13 agosto 2019

I soffi esitanti



Così, con tutte le luci spente, la luna tramontata e una pioggerellina che tamburellava sul tetto, cominciò un diluvio di tenebra immensa. Sembrava che niente potesse sopravvivere all'inondazione, alla profusione di tenebra che, insinuandosi nelle serrature e nelle fessure, penetrava attraverso le persiane, entrava nelle camere, inghiottiva qui una brocca e un catino, là un vaso di dalie rosse e
gialle, lì gli angoli vivi e la struttura massiccia di un cassettone. Non solo i mobili erano scomparsi: non era rimasto quasi più nulla del corpo e della mente da cui si potesse dire «E' lui» oppure «E' lei». A volte una mano si levava come per afferrare qualcosa o difendersi da qualcosa, oppure qualcuno gemeva, o rideva forte come scherzando con il nulla. Niente si muoveva in salotto o nella sala da pranzo o sulle scale. Solo attraverso i cardini arrugginiti e il legno gonfio di salsedine, certi soffi, staccati dal corpo del vento (dopo tutto la casa cadeva a pezzi), si insinuavano dagli angoli e si avventuravano all'interno.



Quasi si potevano immaginare, mentre entravano in salotto e si chiedevano, stupiti, giocherellando con un pezzo di carta da parati, resisterà ancora per molto, quando si staccherà? Poi sfiorando leggeri le pareti, passavano oltre pensosi come se chiedessero alle rose rosse e gialle sulla carta da parati se sarebbero appassite, e interrogando (con calma, perché avevano tempo a disposizione) le lettere strappate nel cestino della carta straccia, i fiori, i libri, che ora erano aperti e chiedendo loro Erano amici? Erano nemici? Quanto avrebbero resistito? Così, con una luce a caso che li guidava da una stella scoperta, o da una nave vagante, o dal Faro stesso, con l‟impronta pallida sulle scale e sulla stuoia, quei piccoli soffi salivano le scale e si facevano strada fino alle porte delle camere. Ma qui dovevano arrestarsi. Qualunque altra cosa può morire e scomparire, quello che c'è lì è immutabile. Qui si poteva dire a quelle luci scivolose, a quei soffi esitanti che alitavano e si curvavano sul letto, qui non potete né toccare né distruggere. Al che, stanchi, spettrali, come se avessero avuto dita leggere come piume e della stessa consistenza delle piume, avrebbero guardato, una volta, gli occhi chiusi e le dita intrecciate, e ripiegando le vesti con gesto stanco, sarebbero scomparsi.

 (...)


E così, facendosi strada, frugando, andarono alla finestra delle scale, nelle camere della servitù, tra le scatole in soffitta; e scendendo, sbiancarono le mele sul tavolo della sala da pranzo, stropicciarono i petali delle rose, esaminarono il quadro sul cavalletto, spazzarono la stuoia e soffiarono un po‟ di sabbia sul pavimento. Alla fine desistettero, cessarono insieme, si riunirono insieme, sospirarono insieme; tutti insieme emisero una raffica di gemiti senza scopo, cui rispose una porta della cucina; si spalancò; nessuno entrò; e si richiuse con un tonfo.
Così, con la casa vuota e le porte chiuse e i materassi arrotolati, quei soffi dispersi, avanguardie di grandi eserciti, irruppero, spazzarono nude tavole, morsero e soffiarono, senza incontrare niente in camera da letto o in salotto che resistesse loro validamente, ma solo brandelli che si staccavano, legno che scricchiolava, nude gambe di tavoli, pentole e porcellane già incrostate, annerite, spaccate.
Quello che era stato usato e poi lasciato —un paio di scarpe, un berretto da caccia, qualche gonna scolorita e le giacche nell'armadio —solo quello manteneva la forma umana e nel vuoto indicava come un tempo era stato pieno e animato; come un tempo le mani si erano date da fare con ganci e bottoni; come un tempo lo specchio aveva ospitato un volto; aveva ospitato un mondo cavo nel quale una figura si era voltata, una mano era comparsa, la porta si era aperta, i bambini erano entrati di corsa scontrandosi; ed erano tornati nuovamente fuori. Ora, giorno dopo giorno, la luce proiettava, come un fiore riflesso nell'acqua, la sua immagine chiara nel muro di fronte. Solo le ombre degli alberi, volteggiando nel vento, rendevano omaggio sulla parete, e per un momento offuscavano lo stagno in cui si rifletteva la luce; oppure gli uccelli, volando, facevano muovere una macchia vellutata sul pavimento della camera.Così regnavano bellezza e quiete, e insieme plasmavano la forma della bellezza stessa, una forma da cui la vita si era staccata; solitaria come uno stagno di sera, lontano, visto dal finestrino del treno, che svanisce così in fretta che lo stagno, pallido nella notte, a malapena viene privato della sua solitudine, anche se visto. La bellezza e la quiete si dettero la mano nella camera, e tra le brocche velate e le sedie coperte da lenzuola, perfino l'intrusione del vento e il naso soffice delle brezze marine appiccicose, che frusciavano, trapestavano, chiedendo e richiedendo —«Svanirete? Morirete?» —disturbava appena la pace, l'indifferenza, l'aria di vera integrità, come se la domanda che ponevano non necessitasse della risposta: rimarremo.



Niente sembrava in grado di rompere quell'immagine, corrompere quell'innocenza o disturbare il manto fluente di silenzio che, settimana dopo settimana, nella stanza vuota, tesseva nella sua trama le grida cadenti degli uccelli, le navi che suonavano le sirene, il ronzio e il brusio dei campi, l‟abbaiare di un cane, il grido di un uomo, e li ripiegava intorno alla casa in silenzio. Solo una volta un‟asse si ruppe sul pianerottolo; una volta nel mezzo della notte con un boato, con uno strappo —come dopo secoli di sottomissione una pietra si stacca dalla montagna e precipita di schianto a valle —una piega dello scialle si allentò e oscillò avanti e indietro. Poi la pace calò di nuovo; e l‟ombra tremò; la luce si chinò alla sua stessa immagine in adorazione sulla parete della camera; quand'ecco che la signora McNab, squarciando il velo del silenzio con mani che erano state nel catino del bucato, frantumandolo con scarponi che avevano calpestato la ghiaia, entrò, come le avevano detto di fare, per aprire tutte le finestre e spolverare le stanze.

Virginia Woolf, Gita al faro, ed. Bompiani
traduzione di Luciana Bianciardi

Le immagini rappresentano ambienti della Monk's house di Virginia Woolf

domenica 11 agosto 2019

Carillon ( III )



In Fanny e Alexander di Ingmar Bergman  ( info )




Qui


venerdì 9 agosto 2019

Passacaglia


Se l'Amore non recasse che pena, perché allora gli uccelli innamorati canterebbero così tanto?
(dall'Armida di Lully, atto quinto)

(Annibale Carracci, da Wikipedia)
Il mito di Rinaldo e Armida (che diventa Alcina nell'Orlando Furioso) ha ispirato molti dipinti e molta musica. Nella Gerusalemme Liberata, la maga Armida sottrae con le sue arti amorose l'eroe Rinaldo dalla battaglia; Rinaldo per lei depone le armi e dimentica ogni altra cosa. Vengono allora inviati due cavalieri per risvegliare Rinaldo, che riescono nel loro scopo. Al suo risveglio, Rinaldo scoprirà che Armida non è come l'aveva vista fin lì: è meno bella, più vecchia, un incanto che è anche una truffa. Riflettendo su Armida e Rinaldo, e forse anche invecchiando e avendo più pratica della vita, più che una storia di magia mi sembra la storia della fine di un amore: quando un amore finisce, si cominciano a vedere i difetti dell'altra persona. Difetti che c'erano anche prima, ma è l'amore la magia che ce li aveva nascosti. Può essere anche la storia di due innamorati di età diversa: l'età è impietosa, prima o poi i segni dell'invecchiamento arrivano (sia per i maschi che per le femmine) e ci vuole proprio un grande amore per non vederli.

Filosofia a parte, e terminando qui i miei sproloqui, questa è anche una bella occasione per ascoltare o riascoltare la Grande Passacaglia dall'Armida di Lully. Siamo nel quinto atto, verso il finale; è il momento che precede il risveglio di Rinaldo e la disillusione di Armida.
  (qui : il passo cantato è al minuto 6 dall'inizio)

C'est l'amour qui retient dans ses chaines
mille oiseaux qu'en nos bois nuit et jour on entend;
si l'amour ne causait que de peines,
les oiseaux amoureux ne chanteraient pas tant.
(atto V, Armida di Lully, anno 1686, versi di Philippe Quinault)

(è l'amore che tiene nelle sue catene i mille uccelli che nei nostri boschi notte e giorno ascoltiamo; se l'amore non causasse che pene, gli uccelli innamorati non canterebbero così tanto.)




mercoledì 7 agosto 2019

Rubini e smeraldi


(Werner Herzog, Cuore di vetro)
 
Vauquelin aveva scoperto il brillante cromo per caso, in un modesto (anche se raro) campione di carbonato di piombo rosso proveniente dalla Siberia. Come gli altri scienziati dell'epoca, era molto interessato a comprendere cosa conferisse alle pietre preziose i loro caratteristici colori: nella vasta enciclopedia chimica da lui composta assieme al suo mentore Antoine-François de Fourcroy fra il 1786 e il 1815, convenne che il rubino era «la più stimata delle pietre preziose» e notò che i berilli, una classe di gemme che includeva gli smeraldi, potevano presentare tutta una gamma di colori che spaziavano dal blu-verde al « giallo ruggine del miele», aggiungendo che «gli smeraldi migliori vengono dal Perù».
Poco dopo la sua scoperta del cromo, Vauquelin, appena promosso all’incarico ufficiale di saggiatore di metalli preziosi, si sarebbe trovato a frantumare uno smeraldo peruviano con pestello e mortaio e a sciogliere la sua polvere in acido nitrico, nel tentativo di svelare il segreto dell’arcobaleno delle pietre preziose. Riuscì a convertire il residuo in quella stessa sostanza che aveva ottenuto dal minerale siberiano, dimostrando così che l'agente colorante nello smeraldo era il cromo; quindi, procedette evidenziando come anche il rosso del rubino fosse dovuto al cromo. Un’analisi più esauriente, che sarebbe stata possibile soltanto di lì a un secolo, avrebbe infine spiegato il motivo per cui queste gemme sono apprezzate fin dall’antichità. Il rosso profondo dei rubini e il limpido verde degli smeraldi costituisce solo una parte della ragione del loro fascino: l’altra è che il cromo presente in entrambe le pietre brilla di una fluorescenza rossa, così che al loro interno sembra guizzare una fiamma.

(da "Favole periodiche" di Hugh Aldersey-Williams, pagine 458-459 edizione BUR 2011)




lunedì 5 agosto 2019

Smeraldi e berillio


(Werner Herzog, Cuore di vetro)

Vauquelin tornò quindi ad analizzare i berilli più nel dettaglio, scoprendo che erano composti da un certo numero di sostanze minerali basiche; il costituente fondamentale era la silice, o diossido di silicio, presente nella sabbia, nel quarzo e nell’ametista; l’allumina costituiva gran parte del resto. Questa forma cristallina di ossido di alluminio è l’ingrediente principale del corindone, di cui sono fatti rubini e zaffiri. A questo punto Vauquelin si rese conto che c’era anche un nuovo ossido che prima era sfuggito all'individuazione per via della sua somiglianza agli altri; una volta isolato e purificato questo ossido rivelò di fatto una proprietà singolare: era dolce al gusto, ragion per cui Vauquelin decise di chiamarlo «glucina». Il nuovo elemento metallico che questo ossido doveva contenere venne pertanto designato come «glucinio», anche se ci sarebbero voluti altri trent'anni prima che qualcuno riuscisse di fatto a produrlo. (Anche lo zirconio, un altro nuovo elemento scoperto in modo simile nelle pietre di zircone da un amico tedesco di Vauquelin, Martin Klaproth, nel 1789, dovette attendere più di trent’anni prima di essere isolato da Berzelius nel 1824.) In seguito, emerse che la glucina non era l’unico composto metallico ad avere un gusto dolce: venne così ribattezzata berillia, e l’elemento a essa associato ricevette il nuovo nome di berillio.

Chi era in cerca di tesori avrà accolto con disappunto le notizie di questi esperimenti che, contrariamente a quanto lasciava sperare una certa mentalità alchimistica, avevano dimostrato che anche le gemme più preziose non contenevano nessuna essenza dalla natura straordinaria. A differenza degli sporchi minerali, da cui si potevano trarre metalli splendenti, questi cristalli perdevano tutto il loro valore quando venivano trattati in laboratorio: solo due anni prima degli esperimenti di Vauquelin con smeraldi e rubini, il chimico inglese Smithson Tennant aveva bruciato un diamante fino a ridurlo a nulla, dimostrando così che non era costituito da qualche elemento esotico ma solo di comune carbonio.

(da "Favole periodiche" di Hugh Aldersey-Williams, pagine 458-459 edizione BUR 2011)

(una piccola nota a margine: Berillo è il minerale da cui si estraggono gli smeraldi, Berillio è invece l'elemento chimico identificato successivamente in quel minerale)

per la natura dei diamanti, magari può interessare qui


sabato 3 agosto 2019

Coccinelle


Il vero problema, a guardar bene, sono le vespe. Per il resto, stare qui sotto il pesco (il pesco dell'amaca di Ciccetta) è un ottimo punto d'osservazione. Per esempio, adesso è pieno di coccinelle e di larve di coccinella (vedi qui), le coccinelle adulte le soffio via e se ne vanno volando, le larve bisogna togliersele di dosso con cautela, non perchè siano pericolose ma per evitare di romperle (posso dire però che sono molto robuste e flessibili). Le larve di coccinella, carnivore come gli adulti (nel senso che si nutrono di altri insetti) mangiano anche i resti del pranzo delle gatte; sono talmente piccole che anche una gocciolina basta e avanza, e per questo le trovo sempre sul piatto o sulla ciotola. Detto en passant, fare l'elenco delle specie animali che apprezzano il cibo per gatti può essere divertente: mosche, lumache, chiocciole, larve di coccinella, formiche, vespe... Basta un minuscolo frammento, o una goccia, per radunare tanti appetiti inattesi.

L'elenco di tutte le specie presenti su questo pesco sarebbe un'ottima tesi di laurea in Scienze Naturali, e non solo per l'entomologia. Ci sono tutti i tipi di coccinella: rosse, gialle, brune; con tanti puntini, con pochi puntini, senza puntini; grosse, medie, piccole, piccolissime. Mancano solo, come fanno notare gli entomologi, le nostre care e antiche coccinelle a sette punti, soppiantate da specie esotiche importate dagli agricoltori per ridurre almeno un po' l'uso degli insetticidi.


Adesso sento un leggero solletico sul collo: che sia una vespa? No, mi avrebbe già punto. Forse non era niente, penso, invece con la coda dell'occhio (il destro) vedo una giovane mantide. E' già piuttosto grande, ma non ha ancora le ali. La prendo con la maggior delicatezza possibile, anzi la aiuto a salirmi sulle dita, e l'appoggio sul rosmarino; ringrazia e accetta la destinazione. Fine del viaggio, almeno per oggi. Chissà se ci incontreremo ancora, e se saremo capaci di riconoscerci (ma probabilmente, conoscendo le mantidi, avrà pensato: me lo mangerei volentieri, ma è troppo troppo grosso...)

PS: appena finito di mettere quanto sopra nelle bozze, scendo in giardino e sento un solletico sul braccio: è una coccinella dai sette puntini! (forse qualcuno, o Qualcuno, legge i miei post e sa cosa sto pensando?) Il tempo di contare i puntini, ed ecco che vola via. Buona fortuna!



(immagine da "Guida agli insetti d'Europa" di Michael Chinery, ed. Franco Muzzio 1998)

giovedì 1 agosto 2019

Buchanan mette in riga

illustrazione
di Louis Wain
Sir Edmund e lady Gosse abitavano con le loro due deliziose figlie dai capelli d'oro ( una delle quali è la pittrice, Sylvia Gosse ) in una casa su uno spiazzato di Regent's Park. Le tappezzerie, e in genere tutta la casa, erano un po' scure, tipo 1870. Il salotto risuonava del lieto rumore dei cucchiaini da tè, che sembrava indugiarvi anche quando il tè era finito o non era ancora cominciato; e la casa era piena di tesori d'ogni sorta, ma il tesoro più grande era la conversazione di sir Edmund, e mai caccia al tesoro fu più pericolosa.
La casa era in parte governata dalla Parker, la cameriera di sala, un personaggio famosissimo; e ancor più da Buchanan, un gattone bianco e nero. Buchanan, a quanto pare, era di provenienza ignota, ma una volta entrato in casa si era assunto il compito di governarla. Non scendeva a mangiare finchè tutta la famiglia non era radunata nella sala da pranzo, e, sistemato questo punto, insisteva perchè sir Edmund salisse le scale e suonasse la campanella del pranzo. Allora Buchanan scendeva pieno di sussiego e pranzava col resto della famiglia. All'ora del tè Buchanan, con fermezza e senza alcun segno di resa, ricusava di bere il latte se lady Gosse non si inginocchiava a reggergli il piattino davanti. Se, come qualche volta accadeva, si impermaliva per una qualsiasi ragione, usciva subito dalla stanza, che piombava in un atterrito silenzio. Mi ricordo di una volta che pranzavo là, e che Buchanan dopo pranzo lasciò la sala con ostentato disprezzo: sir Edmund e lady Gosse discussero in un bisbiglio spaventato tutte le possibili cause del suo sdegno. Aveva la sua carta da lettere intestata, con apposite buste, non troppo grandi, e quando sir Edmund stava via, Buchanan dettava ogni giorno una lettera per lui ( lady Gosse mi disse sottovoce che aveva paura che Buchanan fosse un gran pettegolo ) e sir Edmund gli rispondeva.

Edith Sitwell, Autobiografia, ed. Rizzoli  ( pp. 89-90 )