giovedì 24 settembre 2020

A proposito del cetaceo fossile noto come “ balena Giuliana”

Nel dicembre del 2000, Gianfranco Lionetti, un noto e apprezzato studioso del territorio materano,  rinviene, presso il bacino lacustre di S. Giuliano, dei resti fossili appartenenti ad un cetaceo. Il bacino materano ben si è prestato e si presta alla ricognizione e osservazione di testimonianze di un passato lontano, remoto, in quanto luogo deputato, per la presenza dell’acqua, a garantire la sopravvivenza di uomini e animali.

Ecco come Gianfranco Lionetti, in un articolo pubblicato sulla rivista “MATHERA” (Anno II n.4 Periodo 21 giugno - 20 settembre 2018 ) racconta la scoperta dei resti del cetaceo:

“ Era il 27 dicembre del 2000; un mattino di un inverno mite (…)L’acqua del lago era bassa e ferma, distava dalle falesie argillose più di 30 metri. La riva orografica sinistra era asciutta e consentiva di percorrere chilometri senza dislivelli, in solitudine. Dallo Iazzo di Porcari mi spinsi fino ai ruderi di Masseria San Francesco su cui sostavano decine di cormorani e pochi aironi cinerini. I gabbiani lanciavano grida che rievocavano le diomedee citate da Omero nell’Odissea. (…)Superato lo Iazzo di Ferri, posto sotto il colle di Vultrino, e quindi la profonda insenatura contigua, percorsi la lunga parete argillosa che segue più a valle. (…) A circa metà della lunghezza della parete argillosa si attraversa una zona dove fino a qualche anno fa si trovavano piccoli gusci di molluschi marini di varia specie e in ottimo stato di conservazione. Vi si rinvenivano anche placche di echinidi e i relativi aculei. Una volta vi trovai due o tre denti di un piccolo squalo. Ora il giacimento è stato totalmente asportato dall’erosione e solo ogni tanto vi si recupera qualche fossile, a parte le comunissime nasse e i “piedi di pellicano”. Su quella parete, inoltre, avevo rinvenuto numerosi boli di pesce che mi davano la certezza che un giorno mi sarei imbattuto in uno strato con ittiofauna fossile. Con le ginocchia appoggiate al suolo, scrutavo con concentrazione fra i detriti vegetali accumulati dalle onde nella speranza di recuperare qualche conchiglia superstite. Superato questo luogo si giunge sotto lo Iazzo di Porcari dove la parete argillosa crollando trascina con sé pinastri e cipressi. Fu proprio sotto alcuni di questi alberi collassati che scorsi qualcosa che attirò la mia attenzione: di primo acchito mi sembrava di avere davanti a me dei frammenti di arenaria meno cementati rispetto ai soliti in cui ci si imbatte in quei paraggi.

martedì 22 settembre 2020

Della vita


Little Fly,
thy summer's play
my thoughtless hand
has brush'd away.
Am not I
a fly like thee ?
Or art thou not
a man like me ?
For I dance
and drink and sing,
till some blind hand
shall brush my wing.
If thought is life
and strength and breath,
and the want
of thought is death,
then am I
a happy fly
if I live
or if I die.
(William Blake, The fly)

Piccola mosca, i tuoi giochi estivi sono stati spazzati via dalla mia mano senza nemmeno pensarci. Ma non sono forse anch'io, come te, una mosca? O non sei forse tu un umano come me? Perché anch'io danzo, e bevo e canto, fino a quando qualche cieca mano spazzerà via le mie ali. Se il pensiero è vita, e forza e respiro, e la volontà di pensiero è morte, allora io sono una mosca felice sia ch'io viva sia ch'io muoia.


(disegno di Beatrix Potter)


sabato 19 settembre 2020

Nebbia

Guidai molto lentamente ma per gran parte del tempo non sapevo su quale lato della strada mi trovassi. (...) Stavo cominciando a preoccuparmi e mi sentivo solo, più solo che mai. La nebbia è una creatura marina, ha una vita propria e un proprio veleno, ed è nemica della terra e delle sue creature. Si insinua tra loro e la terra che conoscono, succhia via la linfa vitale e l’aiuto che sono  L’uno per l’altro. Un uomo è solo nella nebbia, senza amici né punti di riferimento; ovunque si giri diventa inconsistente  e scompare alla vista. Un uomo è fatto per vivere su una terra assolata, limpida, non nel mare, o nel passato. Una macchina spuntò fuori dalla nebbia verso di me, suonando il clacson, e sterzò bruscamente, evitandomi; con una fitta di paura mi resi conto che ero sul lato sbagliato della strada.  Accostai sulla destra, e mi fermai, restando con le mani sul volante e pensai: “Più di così non posso; non devo provare ad andare oltre“. Dovevo essere più ubriaco di quanto pensassi perché dopo un po’ la macchina si stava muovendo di nuovo, e guidava Trina. Almeno io pensavo fosse Trina.

fotogramma di "Nostalghia"di Tarkovskij

Robert Nathan, Cosi l’amore ritorna, ed. Atlantide

Traduzione di Gaja Cenciarelli

mercoledì 16 settembre 2020

Rinascere


Mettiamo questo momento. Fuori qualcuno fa gli auguri. Amici che si parlano da un marciapiede all'altro. Quel piccolo fiume di pietre che li separa sembra insormontabile, un muro più vero di ogni altro reale. Sono auguri semplici: buona Pasqua, buona Pasqua, che faremo, che farete, come state.
Alfredo non può fare a meno di sentire eppure il suo ascoltare è già lontano e nella sua testa le immagini sono diverse: donne, fiori, strisce di mare che brillano al sole. Capita sempre più spesso che si faccia trasportare dalle sue fantasie e che si interessi poco al presente.
Le voci si esauriscono, rumore di passi che si allontanano. Alfredo ha ancora in testa altro.
La campagna ha i colori più ricchi e un vento leggero lo accompagna tra l'erba già alta. Sa che dopo l'ultimo ciliegio troverà i primi meli. Ha fatto tante volte quel piccolo percorso. Sul muro a secco, che segnava gli antichi confini, si è posato uno strano uccello, Alfredo non ne ha mai visto uno così ricco di riflessi, di colori. Lo osserva approfittando della distrazione di quello e improvvisa, senza ragione, gli monta in testa una strana gioia e, contemporaneamente, la soluzione del dilemma: "Sei una cinciallegra, ecco. Non ti avevo mai vista"
Vorrebbe avvicinarsi a lei per osservarla meglio, ma rimane immobile per paura che quella si allontani. Alfredo però inizia a pensare che ancora qualcosa gli sfugga e in effetti riaffiora un ricordo vecchio di decenni.
Lui, da ragazzino, collezionava scatole di fiammiferi. Portavano tutte la foto di un animale sull'apertura e sul retro, invece, il nome di quello e alcune delle caratteristiche. Ne aveva tante di quelle scatole, Alfredo. Le chiedeva al padre, ai parenti, ai vicini. Fumavano tutti a quei tempi. "Cinciallegra, ecco". Ora ricordava e dalle sue parti ne viveva una particolarissima che portava il nome di una dea Aphrodite.
Non poteva essere che lei pensava Alfredo mentre il piccolo animale iniziava ad allontanarsi da lui e però, dopo un breve volo, fermarsi quasi ad attenderlo. "Dove mi porti?" chiede Alfredo ma quello non risponde e prosegue e lui lo sa che, dopo un piccola fila di gradini che superano un ripido dislivello, c'è uno spazio dove vivono da sempre i castagni.
Lì lei lo attende, Alfredo non sa chi sia, non riesce neanche a distinguerne bene il corpo, il viso. Sulle labbra però ne percepisce il sapore, sulle dita il morbido contatto della pelle. Alfredo si lascia trasportare dal vento, dalle foglie, dal sole, dall'ombra, dal gracile canto della cinciallegra. Sa che ora è il momento di rinascere.
(Dario D'Angelo, dal suo blog "Solo Testo", marzo-aprile 2020)



lunedì 14 settembre 2020

This mortal coil


Ho trovato in giardino una mantide, quasi adulta, che si è aggrappata ai miei capelli (quei pochi che restano) e mi ha fatto solletico sul collo. Stavo sistemando un po' una siepe, e dopo aver pensato, come sempre, che è una fortuna che lei sia così piccola e io così grande (se fossimo grandi uguali lei mi mangerebbe senza dubbio), l'ho presa con delicatezza e l'ho appoggiata sempre sulla siepe, ma da un'altra parte. In fin dei conti, dato che mangia altri insetti anche nocivi (ahimè, non solo quelli nocivi) è una mia potenziale alleata. Dopo qualche giorno ho trovato la sua pelle, ormai inutile e abbandonata: le mantidi, come le cavallette, non hanno il bruco ma crescono lentamente cambiando pelle; è la grande divisione nella classe degli Insetti, i nomi esatti sono olometaboli (farfalle e coleotteri, che hanno il bruco e la metamorfosi) ed eterometaboli, come mantidi e cavallette. Forse, la mia mantide adesso è adulta e ha già messo le ali; qui rimane la sua spoglia intatta. Per i nostri avi, queste metamorfosi e questi cambiamenti di pelle erano simboli, o metafore, di immortalità e di eterna giovinezza, forse anche di rinascita o di reincarnazione. La vita non finisce qui, insomma: dal punto di vista scientifico il ragionamento non torna del tutto, ma l'immagine è comunque suggestiva. In passato era infatti frequente trovare immagini di farfalle sulle lapidi; e l'idea del cambiamento di pelle come rigenerazione (anche nei serpenti) era già nell'epopea di Gilgamesh, il poema più antico dell'umanità che sia mai giunto fino a noi, o in Tiresia ed Asclepio nella cultura greca e poi romana. Oggi sono rimasti in pochi a fare attenzione a queste cose, quasi sempre davanti a queste apparizioni nelle nostre case ci sarebbero grida d'orrore e profluvio di insetticidi, ma per chi vuole riflettere, almeno per un istante, su come funziona davvero il mondo in cui viviamo, queste occasioni andrebbero raccolte con cura.

To die, to sleep -
to sleep, perchance to dream, ay there's the rub,
for in that sleep of death what dreams may come
when we have shuffled off this mortal coil,
must give us pause (...)
(William Shakespeare, Hamlet)
(alla lettera, secondo il mio dizionario, "coil" è una spirale, un rotolo, una serpentina, un rocchetto di filo: l'immagine antica delle Parche, verrebbe da dire.) ("to shuffle off" è "liberarsi di", e "rub" indica strofinare, sfregare fra le dita)



(la foto è mia, e mostra una mantide adulta, o meglio anziana: 
non più verde, si mimetizza meglio in autunno)

giovedì 10 settembre 2020

Moon Palace


 Il posto giusto lo trovai sulla Centododicesima West, dove mi trasferii il quindici di giugno, arrivandovi con le mie valige qualche istante prima che due omoni consegnassero i settantasei cartoni contenenti i libri di zio Victor, rimasti chiusi per nove mesi in un magazzino. Era un monolocale a quinto piano di un grande palazzo senza ascensore: una stanza di medie dimensioni con un cucinino nell'angolo a sud-est, armadio a muro, bagno e una coppia di finestre che davano su un vicolo. Sul davanzale battevano le ali e tubavano piccioni, mentre nello spiazzo sottostante stavano piazzati sei bidoni della spazzatura ammaccati. All'interno l'atmosfera era scura, uno sfumato grigiore diffuso ovunque, che anche nelle giornate più splendenti non lasciava trapelare più di un meschino bagliore. Sulle prime sentii qualche spasmo, minuscole crisi di paura difronte alla prospettiva di vivere da solo, finché feci una singolare scoperta, che mi aiutò a riscaldare la casa e a sistemarmici.   Era la seconda sera o terza sera che ci passavo e, del tutto casualmente, mi trovai in piedi tra le due finestre, disposto obliquamente rispetto a quella sulla sinistra. Girato leggermente lo sguardo in quella direzione, mi apparve improvvisamente visibile una fessura libera tra i due palazzi sul retro della casa. Ed ecco lì sotto la Broadway, nel suo tratto più ristretto e limitato, ma a contare era il fatto che tutta la zona a me visibile appariva riempita da un'insegna al neon, una fiammeggiante pira di caratteri azzurri e rosa che tracciava distintamente le parole MOON PALACE. Vi riconobbi l'insegna di un ristorante cinese che aveva sede nello stesso edificio, poco più in là, ma la forza dell'impatto con quelle parole coprì ogni possibile riferimento e associazione. Caratteri magici, sospesi là nel buio come un messaggio proveniente da altrove se non dal cielo. Mi venne subito in mente lo zio Victor con il suo complessino*, e in quel subitaneo istante di irrazionalità fui abbandonato da ogni paura. Mai avevo provato qualcosa di altrettanto improvviso e assoluto. Una stanza spoglia e sudicia si era convertita in un luogo di interiorità, in un punto cruciale di strani presagi e misteriosi eventi arbitrari. Continuai a tenere lo sguardo fisso sull'insegna del Moon Palace, finché piano piano capii che ero arrivato nel posto giusto, che quell'appartamentino era veramente il luogo dov'ero destinato a vivere. 
Paul Auster, Moon Palace, ed. Einaudi
Traduzione di Mario Biondi

* ( i Moon man )

domenica 6 settembre 2020

Vaga luna


L'invocazione alla luna, la più famosa e la più grande, è sicuramente "Casta Diva", una grande scena (e non soltanto un'aria: tutta la scena occupa un quarto d'ora) dall'opera "Norma" di Vincenzo Bellini. Oggi però mi è tornata davanti una piccola aria da camera, scritta da Bellini quando non era ancora famoso: il testo non è gran cosa, l'innamorato che si rivolge alla luna, ma la melodia è di quelle che non si dimenticano e ancora oggi è molto eseguita in concerto.

qui per voce maschile
qui per voce femminile
(ma poi fate voi, on line ce ne sono molte belle versioni)

(Jan Bogaerts, 1904)


Vaga luna, che inargenti
queste rive e questi fiori,
ed inspiri agli elementi
il linguaggio dell'amor;
testimonio or sei tu sola
del mio fervido desir,
ed a lei che m'innamora
conta i palpiti e i sospir.
Dille pur che lontananza
il mio duol non può lenire,
che se nutro una speranza,
ella è sol nell'avvenir.
Dille pur che giorno e sera
conto l'ore del dolor,
che una speme lusinghiera
mi conforta nell'amor.
(testo di anonimo)
(1827 circa, pubblicata postuma nel 1838)


mercoledì 2 settembre 2020

Hell

Per comporre Songs from the Divine Comedy, da cui è tratto Hell I ( qui ), Giovanni Sollima si lascia ispirare da alcuni canti della Divina Commedia, letti anche nella versione inglese di H. W. Longfellow, e dalla Profezia di Dante di George Gordon Byron nella traduzione di Lorenzo Da Ponte.
Il progetto ha le sue premesse in un soggiorno a New York; i "gironi danteschi di fine millennio" della metropoli stimolano la fantasia del musicista che si lascia incuriosire dalle soluzioni ritmiche adottate da Henry Wadworth Longfellow nel tradurre il poema dantesco e dalla differente sonorità dell’opera rispetto all’originale in volgare.




"Per l'Inferno ho scelto,inizialmente, una strada evocativa ma, dato che si trattava di un brano
strumentale, seppur con l'impiego delle voci nostre, della band, sporche,sofferenti e non impostate, ho voluto musicare i passi in cui Dante racconta, con la sua incredibile e visionaria fantasia, luoghi, atmosfere,corpi, espressioni. Quindi il III Canto, e terzine dal XVIII, dal XXV, dal XXXIV e altri (… ) Per quanto riguarda il Paradiso, il suo inserimento, quattro anni fa, è stato un inserimento inaspettato, una sorta di appendice sospesa, un piccolo memorial dedicato a mio padre appena scomparso.Scelsi dal Paradiso alcune terzine, cantate contemporaneamente sia nella lingua di Dante che nell’ inglese ottocentesco di Henry Wadworth Longfellow".

                                                                                                                                                       
Fonte (qui)