mercoledì 27 febbraio 2019

Neve a Milano

M’immagino che la neve non ami lo stile Novecento. Non sa come disporsi su quelle linee dritte, non riesce a ornare il paesaggio moderno. La neve è fatta per le statue equestri dei monumenti, per le cattedrali, per i palazzi, li rende ancor più severi, li attetra; mi piace anche in fondo a questa piazza su quelle casupole in demolizione che sembrano rosicchiate dai topi e mi avvedo che quelle casupole, per quanto miserabili, vanno molto d’accordo con la maestà del Duomo. Hanno vissuto, sono calde d’umanità, se un muro cade, quanto calore trabocca nella via! Le grandi costruzioni razionali dalle gelide facciate a vetri non sono case ma ricetti di conglomerati umani che mangiano in fretta, dormono in fretta, lavorano in fretta, e anch'essi, i cubici fabbricati, invecchiano velocemente. Altri intanto ne sorgono perfetti e la gente vi accorre per poi di nuovo rivolgersi altrove dacché nessuna amicizia lega più la casa all’uomo. La neve dovrebbe decidersi a disertare le città ove ingombra, rallenta il traffico, non vi è più tollerata. Coi sereni tramonti e col raggio di luna faceva parte di un ciarpame letterario passato di moda. Si riduca in montagna al servizio degli sciatori e si rallegri se le riconoscono di grazia una funzione utilitaria connessa all‘agricoltura.

 


« On Sass! ». Il custode del giardinetto della Guastalla ha impiegato un buon dieci minuti nei tentativi di chiudere il cancello verso via San Barnaba. Credeva dapprima che la neve raggelandosi avesse ingombrato le guide, poi si accorse di un intoppo e... «on sass»... disse a mezza voce e lo tolse e il cancello fu chiuso.
Guardo il giardino di là attraverso le sbarre e intuisco il perché di tanto affrettarsi a portarla via subito, la neve, dai luoghi ove l’uomo lavora. Essa difatti rallenta e addormenta. Una volta - si sa - cominciava presto a nevicare, a novembre, dicevano:
gh’é chi Santa Caterina
cont el sacch della farina
e di quell'altra, della neve decembrina, si diceva poi che
fina a marz la se strascina

perché nelle piazze non dava fastidio a nessuno e nei cortili delle case serviva a divertire i ragazzi; ma infine anche loro se ne stancavano e rimaneva lì nera per delle settimane come un mucchio di sassi. Al prime lieto sole delle tempore di primavera se ne andava adagio adagio la neve... in silenzio... come era venuta.
Era una vita tranquilla e senza mutamento e l’uomo vi prendeva le cose quando e come il cielo le mandava. Non fuggiva il caldo, non temeva il freddo e la neve non poteva rallentare i suoi passi che erano già lenti per abitudine. La massa degli affari! Chi la conosceva? Figuratevi! Per una cambiale in protesto suonava allora una campana dalla torre dei Mercanti. Immaginate voi oggi un bollettino dei protesti sonorizzato? Ci sarebbe da diventar sordi! Non mi sento di condividere l'opinione di quel mio amico che sostiene di non aver mai visto una cambiale pagata, ma mi figuro l’eterno scampanio nelle città e nei borghi per gli effetti insoluti! Il custode del giardinetto ripassa davanti al cancello, le mani in tasca, il bavero alzato, chiuso nel pastrano color terra e si allontana verso alcune case. E' sera. Mi fermo, un poco a guardar dentro; contemplo i viali, i prati sepolti. Romantica neve! Immacolato candore! Mi pare che il cancello chiuso mi escluda da tutto un passato. Sono rimasto al di fuori. Mi sento triste perché mi so ammalato della più segreta di tutte le malattie, di una malattia quasi vergognosa ai nostri dì, malato di poesia... Come si può vivere con questo morbo?
Si vive così - penso - senza avvenire... e mi incammino... ma un povero vecchietto non lungi di lì, per una piccola moneta mi offre un foglietto rosa. No; ho ancora una possibilità nel futuro: « Da un giuoco che farete con le carte - leggo sul foglietto - comprenderete che la fortuna vi ha serbato una grande sorpresa apportatrice di ogni felicità».
Sta bene; so dove rivolgermi. C'è in via Disciplini una donna che tira su i punti delle calze e predice la sorte. Speriamo che sul tavolo di cucina della cartomante si disponga per me on fioriment e cioè una serie di fiori.

Delio Tessa, da "Ore di città" (1938-39), ed Scheiwiller 1984 pag.84

(la foto di Cicetta nella neve è mia)

lunedì 25 febbraio 2019

Ishiguro, Crooner

L'ho letto in meno di un'ora; le pagine sono sessanta ma ci sono tante illustrazioni. I personaggi sono quattro: un cantante americano sul viale del tramonto  e in cerca di rilancio; la donna che molti anni prima l'ha sposato essenzialmente per acquisire un superiore status sociale, un giovane musicista di un non ben identificato paese dell'area comunista europea, dissolta dopo la caduta del muro di Berlino e infine Venezia, o meglio, la Venezia mondana dei caffè di piazza San Marco e quella più intima dei canali e delle calli più silenziose. L'ho letto in meno di un'ora ma continuo a pensarci, forse perchè sorpresa dal valore paradigmatico che Ishiguro ha saputo dare alla situazione che ha costruito e ai personaggi che l'hanno animata, non ultima Venezia.

qui un estratto di "Crooner"




sabato 23 febbraio 2019

Avere un piccione


(on line, senza indicazioni)
Ho un piccione nero, modenese, un torraiolo marca «sottobanca», palpebra rossa, ciuffo capriccioso, gambe piumate. Pesa più di un chilo ed è capace di ingozzare straordinarie quantità di soia, girasole, ravizzone, veccia, favino, lenticchie, piselli, riso, granoturco, orzo, sorgo, miglio, frumento, scagliola, canapa e lino (naturalmente quando vado al consorzio e gli compero il «paniere»). Il più delle volte passeggia disperato sul vecchio tavolo del terrazzo battendo con il becco contro i vetri per dirmi che l’avanzo di pastina non è di suo gradimento, che il pane sbriciolato sa anche lui dove trovarlo, o che la trippa non è da piccioni. Non so nemmeno se è maschio o femmina. L’avevo comprato tre anni fa insieme a un altro ragazzo (o ragazza) della sua razza perché facessero i «giovanini» che io poi mi sarei mangiato. Grassi, teneri, squisiti. Il partner è scomparso; niente «giovanini», niente famiglia.
Attualmente vive con dei bru bru milanesi che vengono dalla chiesa di S. Angelo e dalla Questura. E' controllato, spiato, probabilmente sedotto. Difende il suo poco cibo con accanimento e disperazione contro quei due o tre coinquilini fissi, forse parenti, che stanno tutto il giorno a spiare dalla grondaia. E non riesce a fare razza. Gli sghembi piccioni di Milano devono possedere una forza genetica incredibile. La mala erba estirpa quella buona, si diceva una volta. Potrei mangiarlo, ma come si fa a mangiare un piccione nero che guarda dalla finestra per vedere se noi a colazione abbiamo per caso lenticchie?

(Giovanni Gandini, da "Caffè Milano". Edizioni Scheiwiller / All'insegna del pesce d'oro, 1987 pag.108)








giovedì 21 febbraio 2019

Mai fidarsi del vento

(illustrazione del 1904)


«Wer baut auf Wind, baut auf Satans Erbarmen!»
(Chi fa conto sul vento, fa conto sulla compassione di Satana)



Il buon Daland, esperto navigatore norvegese, sta tornando a casa e ha già avvistato il porto della sua città dove lo aspetta la figlia Senta; ma il vento improvvisamente cambia e lo costringe a tornare in alto mare. E' qui che incontrerà una nave apparsa all'improvviso, ed è grazie a quel vento (o per colpa di quel vento?) che farà amicizia con il comandante di quella nave, un ricco straniero sconosciuto.
Siamo proprio all'inizio dell'Olandese Volante (Der fliegende Holländer, "Il vascello fantasma" nelle prime edizioni italiane) di Richard Wagner, opera che riprende un'antica leggenda marinara. Il misterioso ospite, che finirà per chiedere la mano di Senta, è infatti un ospite spettrale e leggendario: il navigatore che, dopo aver sfidato il vento e il mare bestemmiando, è condannato a vagare in eterno. Ogni sette anni però può tornare umano, lui e i suoi marinai sul loro vascello, e deve sperare di trovare una donna che dimostri amore per lui.
Così dice la leggenda, e il giovane Wagner (siamo tra il 1839 e il 1841) ne trae la musica perfetta per una storia di fantasmi di quelle da brividi. Difficile fare di meglio: qualcosa di simile lo aveva già fatto Carl Maria von Weber pochi anni prima, con "Der Freischütz" (Il Franco Cacciatore), sempre ad altezze formidabili quanto alla musica, ma nella foresta e non nel mare; del Cacciatore Nero e delle pallottole stregate però parlerò un'altra volta, per intanto metto qui l'inizio dell'Olandese Volante e qui il coro dei fantasmi (contrapposto a quello giocoso dei marinai norvegesi, che vorrebbero invitarli alla festa), senza dimenticare (qui) la ballata di Senta.






martedì 19 febbraio 2019

Piedi di cristallo e mani di indurita neve





e non ebbero fatti venti passi quando, dietro un masso, videro un giovane seduto ai piedi di un frassino, vestito da contadino, del quale per il momento non potevano scorgere il viso perché si stava lavando i piedi in un ruscello che lì presso correva, e perciò lo teneva chinato; ed essi gli si avvicinarono così silenziosamente che egli non li udì, intento com’era, a lavarsi i piedi, che erano tali da sembrare due pezzi di bianco cristallo spuntati fra mezzo i ciottoli del fiume. Li stupì la bianchezza e la bellezza di quei piedi, sembrando loro che non fossero fatti a calpestar zolle di terra, né a seguire un aratro e dei buoi ( … ). Il giovane si tolse il berretto e si mise a scuoter la testa da una parte all’altra e a quel gesto si andarono sciogliendo e spargendo dei capelli che i raggi del sole avrebbero potuto invidiare. Così si resero conto che quello che sembrava un contadino era invece una donna ( … ). I lunghi e biondi capelli non solo le ricoprivano le spalle, ma ne nascosero tutta la persona, e se non fosse stato per i piedi, nient’altro si sarebbe visto di lei , tanti e tali erano. E a questo punto, le fecero da pettine delle mani tali, che se i piedi nell’acqua erano parsi cristallo, le mani tra i capelli parvero di indurita neve.

Da Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes ed. Einaudi


( Il dipinto è di John William Waterhouse )

domenica 17 febbraio 2019

Ferro


Tutte le stelle catalizzano fino al ferro, che è la cenere ultima delle reazioni termonucleari; o bruciano direttamente l'idrogeno fino a divenire ferro. Se io prendo questo piatto, dice Freeman Dyson, e lo lascio qui per un tempo immenso, dieci alla trenta anni, anzitutto assumerà una forma sferica, perché la forza reciproca di gravità delle varie parti dell'oggetto induce transazioni atomiche lente, per cui un atomo si muove sempre di più verso il baricentro dell'oggetto. Su tempi così lunghi qualsiasi oggetto è praticamente liquido e prende una forma sferica: non esistono oggetti rigorosamente solidi. Su un tempo ancora più lungo c'è sempre una probabilità piccolissima ma finita di catalisi delle reazioni termonucleari, per cui nuclei contigui ma non sovrapposti di atomi diversi possono fondersi e dare luogo al ferro con sviluppo di energia. Un corpo del genere sviluppa sempre un po' di energia, convertendosi lentamente in ferro. Così l'universo si riempie di biglie di ferro: la Luna diventa una biglia di ferro, e altrettanto fanno la Terra e i pianeti.


(il fisico Tullio Regge, da "Dialogo" di Primo Levi e Tullio Regge, ed. Comunità / Oscar Mondadori 1984, pag.50)



(illustrazione da un libro dell'astronomo Thomas Wright, 1750)


venerdì 15 febbraio 2019

Golaud


- Je ne pourrai plus sortir de cette forêt...
(Golaud, l'inizio di "Pélléas et Mélisande" di Debussy)

 
(Gustav Klimt, 1903, dettaglio)


E' un archetipo potentissimo, e antico come i nostri sogni: perdersi e non trovare più l'uscita. Nell'opera di Materlinck, messa in musica da Debussy, si parte da una battuta di caccia: una bestia ferita e il cacciatore che si spinge così avanti nel cercare la vittima da perdere la strada. Ma molte volte è qualcosa di reale, di più che tangibile anche per tutti noi: capita a tutti, infatti, di passare dei momenti così. "Non riuscirò più ad uscire da questa foresta", dice il cavaliere Golaud, che invece nella foresta troverà una via d'uscita nella piccola Mélisande. Ma, anche questa, è soltanto un'illusione: in realtà in quella foresta non c'erano vie d'uscita, dalla foresta oscura Golaud non uscirà mai. Il resto, quello che accade nel frattempo, anche la nostra vita, è soltanto illusione.


qui per l'opera di Debussy


mercoledì 13 febbraio 2019

Fiori recisi


Si aspettava i fiori, da me, per l'onomastico; ma a casa mia l'onomastico era sempre stato qualcosa di molto leggero, quasi inconsistente. Del genere: "è il tuo onomastico, auguri"; si risponde "grazie" e tutto finisce lì. Qualcosa avevo sospettato sul lavoro, quando i meridionali dicevano a noi lombardi "sei tirchio, è il tuo onomastico e non paghi nemmeno il caffè"; ma io pensavo che fosse uno scherzo tra compagni di lavoro. Invece, no: la mia quasi signora (nel senso che io l'avrei sposata, lei non so - oggi qualche dubbio ce l'ho), milanesissima ma con i nonni materni siciliani, era molto legata all'onomastico e io non lo sapevo ancora. Insomma, avevo toccato con mano un confine culturale: a Nord dell'onomastico non sappiamo bene cosa fare, a Sud (da dove comincia questo confine invisibile?) invece ci tengono molto. Si aspettava da me dei fiori, per la precisione delle rose a gambo lungo; il giorno dopo era San Valentino e su quello ero preparato, invece andò così, con una crisetta poi superata ma che era in realtà una delle prime crepe visibili in modo manifesto. Per San Valentino mi ero poi presentato con le rose a gambo lungo, che costano una fortuna - soprattutto a febbraio perché chissà da dove vengono (anche dal Kenya, se non ricordo male), ma a me i fiori recisi non sono mai piaciuti. D'estate, sì, si raccolgono fiori in giardino e si mettono in vaso (anche perché poi sfioriscono presto, rose e tulipani), oppure si va nei prati e si raccoglie quel che c'è (i ranuncoli sono bellissimi), ma l'idea di spendere tutti quei soldi mi turbava prima e mi turba ancora di più oggi. Però i fiori recisi a molte donne piacciono, si continua a regalare fiori anche rari e costosi, c'è tutto un linguaggio dietro che io continuo a ignorare. Che fare, che dire: avevo altre qualità ma non questa. Da allora sono rientrato nei ranghi, facevo ed ho fatto altri regali (anche molto costosi) ma i fiori, mai più fiori a meno che non siano per i vasi sul balcone o per il giardino. Non recisi, almeno finché posso decidere io.


(Henri Fantin-Latour, 1883)

lunedì 11 febbraio 2019

Lelapo

fonte

Il cane dipinto da Piero di Cosimo ha un nome. Si tratta di Lelapo, famoso per la sua velocità: non dava scampo alcuno alle sue prede. Qui appare immobile, come Procri, la donna al centro del dipinto, uccisa dal marito Cefalo, forse nel quadro rappresentato in forma di satiro. Lelapo fu dato in dono a Procri da Minosse insieme a un giavellotto altrettanto formidabile: non mancava un colpo. La donna sarà ferita mortalmente proprio da quest’arma: gelosa del marito, Locri era nascosta tra i cespugli per spiarlo; Cefalo, sentendo un fruscio e credendosi osservato da un animale in agguato, lanciò il giavellotto e ferì mortalmente la moglie. Sembra che nella morte di Procri e nel dolore di Cefalo trovasse soddisfazione Artemide a cui cane e lancia erano originariamente appartenuti.

Trovo che questo dipinto parli di molte cose, dell'arte soprattutto, e di come riesca ad assorbire in sé, in modo lirico, qualsiasi cosa, anche la morte.


La storia di Procri e Cefalo appare nelle Metamorfosi di Ovidio ( qui ).
Qui una lettura dell'opera di Grazia ( dal blog "senzadedica" )

sabato 9 febbraio 2019

John Barleycorn




"John Barleycorn must die", cioè John Barleycorn deve morire, e detto così sembrerebbe il titolo di un western o di un thriller, invece - cito il dizionario inglese - John Barleycorn è "la personificazione dello spirito del whisky e della birra". Infatti, in inglese barley è l'orzo e corn è il chicco del grano (in Usa, mi spiega il dizionario, corn è il granoturco, il mais). "John Barleycorn" è una ballata popolare, scritta nella maniera criptica e criptata degli alchimisti, ma anche scherzo o gioco da osteria, che racconta le fasi di lavorazione che portano dall'orzo alla birra, o al whisky. Ne esistono parecchie versioni, porto qui quella che me l'ha fatta conoscere, da un famoso lp dei Traffic; ma si può trovare anche con John Renbourn, o con i Dubliners, e altri ancora.



There were three men came out of the west, their fortunes for to try
And these three men made a solemn vow
John Barleycorn must die
They've plowed, they've sown, they've harrowed him in
Threw clods upon his head
And these three men made a solemn vow
John Barleycorn was dead
They've let him lie for a very long time, 'til the rains from heaven did fall
And little Sir John sprung up his head and so amazed them all
They've let him stand 'til midsummer's day 'til he looked both pale and wan
And little Sir John's grown a long long beard and so become a man
They've hired men with their scythes so sharp to cut him off at the knee
They've rolled him and tied him by the way, serving him most barbarously
They've hired men with their sharp pitchforks who've pricked him to the heart
And the loader he has served him worse than that
For he's bound him to the cart
They've wheeled him around and around a field 'til they came onto a pond
And there they made a solemn oath on poor John Barleycorn
They've hired men with their crabtree sticks to cut him skin from bone
And the miller he has served him worse than that
For he's ground him between two stones
And little Sir John and the nut brown bowl and his brandy in the glass
And little Sir John and the nut brown bowl proved the strongest man at last
The huntsman he can't hunt the fox nor so loudly to blow his horn
And the tinker he can't mend kettle or pots without a little barleycorn




giovedì 7 febbraio 2019

Quel luogo, quel tempo


fotogramma del film Dgis Bolomde
di Anna Sarukhanova

Io stavo sulla piazzetta, che vedevo da alcune finestre, e di quella la cosa importantissima è il fracasso infernale che veniva da una bottega di fabbri: In ogni stagione il rumore era eterno e assorbe ogni mia sensazione di quel luogo e di quel tempo.
Se quelle finestre mi tenevano ancora dentro la città, nella stessa casa avevo una terrazza grandissima che era già in campagna. Ricordo i liberi voli delle rondini che si frangevano contro quella terrazza sospesa sul vuoto di quel panorama.

                                                  Sandro Penna, "Un po' di febbre "

martedì 5 febbraio 2019

Storia del topo

(disegno di Laura Richards, da un libro del 1881)
Vorrei raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante. Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano. - Un bambino dorme. C'è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte. Il bambino, non avendo il latte, strilla e la mamma strilla. Il topo disperato si batte la testa contro il muro, ma si accorge che non serve a nulla e corre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata guerra e l'acqua si disperde: vuole il mastro muratore che la riatti. Il topo va dal mastro muratore: vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagna che è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra. Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà pini, quercie, castagni, ecc. Così la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte. Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto nuovo humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura ecc. Insomma il topo concepisce una vera e propria piatilietca (piano quinquennale). E' una novella propria di un paese rovinato dal disboscamento. Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi le impressioni dei bimbi. Ti abbraccio teneramente.

Antonio

(Antonio Gramsci, lettera del 1 giugno 1931, da Lettere dal carcere, ed.Einaudi 1965)





domenica 3 febbraio 2019

Ossimori

I momenti di pausa tra un consiglio di classe e un altro a volte sono fecondi, riservano piacevoli sorprese; tra una chiacchiera e l'altra ( non ricordo più su cosa )  un mio collega, un ingegnere, peraltro,  cita un'espressione ossimorica contenuta in un testo poetico di Pier Paolo Pasolini. La riporto qui insieme ai versi in cui è incastonata.


                                                                             10 giugno 1962
Un solo rudere, sogno di un arco,
di una volta romana o romanica,
in un prato dove schiumeggia il sole
il cui calore è calmo come il mare:
lì ridotto, il rudere senza amore. Uso
e liturgia, ora profondamentee estinti,
vivono nel suo stile - e nel sole -
per chi ne comprenda presenza e poesia.
Fai pochi passi, e sei sull'Appia
o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,
per tutti. Anzi, meglio è complice
di quella vita, chi stile e storia
non ne sa. I suoi significati
si scambiano nella sordida pace
indifferenza e violenza. Migliaia
migliaia di persone, pulcinella
d'una modernità di fuoco, nel sole
il cui significato è anch'esso in atto,
si incrociano pullulando scure
sugli accecanti marciapiedi, contro 
l'Ina-Case sprofondate nel cielo.
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.


da Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in, Tutte le poesie,  a cura di W. Siti, Mondadori 


 Una parte del testo poetico viene recitata da Orson Welles in un cortometraggio di  Pasolini"La ricotta" ( qui )
L'ossimoro che trovo fulminante è "Io, feto adulto"ma non è l'unico ad avermi lasciato senza parole.


Orson Wells in un fotogramma di "la ricotta"







venerdì 1 febbraio 2019

Caracola





Me han trahìdo una caracola.
Dentro le canta
un mar de mapa.
Mi corazòn se llena de agua
con pececillos
de sombra y plata.
Me han trahìdo una caracola.

Federico Garcia Lorca, da "Canzoni per bambini"


(Mi hanno portato una chiocciola. Dentro le canta una mappa del mare; il mio cuore si riempie d'acqua e di piccoli pesci d'ombra e d'argento. Mi hanno portato una chiocciola.)






l'immagine viene dal magnifico sito www.lucianabartolini.net