martedì 30 ottobre 2018

Ove le ninfe ognor cacciano belve

(immagine reperita in rete )

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c'han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve
.

Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 72

domenica 28 ottobre 2018

L'albero più alto di Milano


( Toni Demuro )
Una vecchina nera nera in piazza Firenze guardava gli alberi. «Che alberi sono?» domandai, visto che li osservava con tanto interesse. «Noi ci dicciamo àlberi» rispose, e capii dall’accento che era sarda, probabilmente gallurese. Ma la sua scarsa conoscenza delle specie era compensata dalla curiosità che sprigionava quel suo visino grinzoso e simpatico, tutto teso a guardare in su. «Perché vvoglio vvedere chi è più alto. Noi a Luras le abbiamo più basse le sughere...».
Trattenendo il desiderio di spiegarle che a Milano querce da sughero non ce ne sono, mi allontanai con l’idea fissa di sapere qual é l’albero più alto della città. Quale sarà, dove, chi l’ha visto, chi lo vede, chi lo racconta?
Lontano la donnina sarda guardava sempre in su e pareva dicesse «più alto, più alto...» come in «Miracolo a Milano » di De Sica, nella tenda della maga chiromante. All’angolo di via Procaccini avevo deciso che l’albero più alto di Milano è un certo platano antico dell’ex Giardino Perego, in via dei Giardini. Un albero che da ragazzo tenevo di mira dal settimo piano di via Annunciata con un Flaubert a piombini, cercando di beccarne i frutti, tondi, ispidi, simili a corbezzoli.
Ma dove trovare in realtà l’albero più alto? La ricerca non deve limitarsi ai Navigli ma estendersi a tutto il territorio comunale. Chi riuscirà a individuare e descrivere una pianta quasi sconosciuta che magari è in piazza Piola o in Mac Mahon? Personalmente punto sui Giardini Pubblici, su un vecchio faggio rosso o una magnolia con le foglie a barca. O un Taxodium Distichum della Florida, di quelli con le radici nell'acqua. Non ricordo pioppi piramidali, anche perché il vento li abbatte prima che raggiungano record di altezza.
Il Parco Sempione è misterioso. Sicuramente privo di noci americani e di sequoie, può contare soltanto su cedri del Libano e su betulle che si sono montate la testa. Abeti dove? Gli aceri contano solo per la chioma e per i frutti fatti a elicottero che pirlano quando cascano. I Giardini Ravizza e Guastalla sono stati abbassati dallo smog, il Parco Lambro è di recente formazione e, schiacciato com'è fra Milano 2 e gli aeroplani, non può sicuramente candidare l'albero vincente. Spero in rari giardini privati ancora esistenti, querce secolari nutrite da antichi principi che telefonano direttamente alla forestale e in caso di necessità chiedono perfino aiuto a «L’Airone». I tigli di via Marina, i frassini misteriosi della Villa Reale, l’olmo del Petrarca, chi vince? Chiunque mi aiuterà a scoprire gli alberi più alti, e forse più nobili della città avrà la mia gratitudine.


Giovanni Gandini, da "Caffè Milano". Edizioni Scheiwiller / All'insegna del pesce d'oro, 1987




venerdì 26 ottobre 2018

Forbicina


Quasi tutti abbiamo paura delle forfecchie: intendo dire delle forbicine, di quegli insetti bruni dal corpo appiattito ed allungato il cui addome termina in una pinza dall’aspetto minaccioso. Stanno nascoste sotto la corteccia degli alberi, o si annidano a volte nei panni riscaldati dal sole, nelle pieghe degli ombrelli o delle sedie a sdraio. Non fanno male a nessuno: la pinza non é velenosa, anzi, non pinza affatto (è un organo che facilita l'accoppiamento); e non è vero, ma viene tenacemente insegnato da generazione a generazione, che «se uno non sta attento, gli si infilano nelle orecchie». Questa nozione è talmente radicata nella nostra memoria collettiva che è stata recepita nella denominazione binaria della bestiolina, che infatti si chiama ufficialmente Forficula auricularia; ma inglesi e tedeschi non hanno aspettato il battesimo scientifico, e da secoli la chiamano rispettivamente earwig e Ohrwurm, l’insetto o il verme dell’orecchio. Oltre alla pinza, la forfecchia ha un’altra proprietà che ci incute uno strano timore: come tutti gli animali notturni, se viene esposta alla luce passa bruscamente dall’immobilità alla fuga, ed il suo trasalire si ripercuote in un nostro trasalire.

Primo Levi, da "Bisogno di paura" nel volume "L'altrui mestiere"


(immagine presa da www.wikipedia.it)

mercoledì 24 ottobre 2018

Il museo Majakovskij



Non è semplice rintracciarlo, sebbene si trovi nei pressi della centrale piazza su cui si affaccia la Lubyanka.
L’ingresso non è immediatamente visibile, vi si accede da un vicoletto di passaggio, stretto tra le pareti di una grande costruzione con uffici e piccoli negozi.
L’ultimo edificio in cui Majakovskij ha abitato è stato anni fa letteralmente sventrato per consentire l’innesto, al suo interno, di un originale impianto museale. Un insolito percorso in parte elicoidale conduce verso la stanza in cui il poeta si tolse la vita. Ascendendo lentamente verso questo ambiente, conservato più o meno come Majakovskij doveva averlo visto per l’ultima volta, è possibile entrare nella dimensione mossa, dinamica, anticonvenzionale dei primi decenni del Novecento. Le testimonianze, i documenti sono inquadrati in pannelli, pareti, volumi irregolari. Prevalgono i colori violenti, stridenti. Il richiamo al futurismo è palpabile così come l’atmosfera degli anni in cui Majakovskij operò. Agli scritti si alternano disegni del poeta, oggetti personali, foto a cui ci si accosta in modo sempre diverso, visto il particolare e sorprendente allestimento. Il suggestivo percorso si conclude con la visione, improvvisa, della stanza del poeta, un ambiente semplice, scabro quasi, dopo tanti colori, unico spazio rimasto intatto dopo la ristrutturazione.
L’impatto è brusco, sorprende, paralizza ed è reso ancora più forte, più acuto, dalla visione della polvere che il tempo ha lasciato e che nessuno ha più rimosso chissà a partire da quale momento, così come l’odore acre dell’umidità che ha intriso le tappezzerie. Sulla soglia, dei fiori, forse rose.



info

lunedì 22 ottobre 2018

La predica di sant'Antonio ai pesci


Sant'Antonio da Padova predica alla gente, ma la gente non lo ascolta; così, come san Francesco, va a predicare agli animali. Si rivolge ai pesci invece che agli uccelli del cielo; i pesci accorrono, ascoltano, sono estasiati, che cose belle che sta dicendo il santo. Però, poi, la predica finisce e tutto torna come prima: è una poesia popolare tedesca, riportata da Arnim e Brentano nella raccolta "Des Knaben Wunderhorn" (1806-1808) e poi messa in musica da Gustav Mahler  (qui). Il motivo musicale alla base di questo Lied verrà poi ripreso da Mahler nella sua Sinfonia n.2 (il terzo movimento, "Scherzo"). (qui)


PREDICA DI ANTONIO DA PADOVA AI PESCI

Va Antonio alla chiesa, la gente non viene;
ai pesci dei fiumi la predica tiene.
Le code dimenano, al sole sfavillano.
Le carpe panciute son lì radunate,
spalancan la bocca, l'arringa le tocca.
Mai predica udita alle carpe fu tanto gradita.
I lucci puntuti, da gran combattenti,
son svelti venuti e ascoltano intenti.
Mai predica udita ai lucci fu tanto gradita.
Quei pesci un po’ pazzi che fanno il digiuno,
intendo stoccafissi, son pronti al raduno.
Mai predica udita ai lucci fu tanto gradita.
Anguille e storioni, gran cibo ai ricconi,
si muovon soltanto per udire il Santo.
Mai predica udita a loro fu tanto gradita.
Testuggini e gamberi dal lento messaggio
risalgono rapidi e ascoltano il saggio.
Mai predica udita a loro fu tanto gradita.
I pesci più vari, distinti e ordinari,
il capo han levato perché han ben capito.
Dio l’ha voluto, Antonio hanno udito.
Antonio ha finito, van tutti all’uscita.
Rapinano i lucci, si aman le anguille.
La predica piace e lor si dan pace.
Di sbieco il granchio va, è grasso il baccalà,
la carpa è già affamata, la predica ha scordato.
La predica piace e lor si dan pace.

sabato 20 ottobre 2018

I cani di Milano


Lunedì mattina ho scoperto di colpo che nella mia casa abitano molti cani, non come si pensa di solito, cioè cani da padrone da guardia o da compagnia, proprio cani che hanno in mano il loro regolare contratto d'affitto. Gli inquilini sono loro. Al quinto piano c'è da oltre cinque anni una coppia di Schnautzer che mi salutano quando vanno al mercato, tenendo al guinzaglio una bambina fulva. Sono fra gli inquilini più anziani e se non si tolgono il cappello o mi aprono la porta è perché, come si dice, sono dei diversi, tutto qui. Al sesto c'è una lupessa nera, giovane e su di giri, di quelle che però ci tengono alla forma: ogni volta che la incontro solleva la zampotta come se dovessi baciargliela. Mi sembra eccessivo, mi scosto semplicemente e accenno a un inchino. Al secondo, Scala A, vive un bestione tutto muscoli che sfreccia via trascinandosi una signora col cappello (prima il contratto era intestato a lei) che fa resistenza, punta i piedi, cerca di attardarsi sotto il portone per fare due chiacchiere.



Questi nuovi inquilini prediligono l'ascensore, e sono di solito allegroni. Fare «bù!» per scherzo all'una di notte è uno dei loro giochi preferiti, come trotterellare per le scale con il guinzaglio sciolto che fa tic tic tic, o muovere le grandi orecchie fissandoti con occhi tristi nell’attesa sculettante che una porta si apra. Inquilini felici e non malevoli, custodi neanche tanto zelanti delle serrature e dei chiavistelli, delle chiavi doppie e triple, degli impianti antifurto, del «chi è?» soffiato con titubanza dietro la porta dell’appartamento. E' gran brava gente e al prete che viene a benedire la casa non fanno mai mancare una busta di Fido. I tre squisiti Raf-Terrier del settimo, marito moglie e nipotino, hanno anche due gatti, un tigrato di razza londinese e una soriana castrata di tre anni. Anche loro, come i padroni Terrier, leggono ogni mattina «Il cane nuovo» e appena possono sgusciano fuori fra le sbarre del cancello, per andare a messa.Diffido solo di un volpino col collare, un frociarolo nouveaux-riche che mi guarda di traverso; spesso, rientrando, scorgo nella sua cassetta delle lettere «Zampa continua».

Giovanni Gandini, Caffè Milano. Edizioni Scheiwiller / All'insegna del pesce d'oro, 1987




(le tazzine sono opera di Eleonor Bostrom)

giovedì 18 ottobre 2018

Calvin e Hobbes





Bill Watterson è quasi mio coetaneo: nato il 5 luglio 1958, ci dividono poco meno di due mesi (lui è più vecchio). Lui è nato a Washington e io a Como, quindi non siamo andati a scuola insieme: ma questi sono dettagli. La vera differenza - purtroppo per me - è che lui è un grande artista, e io no. 

martedì 16 ottobre 2018

Siamese


Mi quand nassi un'altra volta / nassi un gatt de portinara
scriveva Delio Tessa un centinaio d'anni fa, in una delle sue poesie più simpatiche ("ol gatt del scior Pinin"). 

E appunto un "gatt de portinara" era il nostro siamese perché nato in casa di mia zia Maria, che a Parma faceva appunto la portinaia di uno stabile insieme al marito zio Aldo (zia Maria abita ancora lì). Un'inquilina che stava traslocando le aveva regalato una coppia, e la coppia ovviamente non aveva perso tempo. I gattini erano belli e andavano a ruba, così un giorno mia sorella (all'epoca diciottenne) decise che dovevamo assolutamente avere un gatto; la zia prese il più bello (parole sue) e noi tutti ci ritrovammo inopinatamente nella primavera 1975 con un gatto in casa. 
Andò a finire così: il gatto e mia sorella non andarono mai d'accordo, mia sorella di lì a poco cominciò a pensare ad altro (matrimonio), e intanto il siamese si era affezionato a tutti noi, e noi a lui. Si era affezionato a ognuno di noi in un modo diverso: mio padre, immediatamente riconosciuto come Capo, era una specie di divinità ma affettuosa; il Siamese lo aspettava religiosamente ogni pomeriggio dopo le 17, quando tornava a casa dal lavoro, e prendevano il caffè insieme - cioè, mio padre prendeva il caffè mentre il gatto no, il gatto andava a dormirgli sulle gambe rendendogli difficoltoso bere il caffè, ma così funzionava senza il minimo problema. Mia mamma era ovviamente la Mamma, l'unica a cui abbia mai fatto le fusa; mio fratello maggiore era il Fratello che aspettava la sera per andare a dormire (se tardava, il siamese diventava inquieto). Quanto a me, oltre che compagno di giochi ero diventato il suo punto di riferimento musicale; l'ho avuto compagno fedele di ascolto per quasi un decennio e aveva gusti molto precisi - ma per chi fosse interessato forse è meglio leggere qui. Mio papà non c'è più dal 1981, una malattia veloce e terribile (chi ci è passato sa cosa voglio dire); il gatto ne sofferse molto, anche più di noi se possibile, dopo sei anni di amore assoluto. Il siamese visse ancora un paio d'anni, ma non era più la stessa cosa: mio fratello si era sposato, io lavoravo ed ero sempre fuori casa, era arrivato un bambino nuovo, il gatto stava bene ma era spesso in casa da solo. Le cose cambiano, anche per i gatti.






PS: io dico e scrivo Siamese, oggi i noiosi vorrebbero "pointed black" perché era un gatto muscoloso e robusto, un piccolo puma, quindi non flessuoso e sottile come i siamesi degli allevamenti; ma lui (lo so per certo) si ricordava ancora dei suoi antenati nelle giungle dell'Indocina, almeno nei suoi sogni, pur essendo gatt de portinara; e quindi Siamese sia per sempre, ancora oggi, nel mio ricordo e in quello della mia famiglia.


Pensa ed opra,
varda e scolta,
tant se viv e tant se impara;
mi, quand nassi on'altra volta,
nassi on gatt de portinara!
Per esempi, in Rugabella,
nassi el gatt del sur Pinin... (...)


(dall'edizione in due volumi delle poesie di Delio Tessa, a cura di Dante Isella, ed.Einaudi 1999, pag.83)





domenica 14 ottobre 2018

I quattro cardini del mondo

Sali sul tetto... chinati verso i quattro cardini del mondo, protendendo la mano. 
Sole... Acqua... Nuvole... Fiamma... 
Tutto quanto c’è di bello nel mondo.  
[...] Si spengono nel tempo, affondano nello spazio
i pensieri, gli eventi, i sogni, le navi... 
E io intanto porto nel mio viaggio dei viaggi 
il migliore fra i miraggi terreni

Maks Vološin  (qui e qui )


Di Maks Vološin ( 1877-1932 ), poeta e pittore russo,  non conoscevo nulla; mi ci ha messo sulle tracce Marina Cvetaeva che  in un suo scritto lo descrive così:.


Se si potesse rappresentare plasticamente ciascun uomo, Maks sarebbe una sfera.
Veniva sempre voglia di toccarlo, di  accarezzarlo   





venerdì 12 ottobre 2018

Pioggia


Ho avuto spesso occasione di intervenire in dibattiti con gli spettatori ed ho notato che quando affermo che nei miei film non ci sono simboli e metafore ogni volta il pubblico esprime la sua decisa incredulità. Di continuo mi domandano con grande passione cosa significhi, ad esempio, nei miei film la pioggia. Perché essa ricorre in ogni film, perché si ripetono le immagini del vento, del fuoco, dell’acqua? Io rimango imbarazzato davanti a tali domande...





mercoledì 10 ottobre 2018

La volpe sul ghiaccio

Quella figura universale che è la Dama Celeste, l’Amante Soprannaturale, in Cina assume l'aspetto di una donna volpina, che non è necessariamente una perfida ladra di sessi, anzi può essere un’amante di sogno che largisce estasi, fortuna e poteri soprannaturali al prescelto. Ma, essendo soprannaturale, è imprevedibile, capace di tutto.
Perché i cinesi la ravvisano in forma di volpe o di donna volpina? Jilek mi rammenta la collezione di storie di volpi soprannaturali opera di Pu Song-Ling, che usci in versione inglese a New York nel 1946  (Chinese Ghost and Love Stories) con una prefazione di Martin Buber. Buber invitava a considerare i significati che germogliano nella mente osservando una volpe che d’inverno attraversa un fiume o un lago ghiacciati. Mentre trotta, di continuo abbassa il capo per cogliere con l'orecchio i fruscii delle correnti nascoste sotto il lastrone: vive nel mondo superiore, luminoso, yang, ma nello stesso tempo ascolta i moti nascosti della tenebra, yin; è consapevole dell’una e dell’altra sfera. Media. Lo spirito volpino appartiene al mondo delle pure energie, dello spirito, ma cala nel nostro, nella materia, attraverso la porta dei sogni. Se lo fa con dispetto e perfidia, addio sesso. (...)

Elémire Zolla, dal Corriere della Sera 22 febbraio 1988 (Un morbo mitico in Thailandia)
(poi pubblicato nel volume "Lo stupore infantile", ed. Adelphi)

 
(Ohara Koson, 1930 circa)
 

lunedì 8 ottobre 2018

L'uomo cavallo ( II )



(Annie Oakley, 1901, Milano)

Il giovane e candido Amédée de Saint-Gapour, vista che ebbe la giovane donna, se ne innamorò perdutamente e giurò seduta stante a se stesso d’ottenerne i supremi favori. La dama altri non era che la legittima consorte d’un capitano delle dogane di un piccolo porto della Normandia che le più elementari convenienze mi vietano di designare a tutte lettere. Gioì non poco, la bella capitana, nel vedere il povero Saint-Gapour così infiammato, e poiché le distrazioni in provincia sono alquanto rare, ella si ripromise di trarne un certo svago, almeno per una parte dell’estate.
- Mio povero amico, diceva, voi mi amate, voglio crederlo, ma io che posso farci?
- Diamine! farfugliava Saint-Gapour, lo sapete benissimo.
- Credo, in effetti, d’indovinare che cosa vi aspettiate da me. E se mio marito ci sorprendesse?
- Faremo in modo che non ci sorprenda.
- Faremo in modo, faremo in modo... Sempre la solita storia: si fa in modo, e poi si vien pizzicati lo stesso. Ma lo sapete, se ci cogliesse sul fatto, con che cosa mio marito ci trapasserebbe il corpo?

sabato 6 ottobre 2018

L'uomo cavallo ( I )


(Francia 1475, il Sagittario)
(...) Mi parla a lungo anche di "zio Nardu", un bizzarro vecchio che diventava cavallo. Abitava in una povera bicocca fuori Nuoro. Fellini ci andò accompagnato da un pretino in fama di buon esorcista. Arrivati alla casa di zio Nardu, dovettero aspettare due ore perché lui non voleva aprire. Alla fine si spalancò la porta e zio Nardu apparve, un vecchietto di settant'anni, all’apparenza niente di straordinario. Come vide il prete, si fece il segno della croce. Salutò in tono piuttosto servile. Subito il pretino lo redarguì severamente: « Ti vuoi convertire finalmente? La devi smettere di trasformarti in bestia! Altrimenti finirai all’inferno...». E lui diceva di sì, era pentito, prometteva di non farlo più, lacrime gli colavano dagli occhi. 
A questo punto intervenne Fellini: il pretino, continuando così, gli avrebbe rovinato tutto quanto. « Sì, zio Nardu, tu devi convertirti - disse il regista. - Sono venuto apposta da Roma per parlare con te. Ma, per dimostrarti la sua benevolenza, la Chiesa ti dà il permesso di diventare bestia ancora una volta.» 
A quelle parole zio Nardu si rianimò, fece una grande risata, poi si mise a parlare velocemente, non si capiva una parola, sembrava recitasse una filastrocca di nomi messi insieme senza nesso. All’improvviso cominciò a nitrire, non a emettere suoni simili a nitriti, ma a nitrire veramente come un cavallo. Ben presto avvenne una metamorfosi mostruosa. La faccia divenne un muso, il muso si allungò a vista d’occhio assumendo fattezze equine; gli occhi si ingrandirono, divennero interamente neri e lucidissimi, appunto come gli occhi dei cavalli, le orecchie si spostarono in alto, così da sporgere dalla sommità del capo. Perfino il corpo, sembrò a Fellini, acquistava un certo che di cavallino. Allora, sempre cacciando altissimi nitriti di gioia, l’uomo-cavallo cominciò a scalciare furiosamente. E il pretino a recitare le formule sacre dell’esorcismo. Fino a che l’altro si quietò e nel giro di pochi secondi riacquistò sembianze umane. 
Al termine dell’inusitata scena, Fellini si trattenne a discorrere con zio Nardu. «Spiegami un po’ - gli chiese - perché ti piace fare il cavallo?». « Ma il cavallo è più buono, è più onesto degli uomini - rispose il vecchio con entusiasmo - Non c'è niente di più bello di un cavallo. Sì, per questo io voglio diventare un cavallo. Sì, sì, io sono un cavallo. » Zio Nardu è morto recentemente, del tutto felice perché nella suprema agonia aveva avuto una delle sue crisi, tramutandosi in destriero. E i suoi ultimi rantoli furono nitriti. Un matto, insomma, ma fuori della norma dei matti. Del resto, mi ha fatto notare Fellini, la pazzia in certi casi è “materializzante” cioè l’uomo finisce per assomigliare alla persona o alla cosa in cui si illude di essere trasformato. Così c'è il pazzo che può assomigliare a Napoleone, il pazzo che assume le forme di un uccello e così via. (...)


Dino Buzzati, da "I misteri d'Italia", edizione Mondadori 1978. (pubblicato sul Corriere della Sera nell'agosto 1965)



giovedì 4 ottobre 2018

Il tarlo del domani


"... Ritiratasi nella sua camera, chiamò la nutrice e le disse : - Mi ha preso il tarlo del domani e non riesco più a vivere come gli uomini semplici. Dimmi, dunque, nutrice, come posso avere potere sul tempo? La nutrice, udite queste parole, si lamentò come il vento che porta la neve. E disse: - Che disgrazia, un tarlo è entrato nel tuo midollo e non c'è rimedio che guarisca il pensiero! Ma dato che vuoi il potere e benché il pensiero sia più freddo dell' inverno, esso ti accompagnerà fino alla fine della tua vita.
La principessa si sedette nella sua stanza della casa di pietra e pensò al pensiero.
Sedette lì nove anni e l'acqua batteva sulla terrazza e i gabbiani gridavano attorno alle torri ed il vento muggiva nei camini della casa. Per nove anni non uscì e non vide i cieli aperti, né gustò l'aria. Non ascoltò parola da nessuno e non guardò né a destra né a sinistra, ma pensò solo al pensiero del domani.
La nutrice le dava da mangiare in silenzio.
La principessa prendeva il cibo con la mano sinistra e mangiava senza grazia alcuna o piacere."

da  La canzone del domani di R.L.Stevenson   in "Favola crudele" ed. Fiabesca

dipinto di Felice Casorati

martedì 2 ottobre 2018

Il giardino indifeso

Ci si va calpestando il pietrisco, i calcinacci, i mattoni in cocci, scavalcando i binari della decauville. C'era qui, appena un mese fa, il Vecchio Ospedale Fatebenefratelli. Oggi è demolito. Ai margini, laggiù, lungo un alto muro glabro, è venuto a nudo un giardinetto che prima era chiuso in qualche cortile interno dell’ospedale. Le piante, arse e impolverate, ti danno un senso di timidezza, di pudore violato, paion raccogliersi in gruppo per non farsi veder dalla gente, non sono state abituate al chiasso della città; i rumori giungevano a loro spenti. Sotto questi rami... bisbigli di suore, passi di infermieri, soste di convalescenti e null’altro.Avvicinandosi ai giardini ci si accorge che è un piccolo bosco. C’è una scala a pioli appoggiata a un tronco. Statue mozze, raccolte in un angolo, per qualcuno che le esamini se convenga tenerle o buttarle via. A sfondo, c'è il muro di un caseggiato messo a nudo lui pure da poco e che presenta i soliti rettangoli di tappezzeria a mezza aria di locali che furon stanze abitate. Mi par di scorgere per terra i segni di sedili di pietra divelti. Gli operai son venuti sin qui ma hanno risparmiato il bosco non avendo ordini. Ma così queste piante non possono stare, avevano una cintura di muraglie un tempo che era per esse come un abito ed ora si vedon nude in faccia a tutti. Come potranno utilizzarle lasciandole in piedi? L'area su cui campano vale ben più della loro vita. Le abbatteranno. Il fogliame è spesso, l’ombra è cupa qua sotto e non c'è aria. Il riverbero acre del pietrame morde gli occhi. Si può essere sfrattati rimanendo al proprio posto? Sì, quando la casa se ne va e tu resti.
Non guardatele troppo le povere piante, aspettano la notte che le fasci, che le isoli, potranno ancora illudersi d’esser a casa loro, nel loro cortile segreto; riudranno in sogno i passi cauti nelle sale, le voci sommesse nei corridoi. Qualche lume si spegnerà... ma due... tre... rimarranno... vegliando sempre. In una corsia... un lamento... Ma il vecchio ospedale è morto e le sue piante son come suore di clausura cui abbian tolto i voti colla violenza.

Delio Tessa, da "Ore di città" (1938-39), ed Scheiwiller 1984, pag.48

( il dipinto è di Camille Pissarro )