martedì 7 agosto 2018

Geco ( II )


Labrene: così talvolta le chiamo perché così le chiamava un mio compagno d’infanzia venezolano. Si tratta in sostanza d'un comune geco, e precisamente di quello denominato (salvo errore) dagli zoologi platidattilo muraiolo: sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre serpeggiando le vecchie muraglie, penetrando al caso fin nelle stanze d’abitazione, ove, come dappertutto, guata e sorprende insetti vari e segnatamente farfalle. Per questo animaletto fra tutti innocuo ho sempre provato un disgusto profondo, una nausea e repulsione d’ogni mia sostanza vitale, un tremore delle fibre più riposte. Già mia madre, mi si riferisce, usava, entrando in una stanza disabitata o passeggiando nella corte, levare senza motto il dito verso e contro il suo nemico, del quale un infallibile istinto le denunciava la presenza; e ciò affinché i suoi accompagnatori provvedessero a rimuovere la causa del suo turbamento. Quanto a me, e poiché nella mia casa antica m’era impossibile evitare ogni rapporto colle abborrite labrene, da bambino fantasticavo lungamente su cosa mi sarebbe avvenuto se un caso maligno mi avesse forzato a più intrinseci contatti, in altri termini a toccare una di loro od a subirne il tocco; né più angosciose serate ricordo di alcune estive passate colla mia famiglia nella corte appunto.


Sedevamo in semicerchio di fronte alla grande porta; sopra questa e contro il muro esterno della casa, una lampadina elettrica; celata nell’ombra del piatto, una labrena straordinariamente corpulenta, che ne sbucava non appena si approssimasse, attirata dalla luce, una farfalla notturna. O meglio, essa aspettava che la farfalla si fosse posata, e solo allora usciva ratto, la abboccava, la trangugiava. E che brividi, che sfinimenti, che orrore, costava a me quello spettacolo d’industriosità per altri forse edificante, quell’abile sfruttamento di circostanze favorevoli. ”Ma dunque cosa avverrebbe di me, mi ripetevo affascinato, se la sua schifosa pelle dovesse per un attimo sfiorare la mia? Supererei la prova, riuscirei a sopravvivere?” E mi pareva, ero sicuro, che sarei invece morto; e pregavo Dio che mi preservasse. Ma una tale terribile e decisiva esperienza non doveva essermi risparmiata.
Le labrene, ho detto, penetrano a volte nelle stanze d’abitazione: e fuggono, aggiungo, precipitosamente verso le finestre o i balconi al sopravvenire dei loro legittimi abitatori. Se peraltro questi ultimi serrino alla prima le imposte, esse, vedendosi sequestrate, impazzano su pei muri in cerca di una via d’uscita; ed è in relazione a una simile eventualità che nella mia propria stanza non mancava mai una lunga e flessibile canna, mediante la quale potevo arrivare le tremende intruse quasi dovunque si trovassero e ritoccarle e via via buttarle fuori (di spiaccicarle contro il muro non mi sarebbe bastato l’animo, ero certo che la vista delle loro sparse interiora mi avrebbe fatto basire).
Ora avvenne una notte che, rientrato per coricarmi ed avendo appena chiuso la finestra, io scorgessi come una folgore trascorrente lo sguancio della medesima; e che, sebbene colla coda dell’occhio, in questo balenamento ravvisassi una labrena lanciata in direzione del telaio. Il suo manifesto intento era di porsi in salvo per la finestra, che tuttavia (lo si è testé veduto) era ormai chiusa; essa allora, tornata celermente indietro, si dette a percorrere disordinatamente le pareti, sempre tenendosi sull’alto, e finì col rifugiarsi contro la volta, donde neppure la mia lunga canna poteva sgomentarla (a meno di non manovrare la canna stessa a perpendicolo, ma ciò comportava il grave rischio che la labrena mi cadesse addosso). A conti fatti, mi competeva aspettare che la mia avversaria si movesse, dirò cosi, ultroneamente; il che accadde di lì a poco, quando essa, dopo matura riflessione e sentendosi forse poco sicura in quella stravolta positura, riprese peritosamente la via del basso. Giunse anzi tanto vicino a terra, che io credetti venuto il momento d’agire: evitando di passarle sotto, spalancai in primo luogo la finestra; indi mi accinsi a sospingere colla canna lei stessa verso l'aperto.
Il destino degli uomini è spesso affidato a un imprevedibile incidente, a un ostacolo da nulla... La punta arguta e flessibile della canna si insinuò per qualche millimetro sotto il corpicciuolo della labrena, ma, posto che i muri non sono sempre perfettamente lisci, s'impuntò ed inflesse un tanto su un tubercolo o bitorzolo dell’intonaco. Il risultato di ciò fu un successivo scatto della punta: che travolse la labrena e... e la proiettò con una certa violenza contro... Contro il mio viso. (...)

Tommaso Landolfi, Le labrene (inizio del racconto), dal volume "Le labrene", 1974.


A differenza di come farà Italo Calvino vent'anni dopo, Landolfi usa i gechi in modo molto più banale, cioè in chiave horror, come diremmo oggi (a Landolfi la parola non sarebbe piaciuta). Il modello è con ogni evidenza Edgar Allan Poe, il racconto continua senza bisogno di gechi o di labrene, una storia di morte apparente o il racconto di un pazzo, vedrà poi il lettore quale delle due versioni è più convincente (come nel "Gabinetto del dottor Caligari": dov'è la realtà?).
Devo dire di aver sempre trovato gli horror e i gialli piuttosto banali e scontati, cioè noiosi. Gechi e lucertole sono del tutto innocui, almeno alle nostre latitudini; so che nei paesi del Mediterraneo i gechi sono spesso tenuti di proposito nelle case, perché mangiano mosche e zanzare. Secondo me Landolfi ha scritto di meglio, a lui sono molto affezionato e ci tengo a dirlo. Comunque si voglia giudicare questo racconto, si tratta comunque di un grande scrittore - ma sui gechi qualche spiegazione o rettifica bisognava pur darla. (La mia gatta se le mangerebbe senz'altro, le povere labrene...)

La foto in alto è di Richard Kern, del 1987; il gioco del geco è australiano, datato 1946.

2 commenti:

  1. Descrive benissimo il ribrezzo provocato da certi animaletti. Ho provato,cose simili per topi e scarafaggi. Ora va meglio. Landolfi ❤️

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  2. io ho dei problemi ma nel senso che insetti, ragni e lucertole si rompono facilmente. E soprattutto bisogna stare attenti, ci sono specie velenose (soprattutto al Sud, nel Mediterraneo) e anche se non sono velenose magari mordono o pungono o spruzzano odori pesanti. Prima di prendere in mano un topo ci penserei un bel po', magari è passato dentro una fogna... le lucertole invece sono più pulite, ma poi perdono la coda. Essere colti di sorpresa invece è sempre brutto!
    (le mie perplessità sono per il seguito del racconto, un po' troppo remake di Poe)

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