Da Middle England di Jonathan Coe (
qui )
Qui il brano musicale di Shirley Collins
Faceva ancora abbastanza caldo per lasciare aperta la
finestra del soggiorno. A Benjamin piaceva, quando il tempo lo permetteva,
restare seduto da solo al buio, ad ascoltare i rumori della notte, il richiamo
di un gufo, l’ululato di una volpe predatrice e soprattutto il mormorio immutabile
e senza tempo del fiume Severn (che, in quel punto, da straniero, aveva appena
messo piede nel Paese, visto che aveva oltrepassato il confine con il Galles
solo da pochi chilometri). Ma quella sera era diverso: c’era Doug a fargli
compagnia, anche se non sembravano particolarmente desiderosi di fare
conversazione. Erano amici da quasi quarant’anni e c’era ben poco che non
sapessero l’uno dell’altro. Per Benjamin sarebbe stato sufficiente se fossero
restati lì, seduti ai lati opposti del camino con un bicchiere di Laphroaig in
mano, lasciando che le emozioni suscitate dalla giornata si placassero per
essere sostituite da un clima di tranquillità.
Alla fine, invece, fu proprio
lui a rompere il silenzio.
«Sei contento del tuo articolo?», chiese.
La risposta
di Doug fu sorprendentemente umile.
«Dovrebbe funzionare», disse. «Anche se per
la verità mi sento un imbroglione di questi tempi».
Di fronte allo sguardo
sorpreso di Benjamin, Doug si raddrizzò e cominciò a spiegare. «Sono convinto
che siamo arrivati a una svolta. Il Labour è finito, lo penso sul serio. C’è
una gran rabbia in giro e nessuno sa che cosa fare. Me ne sono accorto in
questi ultimi giorni di campagna elettorale. La gente vede gli uomini della
City, persone che hanno mandato a gambe all’aria l’economia due anni fa senza
patirne le conseguenze; nessuno di loro è andato in galera e tutti continuano a
riscuotere i loro bonus, mentre a noi altri si chiede invece di stringere la
cinghia. Gli stipendi sono bloccati, non esistono più lavori sicuri o piani
pensionistici, la gente non può più permettersi di portare la famiglia in
vacanza o di far riparare la macchina. Quelli che, fino a qualche anno fa,
avevano l’impressione di essere benestanti, ora si sentono in miseria».
Doug si stava animando. Benjamin sapeva quanto gli piacesse
parlare, come, persino ora, dopo venticinque anni di giornalismo militante,
niente lo eccitasse tanto quanto le schermaglie della politica nazionale. Lui
non condivideva l’entusiasmo dell’amico, ma era contento di dargli corda.
«Pensavo che ad essere detestati fossero i Tories», disse in
tono compunto. «Per via degli scandali legati alle spese. Le ipoteche sulle
seconde case e tutto il resto...».
«La gente non salva nessuno, e forse è questa la cosa
peggiore. C’è tanto di quel cinismo in giro. “Fanno tutti schifo” è il
ritornello. Ecco perché i candidati erano praticamente alla pari... fino a
oggi».
«Pensi che farà tutta questa differenza? Si è trattato solo
di un errore. Di una momentanea perdita di controllo».
«Basta e avanza di questi tempi. A dimostrazione di quanto
sia esplosiva la situazione».
«Dev’essere un buon momento per uno come te. C’è un sacco di
materiale su cui scrivere».
«Sì, ma io sono lontano da tutto questo. Il risentimento, il
peso delle difficoltà... sono sentimenti che non provo. Sono solo uno
spettatore. Vivo in una sorta di nido protettivo. Abito a Chelsea in una casa
che vale milioni. La famiglia di mia moglie possiede metà delle contee che
stanno attorno a Londra. Parlo senza sapere bene quello di cui sto parlando, il
che è evidente in quello che scrivo. D’altronde non sarebbe possibile il
contrario».
(...)
Rimasto solo, si versò un altro drink e andò a sedersi sulla
panca di legno che correva attorno al vano della finestra. Spalancò i vetri e
si lasciò avvolgere dall’aria fresca. La ruota del mulino era fuori uso da
molti decenni e ora il fiume, senza più ostacoli e impedimenti, scorreva libero
e tranquillo, in un flusso continuo, increspato e vivace. Si era alzata la luna
e Benjamin vedeva i pipistrelli che sfrecciavano avanti e indietro,
stagliandosi contro lo sfondo luminoso del cielo grigio. All’improvviso si
sentì invadere da una profonda tristezza. Le riflessioni a cui aveva cercato di
resistere per tutto il giorno, sulla morte di sua madre, l’agonia delle ultime
settimane, non potevano più essere represse.
Gli tornò in mente un brano musicale e capì che doveva
riascoltarlo. Si trattava di una canzone. Si avvicinò allo scaffale su cui era
stato sistemato il suo iPod, lo tolse dal supporto in cui era inserito e
cominciò a scorrere la lista degli artisti. A quanto pareva, l’ultimo che aveva
ascoltato erano gli Xtc. Superò Wilson Pickett, Vaughan Williams, i Van der
Graaf Generator, Stravinsky, Steve Swallow, gli Steely Dan, gli Stackridge, e i
Soft Machine prima di arrivare al nome che stava cercando, quello di Shirley
Collins, la cantante folk del Sussex di cui aveva iniziato a collezionare i
dischi negli anni Ottanta. Gli piaceva tutta la sua musica, ma c’era una
canzone in particolare che, durante le ultime settimane, aveva assunto un
significato speciale. La scelse, cliccò Play, e nel momento in cui raggiunse la
finestra per tornare a sedersi e guardare il fiume illuminato dalla luna, la
voce forte, austera, piena di risonanze, che si levava senza accompagnamento
dall’altoparlante, riempì la stanza con una delle più inquietanti e
malinconiche melodie mai scritte.
Adieu to old England,
adieu
And adieu to some hundreds of pounds
If the world had been ended when
I
had been young
My sorrows I’d never have known.
Benjamin chiuse gli occhi e buttò giù un altro sorso. Che
giornata era stata quella, piena di ricordi, incontri, conversazioni difficili.
Emily, la sua ex moglie, era venuta al funerale con i due bambini e il marito,
Andrew. Suo fratello Paul, con cui non parlava da tempo, era arrivato dal
Giappone. Lui non era nemmeno riuscito a incrociare il suo sguardo, né durante
la funzione né al ricevimento successivo. Aveva incontrato zii e zie, amici
dimenticati e lontani cugini. Era venuto Philip Chase, l’amico fedele con cui
aveva frequentato la King William’s School, era comparso Doug, del tutto
inatteso, e Cicely gli aveva persino mandato un messaggio dall’Australia, più
di quanto lui si sarebbe aspettato. E soprattutto c’era stata Lois. Lois, la
sorella su cui poteva contare, che aveva per lui un attaccamento assoluto, i
cui occhi si velavano di lacrime quando era certa che nessuno la stesse
guardando. I ventotto anni di matrimonio che aveva alle spalle restavano per
lui un mistero, anche perché suo marito, che le era rimasto devotamente al
fianco per tutto il giorno, poteva ritenersi fortunato se veniva premiato con
un’occhiata di tanto in tanto.
Once I could drink of the best
The very best brandy and rum
Now I am glad of a cup of spring water
That flows from town to town.
La melodia lo riportò indietro, alle due ultime settimane
di vita di sua madre, quando, senza più riuscire a parlare, se ne stava seduta
nel letto e lui le restava accanto per ore, prima impegnandosi in un monologo
faticoso, poi, quando si rendeva conto che il compito era superiore alle sue
forze, decidendo di creare una playlist musicale per riempire il silenzio. E
così aveva fatto la playlist, aveva cliccato su avvio e per il resto del tempo,
quello che le restava da vivere, le aveva parlato solo di rado ma era rimasto
seduto sul bordo del letto tenendole la mano mentre ascoltavano Ravel e Vaughan
Williams, Finzi e Back, la musica più tranquillizzante a cui potesse pensare,
con l’obiettivo che sua madre si spegnesse su una nota di bellezza. La playlist
conteneva più di cinquecento canzoni e questa era arrivata tardi, nell’ultimo
giorno di vita...
Once I could eat of good bread
Good bread that was made of
good wheat
Now I am glad with a hard mouldy crust
And glad that I’ve got it to
eat.
Anche Lois e suo padre erano in casa, ma a loro mancava la
sua tenacia, entravano e uscivano dalla stanza da letto, cercavano di tenersi
occupati in ogni modo al piano di sotto, preparando il tè, cucinando il pranzo.
Benjamin, invece, non aveva mai avuto alcun problema con l’inattività, a lui
andava benissimo restare lì seduto, così come andava bene a sua madre. A
entrambi bastava guardare il cielo che quel giorno, se lo ricordava bene, era
grigio scuro, plumbeo, basso, opprimente, forse in sintonia con quell’orribile
aprile o forse, pensava, ridotto così dalla nube di ceneri vulcaniche
proveniente dall’Islanda che riempiva le pagine dei giornali e aveva creato lo
scompiglio nei voli aerei in tutto il continente. Era stato a metà mattina,
mentre contemplava quel cielo e la sua sovrannaturale oscurità, che la canzone
di Shirley Collins, scelta a caso dall’algoritmo dell’iPod, aveva preso a
raccontare la sua storia dolente di antiche sventure...
Once I could lie on a good bed
A good bed that was made of soft down
Now I am glad of a clot of clean straw
To keep myself from the cold ground.
Ascoltando le parole, Benjamin pensò che la canzone doveva risalire al diciottesimo secolo o ai primi anni del diciannovesimo: il canto dava voce all'infelicità di un prigioniero che attendeva di essere trasportato altrove, ma ciò che gli si era presentato alla mente non aveva niente a che fare con una cella dalle mura cadenti o con un materasso infestato dai topi. (...) Sì, era possibile (...) che le parole si riferissero a una perdita di privilegi che riecheggiava nei secoli...
Traduzione di Mariagiulia Castagnone
Le immagini sono fotogrammi del film "The Party " di Sally Potter