Trascorsero la notte al monastero, in
una cella che era stata riservata allo zio, come a persona lì ben
nota da tempo. Era la vigilia dell'Intercessione della Vergine.
L’indomani sarebbero dovuti partire per un lungo viaggio verso il
sud, fino a un capoluogo di provincia del Volga, dove padre Nikolaj
era impiegato presso una casa editrice, che pubblicava il giornale
progressista della zona. Avevano già acquistato i biglietti per il
treno e riunito nella cella il loro bagaglio. Nelle vicinanze, dalla stazione il vento portava i fischi
lamentosi delle locomotive che facevano manovra lontano.
Verso sera vi fu un brusco sbalzo di
temperatura. Due finestre a livello del suolo davano su uno squallido
angolo d'orto, circondato da gialli arbusti d'acacia, sulle
pozzanghere gelate della strada e su quel lembo di cimitero dove la
mattina avevano seppellito Marija Nikolaevna. Tranne alcune aiuole,
marezzate di cavoli illividiti dal freddo, l'orto era spoglio. Quando
irrompeva il vento, i rami nudi delle acacie si dimenavano come
ossessi, piegandosi fin sulla strada.
Un colpo alla finestra destò Jurij
durante la notte. L'oscura cella era magicamente illuminata da una
guizzante luce bianca. Jura corse in camicia alla finestra e appoggiò
il viso al vetro gelido. Fuori non c'era più la strada, né il
cimitero, né l'orto: solo la tormenta che infuriava, l'aria
fumigante di neve. Quasi che la tormenta si fosse accorta del ragazzo
e, consapevole del proprio terrificante potere, godesse
dell’impressione che gl'incuteva. E fischiava e ululava, tutta
affannata a richiamare la sua attenzione. Dal cielo, sdipanandosi
giro su giro da matasse senza fine, un bianco ordito cadeva sulla
terra avvolgendola in un sudario. Non era rimasta che la tormenta al
mondo, sola e incontrastata. Il primo impulso di Jura,
scendendo dal davanzale, fu di vestirsi e di correre in strada:
occorreva fare qualcosa. Ora lo angosciava l'idea che la neve
seppellisse i cavoli del monastero prima che non si potessero più
raccogliere; ora il pensiero della madre, là, in quel campo,
ricoperta dalla neve, senza più forze per resisterle, mentre
sprofondava sotto terra, sempre più giù,ancora più lontano da lui.
Ruppe nuovamente in lacrime. Lo zio si sveglio, gli parlò di Cristo
e lo consolò, poi sbadigliando si accostò alla finestra e rimase a
guardar fuori pensieroso. Cominciarono a vestirsi. Era quasi l'alba.
Boris Pasternak, Il dottor Zivago, pag10 edizione Feltrinelli 1998, traduzione di Pietro Zveteremich, Maria Olsoufieva, Mario Socrate
(dipinto di Konstantin Yuon)