lunedì 2 aprile 2018

Ornitorinco ( II )

PER DARE IL NOME ALLA "COSA" ECO RIPARTE DALL'ORNITORINCO
Giulio Giorello, Corriere della sera 23.10.1997

Un naturalista nel 1798 invia dall’Australia al British Museum la pelle impagliata di un animaletto che i coloni chiamano «talpa d’acqua». E' grande come una talpa, ha occhi piccoli come una talpa, ma non è una talpa. Si è mai vista una talpa con il becco? Gli esperti britannici lo battezzano Platypus anatinus, a causa di quel suo becco da brutto anatroccolo che fa pensare allo scherzo di qualche burlone che lo abbia «innestato» sulla testa di un quadrupede.
Nel 1800 il tedesco Blumenbach lo chiama Ornythorynchus paradoxus. Oggi lo conosciamo come ornitorinco; ma che ne è del «paradosso»? Lo sconcertato Blumenbach con quella qualificazione alludeva all’ingrato compito di “categorizzare qualcosa come incategorizzabile». Così Umberto Eco, in questo Kant e l'ornitorinco (Bompiani). Il riferimento al filosofo di Koenigsberg, ossessionato dal problema di ricondurre «il caso particolare» sotto una qualche «regola generale» (sì, proprio lui - quello che anche il più distratto liceale ricorda come il filosofo della «tavola delle categorie», o magari dell’«imperativo categorico»), é a sua volta paradossale. Quando i primi esemplari dell’animale arrivano in Europa il vecchio Immanuel, malato nel fisico e inacidito nel carattere, non si accorge certo dell'ornitorinco: eppure, esso avrebbe costituito una bella sfida per chi riteneva che è l'uomo a imporre le proprie leggi alla natura. Per altro, si è occupato dell'ornitorinco un altro Grande Vecchio, quel Jorge Luis Borges che ha ispirato Eco per il "cattivo" del Nome della rosa. «Un animale orribile, fatto con pezzi di altri animali», lo definiva l'autore di Finzioni. Invece, Eco ci tiene a «insinuare che essendo l'apparizione dell'ornitorinco molto remota nello sviluppo delle specie, più che essere fatto con pezzi di altri animali, siano gli altri animali a essere stati fatti con pezzi suoi».

Via via emergono caratteristiche che dovrebbero far classificare quello «scherzo della natura» come oviparo, eppure la femmina ha le mammelle (dunque sarebbe un mammifero); però non ha i capezzoli, eppure allatta, poiché presenta sulla superficie ghiandole come dei pori, da cui secerne un liquido che alcuni esperti riconoscono come latte. Intanto altri esperti cercano le «piccolissime» (e introvabili) uova. Solo nel 1884, W. H. Caldallessa telegrafa all’Università di Sydney che l'ornitorinco è monotremes oviparous, ovum meroblastic. La seconda qualificazione indica che la modalità di scissione dell'embrione è quella tipica di uccelli e rettili; la prima ribadisce che si tratta di un oviparo, ma resta il fatto che l'ornitorinco forma un genere della famiglia dei mammiferi, nell'ordine dei «monotremi» (cioè «con un solo orifizio»). Un ordine in cui sta quasi da solo, perché l'unico altro genere che vi viene associato è l'echidna, che si trova nelle stesse regioni.
Che insegnamento avrebbe potuto trarre un «kantiano» dalla vicenda? Innanzitutto, dice Eco, «il primo tentativo di capire quello che si vede consiste nell’inquadrare l'esperienza in un sistema categoriale precedente», salvo poi riadattare questo alle nuove osservazioni. Ma ogni ipotesi su come dovrebbe essere il quadro categoriale corretto indirizza l'osservazione - chi vuole l’ornitorinco tra i mammiferi trascura «la caccia all'uovo»; chi l'arruola tra gli ovipari trova ridicolo cercare mammelle e latte. Insomma (come amo dire ai miei studenti), ecco un tipico caso in cui cade il dogma «dell'immacolata osservazione» intrisa, invece, di teorie, classificazioni più o meno ingenue, pregiudizi. Come aveva ammesso Galvani (durante la disputa con Volta circa «l'elettricità animale»), nell'osservazione ognuno «si sforza» di cogliere proprio quel che vorrebbe trovare. Prima di pensare alla malafede, dobbiamo riconoscere che senza tale sforzo non sapremmo cosa cercare e come descrivere ciò che troviamo. Per fortuna non siamo soli, diversamente da Robinson sull’isola deserta (almeno all’inizio). Aveva ragione Popper a ricordare che lo scienziato ha sempre bisogno di un Venerdì che lo contesti e gli opponga modi diversi di vedere gli ornitorinchi (e il mondo). E' questa, per Eco, e la seconda lezione: il sapere è frutto di contrattazione e non solo nel caso di animali esotici come l’ornitorinco, ma anche di bestie più comuni (come il gatto) e di strutture ben più complesse (come il sistema solare). Diceva lo storico dell’arte Ernst Gombrich: «Ci è lecito vedere una montagna nel cumulo fatto da una talpa o chiedere al nostro giardiniere di metterne una in giardino», Eppure, sembra ribattergli Eco, sarebbe difficile concepire di «scalare» il cumulo fatto dalla talpa, almeno nel senso in cui scaliamo il Monte Bianco. E pur ammettendo la natura elusiva dell'ornitorinco, nessuno pretende che esso «voli come un’aquila», anche se non è mancato chi lo classificava tra gli uccelli. «I negoziati si aggirano sempre intorno a resistenze». E' all’insorgere di queste che si deve per Eco la decisione, anch’essa «contrattuale», di riconoscere che «certi tratti non erano negabili». Dunque «bisogna arrendersi all’evidenza che ci sia una componente iconica della percezione.»
Immaginiamo che da una collina assistano allo spettacolo dell'alba Tolomeo, che credeva a un Sole mobile; Keplero, che immaginava il Sole fisso intorno a cui orbitavano la Terra e gli altri pianeti; Newton, che la pensava abbastanza come Keplero (ma lo correggeva notando che Sole e Terra orbitano entrambi intorno al baricentro del sistema, che per altro si trova nel Sole stesso), e un primitivo che forse «non ha nemmeno un nome per il Sole». Vedono tutti la stessa cosa? Sì e no. No, per ognuno il Sole è una cosa diversa: è caduto il dogma dell'immacolata osservazione. Sì, perché vedono tutti un globo luminoso stagliarsi nel cielo: la «componente iconica» fa sì che nel riferirsi al Sole i nostri eroi riescano a capirsi, anche se dissentono sul significato delle credenze astronomiche. Riportare il caso particolare alla «giusta» regola universale - come doveva accorgersi Kant a proprie spese - è tutt’altro che facile. Peirce aveva scorto qui non solo il punto debole del kantismo, ma la principale ragione per quell’atteggiamento «fallibilista», che teorizza la possibilità di rimpiazzare le interpretazioni con altre nuove e più aperte. Ma perché allora non seguire Nietzsche: avere il coraggio di percepire «ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante»?
Contro questa «rivoluzione poetica permanente» vi sono, dice Eco, proprio le «resistenze» di cui si diceva prima. Questo non significa che solo ai poeti (o ai folli) spetti il compito della «continua reinvenzione del linguaggio», ovvero «riprendere a ogni istante il lavoro dell’interrogazione e della ricostruzione del mondo». Lo fanno, almeno qualche volta, anche gli scienziati e «la gente comune». E se per «pensare» intendiamo davvero che si fa tutto questo, «pensano» non solo filosofi o poeti ma anche matematici e fisici, o magari artigiani e casalinghe. Nell'incessante processo di negoziazione finiamo talvolta col rimodellare il mondo in modo che esso ci appare «incommensurabile» rispetto a quello che era prima. Allora, è un po’ come avviene per le città. Vicino a dove insegno, la Statale di Milano, l’acqua del Naviglio un tempo faceva una rientranza. Mio padre si ricordava ancora della piccola darsena; oggi è rimasto il nome di una via (via Laghetto) e l’acqua è scomparsa. La Milano di oggi sembra «incommensurabile» con quella dei primissimi anni del secolo; proprio come l'attuale concezione degli atomi è «incommensurabile» con quel a degli antichi, per cui atomo voleva dire indivisibile.
Sospesi tra resistenza della «natura» e pulsioni a cambiare «il nostro giardino» con la liberta che invocava Gombrich, magari potremmo essere tentati di cercare quella «lingua perfetta» che aderisca così bene alle cose da dissipare ogni ambiguità lasciandoci intuire le intenzioni della Mente Divina. Ma se tale lingua esistesse, essa - ammonisce Eco - «escluderebbe quel momento contrattuale che rende efficaci le nostre lingue». Sarebbe come vivere in una citta «perfetta», che esclude qualsiasi ristrutturazione. Ma sarebbe ancora vita?



(la prima illustrazione viene da un libro della London Zoological Society, 1835; le altre due immagini erano senza fonte, e me ne dispiace molto)

4 commenti:

  1. Ipotesi: per Kant l'ornitorinco sarebbe un fenomeno mistico. (Magari lo è davvero)

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    1. su Kant non posso esprimere un'opinione... ho solo il diploma di perito chimico, per di più con un punteggio medio-basso. Però questa pagina mi piace, fa pensare :-)

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  2. È ufficiale: mi sono riappassionata all'ornitorinco. Che si, forse è un fenomeno mistico

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  3. in effetti è bellino :-) peccato che non si possano tenere in casa (serve un corso d'acqua!)

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