mercoledì 31 gennaio 2018

Oricalco


Il professore fece un segno e i Tuareg bianchi si avvicinarono. Un intenso silenzio regnava nella misteriosa sala, turbato solo dal gorgoglio fresco della fontana. I tre negri si erano messi ad aprire l'involucro deposto vicino al sarcofago dipinto. Curvi sotto il peso di un indicibile orrore, Morhange e io guardavamo. Ben presto una forma rigida, una forma umana ci apparve. Un lampo rosso brillò su di lei. Avevamo davanti a noi, stesa al suolo, avvolta in un velo di mussola bianca, una statua di bronzo pallido, una statua simile a quelle che nelle nicchie intorno sembravano fissare su di noi uno sguardo impenetrabile. "Sir Archibald Russel" mormorò lentamente il professore. Morhange, muto, si avvicinò, ebbe la forza di sollevare il velo e fissò a lungo la cupa statua di bronzo
“Una mummia, una mummia” disse infine “ma vi sbagliate, non è una mummia."
“A voler parlare con proprietà” replicò Le Mesge, non si tratta di una mummia; tuttavia, avete davanti la spoglia mortale di Sir Archibald Russel. Infatti, caro signore, devo dirvi che i processi di imbalsamazione usati da Antinea differiscono da quelli dell’antico Egitto. Qui niente natron, niente bende, niente aromi. Lo Hoggar ha ottenuto subito risultati che la scienza europea ha raggiunto solo dopo lunghi tentativi. Quando sono arrivato qui, quale non è stato il mio stupore nel constatare che vi si praticava un metodo di imbalsamazione che ritenevo conosciuto solo nel mondo civile.”
Con l’indice piegato, il professore batté un piccolo colpo sulla fronte opaca di Sir Archibald Russel: ne uscì un suono metallico.
"E' bronzo, mormorai, non è una fronte umana, è bronzo."
Le Mesge alzò le spalle. "E' una fronte umana” affermò tagliente “e non é bronzo. Il bronzo è più scuro, signore. Questo é l‘eccezionale metallo misterioso di cui parla Platone nel Crizia, che sta fra l'oro e l'argento; è il metallo specifico dell’Atlantide: è l'oricalco."
Chinandomi maggiormente, constatai che era lo stesso metallo che ricopriva le pareti della biblioteca.
"L'oricalco, continuò Le Mesge. - Non avete l’aria di capire molto bene come un corpo umano possa sembrare di questo metallo. Su, capitano Morhange, voi, a cui facevo credito di un certo sapere, non avete mai sentito parlare del procedimento del dottor Variot per conservare i corpi in modo diverso dall'imbalsamazione? Non avete mai letto il libro di quel medico? (Variot, L'anthropologie galvanique, Parigi 1890 - nota di M.Leroux). Vi espone il metodo detto della galvanoplastica. I tessuti cutanei sono spalmati da un leggero strato di sale d’argento per diventare conduttori di elettricità. Il corpo viene quindi immerso in un bagno di solfato di rame e la polarizzazione e compie il suo lavoro. E' lo stesso procedimento con il quale è stato metallizzato il corpo di questo stimato maggiore inglese, ma il solfato di rame è stato sostituito da un bagno di solfato di oricalco, materiale ben più raro. Così invece dl una statua di un povero metallo come il rame, avete davanti a voi un corpo di un metallo più prezioso dell’oro e dell’argento, in una parola una statua degna della nipote di Nettuno.”
Le Mesge fece di nuovo un segno, gli schiavi presero il corpo e in pochi minuti lo fecero scivolare nel suo sarcofago di legno dipinto. Questo fu poi collocato diritto nella sua nicchia, vicino a quella in cui una custodia del tutto uguale portava l'etichetta n. 52. Poi, compiuta l’opera, senza dire una parola, i tre Tuareg si ritirarono. (...)

(Pierre Benoit, L'Atlantide, pagine 124-125 ed. Demetra 1995, traduzione di Gabriella Pesca Collina)



Il misterioso oricalco, in fin dei conti, potrebbe anche essere plastica, o fibra di carbonio, o titanio, alluminio, o qualcun altro ancora degli elementi presenti sulla Terra e oggi utilizzati dalla nostra tecnologia, ma ignoti ai tempi di Platone e poco conosciuti anche ai tempi in cui Pierre Benoit scriveva L'Atlantide. In fin dei conti, di Atlantide si immaginano tante cose, è ben possibile che conoscessero anche questi materiali; se padroneggiavano la galvanotecnica potevano isolare l'alluminio... Quanto all'oricalco, in tempi moderni è il nome di una lega metallica particolare, simile all'ottone, con il quale furono costruite anche trombe e strumenti a fiato; nell'Otello di Verdi si parla di "titanici oricalchi" per indicare tuoni e rumori della tempesta (il libretto è di Arrigo Boito).
Per saperne di più su leghe metalliche e bronzo, posso però rimandare anche qui, su questo stesso blog, in "La verità su Re Mida".

(nelle immagini, questa precisa scena dall'Atlantide di Pierre Benoit ripresa in "Totò sceicco" di Mario Mattoli)

domenica 28 gennaio 2018

I talk to the wind

Il gruppo inglese dei King Crimson si forma nel 1969. Il loro è un rock intellettuale, colto, con un’espressione non sempre aggressiva ma a tratti delicata, in particolare quando è dettata dai testi poetici di Peter Sinfield. In uno dei brani più rappresentativi della vena romantica del Re Cremisi c'è un interlocutore che non ascolta, perché - dice Sinfield - non può farlo, il vento.



giovedì 25 gennaio 2018

Una misteriosa processione



...più tardi, ha smesso di parlare e mi ha arrestato, ponendo il braccio sinistro davanti al mio petto come una barriera: con la mano destra indicava un leggero fremere dell'erba, a pochi passi dal nostro sentiero. Un serpente? no, su un tratto di terreno battuto è emersa una piccola processione: un porcospino avanzava cauto, con brevi arresti e riprese, e dietro di lui, o di lei, venivano cinque cuccioli, come minuscoli vagoni a rimorchio di una locomotiva giocattolo. Il primo stringeva in bocca la coda della guida, ognuno degli altri, allo stesso modo, stringeva il codino dell'antecedente. La guida si è fermata netta davanti a un grosso scarabeo, lo ha rivoltato sul dorso con la zampina e lo ha preso tra i denti: i piccoli hanno rotto l'allineamento e le si sono affollati intorno; poi la guida è arretrata dietro un cespuglio, trascinandosi dietro tutti i personaggi.

(Primo Levi, da "La chiave a stella", il racconto "Batter la lastra" pag.83 edizione Einaudi 1993)




martedì 23 gennaio 2018

La scarpa di gomma di Romain

" Avevo quasi nove anni quando per la prima volta m'innamorai. Fui ghermito interamente da una passione violenta e totale che mi avvelenò l'esistenza e rischiò di costarmi la vita.
Lei aveva otto anni e si chiamava Valentina. Potrei descriverla a lungo e fino a perdere la parola, e se avessi la voce non la smetterei di cantare la sua bellezza e la sua dolcezza. Era una brunetta con gli occhi chiari, mirabilmente ben fatta, vestita di bianco e con una palla in mano. 


domenica 21 gennaio 2018

Gip e Marsupione


I fumetti di Braccio di Ferro, quelli originali di Elze C. Segar, sono molto diversi dai cartoons che siamo abituati a vedere: prima di tutto non ci sono gli spinaci (arriveranno in seguito), e poi sono dei veri e propri racconti d'avventura, che ricordano magari il viaggio di Sindbad, pieni di creature fantastiche (sirene, streghe di mare...) piuttosto che di duelli a colpi di sganassoni. Una di queste creature fantastiche è il Gip (Jeep, nell'originale), forse un cucciolo ma non si sa di che specie, raccolto in uno dei tanti viaggi, che poi resterà con Braccio di Ferro diventando un suo fedele alleato. Ha poteri soprannaturali, e soprattutto dice sempre la verità. A vederlo così si direbbe il tentativo fallito di disegnare un gatto (si sa che disegnare i gatti non è facile), un gatto mal disegnato poi trasformato in qualche cosa d'altro. A dirla tutta, Segar non è mai stato un gran disegnatore; però alla fine piace, Braccio di Ferro è simpatico, così come Olivia, e anche al Gip ci si affeziona presto. Insomma, questo si chiama saper trarre vantaggio anche dai propri difetti.


venerdì 19 gennaio 2018

Nato in inverno


Michele Mari bambino


Nacqui hieme ineunte. Poi ragazzino, incominciai a trasferire particole di anima nei libri che leggevo, fino a dislocarvela compiutamente: in questo modo potevo circolare nel mondo come un insensibile golem senza patir troppi danni, e quando mi prendeva vaghezza di recuperare un po' della mia anima andavo a cercarmela là dove l'avevo nascosta, nei libri: soprattutto in quelli spaventosi e d'avventura: finché, presa l'abitudine di recuperarne troppa, di roba, per far prima a nasconderla ho cominciato a sbatterla in gran quantità dentro i libri che mi sono messo a scrivere io, appositamente. Ecco, fine della dinamica.







E' un passo tratto da Leggenda privata, un libro dichiaratamente autobiografico di Michele Mari, un autore a cui mi sono accostata solo di recente.  Penso sia difficile raccontare di sé stessi evitando il rischio di banalizzare e ridurre il proprio vissuto; ancora più complicato è non tradire la propria intimità nel momento in cui la si rende oggetto di uno scritto e le si dà una forma.


Michele Mari in treno con la madre

mercoledì 17 gennaio 2018

La luce


In tante maniere si può parlare della luce. Squadernandole, alla fine si rimane convinti che ogni parola è caduca e la stessa percezione della luminosità, così chiara, la più chiara possibile, si appanna. Questo è lo schema di una completa meditazione sulla luce, che incomincia con un entusiasmo esultante, quando ci si accorge che l’intera concezione del mondo ne discende. Così ne scrivevo in un vecchio libro: « Vivere è assorbire luce. Si guardino le verdure negli orti. Prima di verdeggiare erano celate, virtuali, nel seme. E che cosa rende seme un duro e ruvido granello? Che cosa rende seme il seme? Il bisogno di luce, il quale, per poco che possa, esplode fuori da quella scorza.
Il seme è un bisogno di luce, la verdura è quel bisogno che si appaga. Mangiando le verdure, cuocendole e distillandole nello stomaco, l'animale ne estrae un’essenza che assimila a se stesso, sicché, al colmo dell’interna cottura e distillazione, esse diventano parte dell’animale che vede la luce, diventano visione di luce. La vita sulla terra è luce che ritorna luce. Come potrebbe, la luce che illumina il mondo, non essere lume a se stessa come è lume a noi? E noi, quando si giunga ad abbracciare l’intero ciclo della luce, quando si sia cioè illuminati, siamo il luogo dove la luce torna a se stessa e sa di tornare a se stessa. Osservando da illuminati il pane che si mangia, vi si riconosce il sole che l’ha estratto dal grano, e se siamo ciò che mangiamo, siamo luce che vuol tornare se stessa, a se stessa. E' questo il segreto che muove la vita intera. L’uomo trova pace e senso soltanto nutrendo in sé questa conoscenza, mangiandola. E se altro va cercando, insegue sotto false specie questa visione. Annotò Leonardo: “Guarda il lume e considera la sua bellezza. Batti l’occhio e riguardalo: ciò che di lui tu vedi, prima non era, e ciò che di lui era, più non é. Chi è quel che lo rifà se ‘l fattore al continuo more?”. Ecco un buon avvio a maturare dentro di noi l'opportuno stupore dinanzi alla luce, che genera e spazio e tempo, la cui natura è imperscrutabile, come quella di Dio che sacrifica ininterrottamente Se stesso a Se stesso».
Eppure questa esultanza è soltanto una prima maniera di accostarsi alla luce. Osservava infatti Böhme che l’abisso delle tenebre è vasto quanto il dominio della luce: i due non sono distanti, ma compenetrati. Si noti che in quasi tutte le iniziazioni sacerdotali, dal Tibet al Dahomey, vige l'abitudine di rinchiudersi in un ambiente privo di luce: soltanto immergendosi nella tenebra si può sperare di raggiungere una conoscenza della più vera luce, distinta da quella che ci circonda durante il dì. Sempre si è adorato, contrapposto alla fonte maggiore della luce, il sole nero, ed esso era l’emblema della malinconia, che scavando in noi in maniera disperata e ossessiva apre la strada a conoscenze profonde. Si scopre che della tenebra è possibile stendere un panegirico non meno rapito di quello or ora citato della luce. Fulcanelli ce ne provvede uno dei più persuasivi e intensi. Soltanto nell'assenza totale di luce, egli scriveva, la fecondazione scatta, la germinazione scaturisce, la digestione si compie. Soltanto di notte si ergono ai piedi degli alberi i popoli di funghi, mentre la mente umana si annulla e rinnova. (...)


(Elemire Zolla, Lo stupore infantile, pagine 51-52, edizione Adelphi 1994)

(i dipinti sono di Henri Rousseau)

lunedì 15 gennaio 2018

Desert raven





qui per l'ascolto
fonte immagine ( qui )






sabato 13 gennaio 2018

Il cuculo di Theodor Fontane

Il 16 novembre scorso l'amica Elena Grammann ci segnalava questo brano:


Le foglie frusciavano, il sole scintillava attraverso i rami, e dal bosco si sentiva il verso del picchio e di tanto in tanto anche quello del cuculo. Ma solo lento e raro e quando Gordon cominciò a contare cantò soltanto un’unica volta.
“Il vostro cuculo dello Harz è sempre così pigro?”
“Oh no” [disse il ragazzino che conduceva gli asini] : dipende dalle volte. Volete che chieda io?”
“Ovvio”
“Quanti anni ancora?”
E ora il cuculo rispose e il suo canto pareva non voler finire.
Questo causò un piccolo malumore, poiché tutti siamo superstiziosi…”

(Theodor Fontane, Cécile)


In effetti Gordon, giovane e aitante ufficiale del genio, vivrà ancora un solo anno. Romanzo molto bello secondo me, di cui consiglio la lettura.
(grazie Elena!)

giovedì 11 gennaio 2018

Araucaria



Scesi dunque dalla mia mansarda giù per quelle scale faticose in terra straniera, scale perfettamente borghesi, ripulite, spazzolate, di una casa molto per bene dove abitano tre famiglie e sotto il cui tetto ho il mio rifugio. Non so come mai, ma io, lupo della steppa senza patria e solitario odiatore del mondo piccolo-borghese, abito sempre in vere case borghesi: è un mio vecchio sentimentalismo. Non abito palazzi né stamberghe proletarie, ma proprio quei nidi di piccoli borghesi sommamente ammodo, sommamente noiosi, tenuti alla perfezione, dove c'è un sentore di trementina e di sapone e dove si rimane costernati quando si sbatte per caso la porta o si entra con le scarpe sporche. Questa atmosfera mi è certamente cara fin da quando ero bambino e la nostalgia segreta di qualche cosa che sappia di patria, mi guida senza speranza, sempre per queste stupide vecchie vie. Proprio così, e mi piace anche il contrasto fra la mia vita solitaria, affannata, senz'amore e così sregolata e questo ambiente familiare e borghese. Mi piace respirare per le scale questo odore di pace, di ordine, di pulizia, di decenza, di vita domestica che ha sempre qualche cosa di commovente nonostante il mio odio per la vita borghese, e mi piace oltrepassare la soglia della mia stanza dove tutto ciò finisce, dove tra i mucchi di libri sono sparsi i mozziconi di sigaro e le bottiglie di vino, dove tutto è disordinato, trascurato, estraneo e dove ogni cosa, libri manoscritti pensieri, è segnata e imbevuta della miseria di questo solitario, della problematicità dell'esistenza umana, del desiderio di dare un nuovo significato alla vita ormai insensata.

Poi passai davanti all'araucaria. Al primo piano, infatti, di questa casa, la scala porta al pianerottolo di un'abitazione, certamente più pulita, più irreprensibile, più lucidata delle altre, poiché brilla di attenzioni sovrumane, è un luminoso tempietto dell'ordine. Sui parchetti, sopra i quali si ha riguardo di passare, ci sono due graziosi sgabelli e su ogni sgabello un gran vaso: nell'uno cresce un'azalea, nell'altro un'araucaria piuttosto vistosa, un alberello sano, ritto e perfettissimo, e fin l'ultimo ago sull'ultimo ramo luccica di freschezza e pulizia. Qualche volta, quando so di non essere osservato, faccio di quell'anticamera un tempio, mi siedo su un gradino un po' più in alto dell'araucaria e riposo a mani giunte guardando religiosamente quel piccolo giardino dell'ordine, la cui manutenzione commovente e la ridicola solitudine mi conquidono in qualche modo. Al di là di quel pianerottolo, all'ombra sacra, per così dire, dell'araucaria suppongo un'abitazione coi mobili di mogano lucido e una vita piena di buone maniere e di salute, dove ci si alza per tempo, si adempiono i propri doveri, si celebrano feste di famiglia moderatamente serene, si va in chiesa la domenica e ci si corica presto.

H.Hesse

H.Hesse, Il lupo della steppa, ed. Mondadori
Traduzione di Ervino Pocar




martedì 9 gennaio 2018

Baffi e vibrisse


Ora s’accorse di stare più comodo. In quella piccola stazione il loro compartimento s’era addirittura vuotato e non vi restavano che in quattro. V’era sempre ancora il forte giovinotto pallido, che aveva approfittato di conciarsi nel cantuccio più lontano dal signor Aghios e sdraiarvisi allungando le gambe. Di faccia a costui c’era un signore che s’era procurato un giornale in cui ficcava il naso in modo che il signor Aghios non poteva vederlo in faccia, Proprio di fronte al signor Aghios era rimasto anche il grosso signore dagli occhiali di tante diottrie. Mancava 1’unica signora che c'era stata. Anch’essa era scesa a popolare la piccola stazione. Senza quel piedino che s’era tenuto alto in quell'adunanza, i quattro uomini rimasti avevano perduto ogni contatto fra di loro. Erano divenuti dei veri stranieri scialbi e muti.
Il signor Aghios per un istante guardò il suo vis-à-vis. Scoperse poi che anche dietro di costui c'era una lastra che copriva una fotografia e nella quale egli scorgeva la propria testa, chiara come in uno specchio. Si analizzò accuratamente. Irrimediabilmente vecchio con quella fronte troppo alta ed i mustacchi non curati, un po’ troppo gonfi. I mustacchi erano la prerogativa degli animali che s’annidano nei buchi (cosi aveva detto quella canaglia di suo figlio); devono servire ad avvisarli quando il buco si restringe e arrestarli dal pericolo di strangolarsi.
"Ho io l’aspetto di bestia? " si domandò il signor Aghios esaminando le proprie fattezze. E lui e la sua immagine si guardarono sospettosi. Questi, sì, ch’erano rapporti semplici! Era l’unico caso in cui guardando una fisionomia si sa con piena certezza quello ch’essa esprima. Eppure quella fisionomia conservava il suo aspetto di bestia mustacchiata, avvilita allo scorgersi meno bella, mentre era vero che il signor Aghios si sentiva gonfiare il petto dalla superbia di aver scoperto in quel momento quale fosse l’unico rapporto intimo in tutta la grande vasta natura. Solamente dubitava! Anche quello mancava? E corrugò tutta la propria faccia: un gesto di disprezzo alla propria fisionomia che gli fu prontamente restituito.



(Italo Svevo, Corto viaggio sentimentale, pagine 37-38 edizione Dall'Oglio 1980)



domenica 7 gennaio 2018

L'uomo nell'Olocene

Domenica:


10.00
pioggia come ragnatele sopra il terreno.

10.40
pioggia come perle sul vetro.

11.30
pioggia come silenzio; non un uccello che cinguetti, in paese non un cane che abbai, i taciti rimbalzi in ogni pantano, le gocce in lenta scivolata lungo i fili.

11.50
niente pioggia.

13.00
pioggia che non si vede, solo la si sente sulla pelle quando si sporge la mano dalla finestra.

15.10
pioggia come sibilo nel fogliame del castagno.

15.20
pioggia come ragnatele.

16.00
niente pioggia, solo l'edera gocciola.

17.30. 
pioggia con vento che la fa schioccare contro i vetri delle finestre, fuori spruzzi sul tavolo di granito che è diventato nerastro, gli spruzzi come narcisi bianchi.

18.00
di nuovo il gorgoglio tutto intorno alla casa.

19.30
niente pioggia ma nebbia.

23.00
pioggia come scintillio alla luce della lampadina tascabile.

Perlomeno non nevica.

E' una pagina tratta da  L'uomo nell'Olocene di Max Frisch, un libro che ho letto qualche giorno fa e che mi ha sorpreso per più versi,  non solo per la modalità di narrazione. Frisch rinuncia all'impianto tradizionale , all'intreccio, a un sistema classico di personaggi e fa delle considerazioni e delle percezioni elementari del protagonista , un pensionato di uno sperduto villaggio del Canton Ticino, il centro dell'opera. Tutto è ridotto all'essenziale, quell'essenziale di solito invisibile, negato, dimenticato nella vita vissuta e nei romanzi, e  invece  imprescindibile e dominante nel tempo dell'uomo, nelle  vicende individuali. Attraverso dunque le cronache senza narrazione del signor Geiser e il suo inventario di cognizioni sulla Natura, sul  Tempo, sull''uomo, si riflette, come per la prima volta,  sulla condizione umana.


Max Frisch

Qui una fine e articolata recensione di Raffaele Santoro 


giovedì 4 gennaio 2018

Al lume della luna



Jessica, figlia del ricco Shylock,  fugge dalla casa paterna per sposare  Lorenzo. 
Nella I scena del V atto de "Il mercante di Venezia",  Shakespeare fa in modo che i due innamorati  evochino storie di celebri amanti che sotto una limpida  luna, proprio come loro, videro compiersi  il loro destino.

Lorenzo  - La luna splende di tutto il suo lume. In una notte come questa, quando il dolce vento baciava leggermente gli alberi ed essi non facevano il più piccolo rumore, in una notte come questa, Troilo, io credo, salì sulle mura di Troia ed esalò in sospiri la sua anima, volto verso le tende dei Greci, dove quella notte taceva Cressida.

Jessica - In una notte come questa, Tisbe sfiorò timidamente col piede la rugiada e vide, prima dello stesso leone, l'ombra di lui e fuggì atterrita.

Lorenzo - In una notte come questa Didone, con in mano un ramo di salcio, s'arrestò sul selvaggio lido, e faceva cenni al suo amore di tornare a Cartagine.

Jessica - In una notte come questa, Medea colse le erbe incantate che dovevano ringiovanire il vecchio Esone.

Lorenzo - In una notte come questa Jessica fuggì come una ladra dalla casa del ricco ebreo e, con un amante sprovveduto, corse da Venezia sino a Belmonte.

Jessica - In una notte come questa, il giovane Lorenzo le giurò di amarla immensamente e le rubò il cuore con molte proteste di verace amore, e nessuna di esse era sincera.

Lorenzo - In una notte come questa, la leggiadra Jessica, come una piccola bisbetica, calunniò il suo amante ed egli le perdonò.

Jessica - Io vi batterei nel ricordare notti famose, se nessuno ci disturbasse. Ma zitto! Odo il calpestio di qualcuno.

W. Shakespeare, Il mercante di Venezia - Atto V, scena I -

Al lume della luna a me non è mai successo niente di eclatante, solo ( ma è tanto ) il piacere sottile di osservarla.

lunedì 1 gennaio 2018

Camaleonte







Cambiando colore s'annulla il dolore;
pitturo lo spazio d'azzurro e di bianco,
di verde, di rosso, di nero brillante.
Pitturo e coloro, e intanto catturo
di mille colori quest'arcobaleno.
Cancello la noia, coloro i colori,
sviluppo i pensieri con tanti colori.
Son verde, son nero, son rosso amaranto;
son giovane e bello, son vecchio che canta,
son donna gentile, son madre amorosa.
Di mille colori lo spazio dipingo,
catturo i colori e via li ripongo:
ma senza far male, da parte li tengo,
li libero in seguito, li libero quando
la noia e il dolore più male mi fanno.
Con mille colori il mondo è più bello,
ma bello è anche il mondo, la sera,
sereno, tramonto, più rosso, ed il nero,
di notte, un bel bianco e nero;
il gatto che arriva vi racconta il resto.
- Mau mao maramao mao mau mao gnò,
così disse il gatto. (Tradurre non so)

(Giuliano Bovo / Emilio Gauna, da "Golem" anno 2001)
(i disegni sono di Giacinta )