mercoledì 5 aprile 2023

Con un agnello in braccio

 

 

Erano i tempi in cui la sera giravo per le vie intorno a Nybroplan con un agnello in braccio.
Me lo ricordo perfettamente. Era arrivata la primavera. L’aria era secca e come polverosa. La sera era fresca, ma conservava ancora il tiepido profumo del giorno: profumo di terra e delle foglie morte
dell’autunno scaldate dal sole. L’agnello belava spaurito mentre attraversavo la Sybillegatan.

Di giorno alloggiava con i viziatissimi cavalli del re alle Scuderie reali, in fondo alla Strandvägen, e capivamo bene che si sentisse fuori posto anche la sera, a teatro. Io di agnelli non me ne intendo, ma vecchio non lo era di certo.
Avrà avuto qualche settimana. Fare la metafora vivente in scena doveva essere una prova dura, tanto più che il dramma ,Curse of the Starving Class dell’americano Sam Shepard, era a tratti violento, stridente e difficile da digerire anche per un essere umano adulto. Si può sperare che la povera bestia stringesse i denti e pensasse ad altro. Quel che è sicuro, comunque, è che continuava inesorabilmente a crescere, più di quanto non ci si fosse aspettato.

E il problema era solo ed esclusivamente mio.
Una confusa miscela di ambizione e caso mi aveva procurato un lavoro al Kungliga Dramatiska Teatern, il Teatro Reale, dove da qualche anno facevo il trovarobe, cioè mi occupavo del materiale scenico, spesso piuttosto stravagante, dei vari spettacoli. Toccava quindi a me andare a prendere lo sventurato agnello, prima di ogni rappresentazione, alle Scuderie reali. Lo portavo in braccio. Dovevamo essere molto teneri da vedere così insieme, in quelle sere primaverili.
Quando si alzava il sipario l’agnello (poi pecora) doveva entrare e uscire sul palco a più riprese, starsene zitto e cercare di non insudiciare
le quinte, il tutto con la scrupolosa precisione che contraddistingue ogni cambio di scena. Nel buio più totale.
Prima del debutto, durante le prove, avevamo pensato a un agnello meccanico, una specie di ispido automa impagliato, con la testa mobile e dotata di un altoparlante che avrebbe emesso graziosi belati esattamente al momento giusto, grazie al semplice uso di un pulsante da parte del direttore di scena.
Quando però alla fine il regista vide il costoso robot, non ci mise più di quattro secondi a scartare la soluzione. Via quella roba. Se c’è scritto «agnello vivo» nelle didascalie di scena, vuol dire che ci vuole un agnello vivo, non un giocattolo. La faccenda era chiusa. L’agnello diventò affar mio. E così accadde che quella primavera cominciai a chiedermi cosa ci facessi lì, in realtà, e perché. Tanto per cominciare, ci si può domandare in generale cosa ci facesse un giovane entomologo in un teatro. In effetti è una questione imbarazzante che ritengo non sia ancora il momento di approfondire. E del resto è una storia vecchia. 
Supponiamo che volesse semplicemente far colpo sulle ragazze. Cosa che per gli entomologi non rientra nel pacchetto. Oppure diciamo che tutti quanti sentiamo il bisogno, di tanto in tanto, di lanciarci alla cieca in qualcosa per evitare di diventare una copia conforme alle aspettative del nostro ambiente, forse anche per trovare il coraggio di ricordare qualcuno di quei grandi pensieri arditi che spingono un bambino ad alzarsi in piena notte a scrivere con il batticuore una promessa segreta che riguarda la propria vita.
Sia come sia, era un lavoro appassionante. Pieno di interesse e fascino, per chi non è del mestiere. Niente può inghiottire di colpo un timore quanto un grande teatro in una città sconosciuta, niente dà più ebbrezza dei sogni che abitano quei muri. Certo c’erano un mucchio di cose dei trucchi del mestiere del drammaturgo o dei sottotesti dei copioni che non sono mai arrivato a capire. O le sfumature, le note a piè di pagina in caratteri microscopici. Ma non mi importava, almeno non all’inizio. Bergman era tornato da Monaco e tutto era una festa. Si dava uno Shakespeare con gran fracasso nella sala grande e noi che ci aggiravamo silenziosi sul ballatoio o tra le quinte riuscivamo a trasformare ogni fugace apparizione del maestro in aneddoti sui suoi capricci e sulla sua leggendaria magia, semplici storielle che facendo il giro dei caffè della città diventavano man mano più divertenti e più audaci e potevano facilmente suscitare interesse e invidia nei confronti di chi le raccontava.
Gogol entrava in scena come un incrociatore da guerra e Norén annientava ogni resistenza anche del pubblico più restio. Strindberg, Molière, Čechov. Il mio rapporto con tutto questo era probabilmente più libero rispetto agli altri giovani macchinisti, trovarobe, camerinisti, comparse e assistenti dai compiti più improbabili di cui il teatro brulica, più libero perché quasi tutti loro desideravano diventare attori famosi e stare sotto i riflettori, e il loro desiderio li faceva soffrire crudelmente per il successo degli altri e per l’aleatorio meccanismo dei provini. Il lavoro era raramente faticoso. Si seguiva una messa in scena dalle prime prove fino all’uscita dal cartellone. All’inizio si trattava di capire il regista e, soprattutto, lo scenografo, il che è già di per sé un’arte, poi bisognava provare i cambiamenti di scena insieme alla troupe e controllare gli accessori man mano che arrivavano dal magazzino e dai laboratori. La sera della prima, in genere, potevamo fare tutto a occhi chiusi. Ma il dramma in questione era particolare.
Non c’era solo l’agnello sempre meno gestibile come costante fonte di preoccupazione: era anche un «dramma da cucina». Intendo dire che si preparava del cibo in scena, problema che naturalmente si può risolvere in diversi modi piuttosto semplici, ma che certi registi e scenografi sono subito pronti a complicare. Ovvero: se si deve cucinare, si cucina. Punto e basta. Naturalmente il cognac e la birra possono essere succo di mela, ma il cibo deve essere vero. Nel caso specifico bisognava friggere del rognone. L’odore di rognone fritto, infatti, ci mette un attimo a riempire la sala di un teatro, e questo
veniva considerato un buon apporto per creare un senso di autenticità.
Quando le luci si spegnevano per i cambiamenti di scena, noi trovarobe invadevamo di corsa il palco, come pesciolini d’argento sul pavimento di un bagno, per sostituire l’arredo, sparecchiare, riapparecchiare e, in generale, portare dentro e fuori ogni genere di cose, nel presente caso – tra l’altro – una carriola, una porta sfondata e una quantità indefinibile di carciofi.    (...)



Era il 1985. Avevo ventisei anni.
Quanto alle mosche, anche quello senza dubbio era solo questione di tempo.



F. Sjöberg, L'arte di collezionare mosche    ed. Iperborea
traduzione di Fulvio Ferrari

 qui ( sirfidi )

 

4 commenti:

  1. Sai che ho letto questo libro? Devo essere stata una dei pochi...è talmente particolare! 😉
    Buona Pasqua, carissima! 🐣🐥

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  2. L'ho letto diversi anni fa e ne conservo un ricordo vago. Ho riproposto la citazione che pubblicai nel mio vecchio blog, visto che il cavallo di brunilde e' anche un archivio di passi letterari in cui vengono menzionati animali:
    🐞. 🐜🐌🦋🐙Grazie, Luisella e buona Pasqua! 🌼

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  3. Anch'io non lo conoscevo, ma prendo nota. Sempre interessante il tuo blog, passo per farti gli auguri di buona pasqua e pasquetta.
    Un salutone e alla prossima

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  4. Grazie! Ricambio gli auguri! Passa delle giornate serene🌼





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