La storia del cane Argo è tra le più
famose, ma è sempre bella da rileggere. Ulisse (Odisseo) non si è
ancora fatto riconoscere, ma il cane si ricorda sempre di lui dopo
tutto il tempo che è passato: vent'anni.
(Niels Pederson Mols, 1887)
Così essi tali parole fra loro
dicevano:
e un cane, sdraiato là, rizzò muso e
orecchie,
Argo, il cane del costante Odisseo, che
un giorno
lo nutrì di sua mano (ma non doveva
goderne), prima che per Ilio sacra
partisse; e in passato lo conducevano i
giovani
a caccia di capre selvatiche, di cervi,
di lepri;
ma ora giaceva là, trascurato, partito
il padrone,
sul molto letame di muli e buoi, che
davanti alle porte
ammucchiavano, perché poi lo
portassero
i servi a concimare il grande terreno
d’Odisseo;
là giaceva il cane Argo, pieno di
zecche.
E allora, come sentì vicino Odisseo,
mosse la coda, abbassò le due
orecchie,
ma non poté correre incontro al
padrone.
E il padrone, voltandosi, si terse una
lagrima,
facilmente sfuggendo a Eumeo; e subito
con parole chiedeva:
« Eumeo, che meraviglia quel cane lì
sul letame!
Bello di corpo, ma non posso capire
se fu anche rapido a correre con questa
bellezza,
oppure se fu soltanto come i cani da
mensa dei principi,
per splendidezza i padroni li allevano
».
E tu rispondendogli, Eumeo porcaio,
dicevi:
« Purtroppo è il cane d'un uomo morto
lontano.
Se per bellezza e vigore fosse rimasto
come partendo per Troia lo lasciava
Odisseo,
t'incanteresti a vederne la snellezza e
la forza.
Non sfuggiva, anche nel cupo di folta
boscaglia,
qualunque animale vedesse, era
bravissimo all’usta.
Ora è malconcio, sfinito: il suo
padrone è morto lontano
dalla patria e le ancelle, infingarde,
non se ne curano.
Perché i servi, quando i padroni non
li governano,
non hanno voglia di far le cose a
dovere;
metà del valore d’un uomo distrugge
il tonante
Zeus, allorché schiavo giorno lo
afferra ».
Così detto, entrò nella comoda casa,
diritto andò per la sala fra i nobili
pretendenti.
E Argo la Moira di nera morte afferrò
appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni.
Odissea, libro XVII, versi 290-328,
versione di Rosa Calzecchi Onesti, ed.Einaudi