martedì 29 agosto 2017

La memoria di Venezia


Venezia, la città che amo di più al mondo, è soprattutto un labirinto. Esattamente come la rappresentò, nel 1500, con le sue tavole incise nel legno di pero, Jacopo de' Barbari, nella sua sorprendente Veduta a volo d'uccello ( qui ). Una Venezia quasi spettrale, che fa venire le vertigini per la precisione dei suoi dettagli. Le calli e i ponti, che spesso non conducono da nessuna parte e ti fanno tornare al punto di partenza. Quando ci si perde per Venezia si riacquistano le immagini del proprio passato, attraverso percorsi attorcigliati.
C'è un dettaglio che Jacopo de' Barbari non poteva mettere a fuoco e che è frequente meta delle mie visite e utile appiglio dei miei ricordi. Nell'alto e vecchio muro che delimita la Corte Centani, sulla Fondamenta Venier dai Leoni, dietro la fondazione Guggenheim, a tre metri di altezza, sta conficcata una testina di marmo bianco. Sembra un fantasma, o uno Zefiro, che voleva sbucar fuori, ma è rimasto impigliato nel momento di trapassare i mattoni. E' il volto di un rubicondo ragazzo con le guance gonfie e la bocca contratta, come se stesse per emettere un soffio.
Venezia è piena di pezzi di statue antiche incastonate negli angoli e nelle pareti dei suoi palazzi. Come le statue dei Mori, che danno il nome alle Fondamenta e al Campo. Uno se li trova di fianco all'improvviso, alla propria altezza come viandanti freddi e misteriosi. ( qui )
Questi frammenti mostrano come parte della bellezza della città lagunare sia stata costruita con le razzie dei palazzi dell’Oriente. Ogni nave che tornava trasportava  – anzi: doveva per obbligo  portare – statue, colonne, pavimenti che servivano ad abbellire la città. La Basilica di San Marco è l’esempio più vistoso di un patchwork di furti, un collage di stili e materiali, estratti dal loro contesto e funzioni originali, che la rendono unica e inimitabile. Mi pare che così anch’io scrivo quando racconto miei ricordi: a volte rubo pezzi da altre storie, incastonandoli nelle mie.

Francesco M. Cataluccio, L'ambaradan delle quisquiglie, ed. Sellerio


4 commenti:

  1. Le tavole incise di Jacopo de' Barbari danno le vertigini per quanto sono minuziose. Mi chiedo come avesse fatto a realizzarle, in un'epoca in cui non c'erano né palloni aerostatici né droni. :)

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  2. Ciao, Cristina! :-)

    In molti si sono posti la tua stessa domanda; qualche risposta puoi trovarla qui ma la questione è comunque irrisolta. Gli strumenti disponibili all'epoca per le rilevazioni erano essenziamente due: la bussola magnetica e il quadrante geometrico, strumenti giudicati idonei solo fino ad un certo punto.

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  3. Interessante libro e, che dire della foto? Sono quasi sicura di aver visto quella testa, così come ho visto le statue dei Mori. Ma mentre delle seconde mi restano innumerevoli scatti dei loro turbanti, non ne ho alcuno della prima e questo, a Venezia, è normale che accada.

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  4. Bisogna che la cerchiamo insieme un giorno o l'altro... :-)

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