venerdì 30 giugno 2017

Rane


Le rane nello stagno, furiose, si chiamavano a perdifiato; si potevano perfino distinguere chiaramente le loro parole, "i ty takovà! i ty takovà!".
Che strepito! Pareva che tutti quegli esseri gridassero e cantassero perché nessuno, quella sera di primavera, potesse dormire; perché tutti, e anche le rane furiose, godessero di ciascun minuto e lo amassero: la vita infatti è data una volta sola.

Anton Cecov, "Nella bassura" pag.1243 dei Racconti nell'edizione Garzanti
 ("anche tu sei così!")


(disegno di Jan van Rysselberghe)

mercoledì 28 giugno 2017

Un vortice di nulla



"...Nel cuore dell’Orlando Furioso c'è un trabocchetto, una specie di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi (...) Un vortice di nulla."
 
Italo Calvino





Ariosto allontana diversi cavalieri dal campo di battaglia e dunque da Parigi, assediata dai Mori, e li manda in cerca di qualcosa che hanno perduto: la persona amata, il proprio antagonista, il cavallo o un semplice oggetto; ognuno di loro ha l'impressione di poter riafferrare ciò che ha smarrito all'interno di un magico castello in cui gli  capita di entrare e del quale resta prigioniero.

                                    ....e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti a quest'inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.





Nel dodicesimo canto dell’Orlando Furioso si materializza il più illusorio dei luoghi, il castello del mago Atlante. I cavalieri che ne varcano la soglia finiscono per dimenticare ogni cosa meno che l'oggetto del loro desiderio e il  desiderio, osserva Italo Calvino "è una corsa verso il nulla".



Se con Gradasso o con alcun ragiona
di quei ch’andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che più ciascun per sé brama e desia.



"... il palazzo è deserto di quel che si cerca, e popolato solo di cercatori. Atlante ha dato forma al regno dell’illusione; se la vita è sempre varia e imprevista e cangiante, l’illusione è monotona, batte e ribatte sempre sullo stesso chiodo.
Questi che vagano per androni e sottoscala, che frugano sotto arazzi e baldacchini sono i più famosi cavalieri cristiani e mori: tutti sono stati attratti nel palazzo dalla visione d’una donna amata, d’un nemico irraggiungibile, d’un cavallo rubato, d’un oggetto perduto. Non possono più staccarsi da quelle mura: se uno fa per allontanarsene, si sente richiamare, si volta e l’apparizione invano inseguita è là, affacciata a una finestra, che implora soccorso.
Lo stesso grido d’aiuto, la stessa visione che a Ruggiero parve di Bradamante e a Orlando parve Angelica, a Bradamante parrà Ruggiero. Il desiderio è una corsa verso il nulla, l’incantesimo di

Atlante concentra tutte le brame inappagate nel chiuso d’un labirinto, ma non muta le regole che governano i movimenti degli uomini nello spazio aperto del poema e del mondo.
Anche Astolfo capita da quelle parti. Nel suo veloce giro del mondo è passato un momento a casa, in

Inghilterra, e adesso è di ritorno in Francia. Mentre sta bevendo a una fontana, un contadinello gli ruba il cavallo Rabicano: o almeno, così pare. Fatto sta che, inseguendo il ladruncolo e il cavallo, anche Astolfo finisce nel palazzo incantato.
Ma con Astolfo non c’è incantesimo che valga. Nel libro magico che gli ha regalato la fata Logistilla è spiegato tutto sui palazzi di quel tipo. Astolfo va dritto alla lastra di marmo della soglia: basta sollevarla perché tutto il palazzo vada in fumo. In quel momento viene raggiunto da una folla di cavalieri: sono quasi tutti amici suoi, ma invece di dargli il benvenuto gli si parano contro come se volessero passarlo a fil di spada. – Ehi, sono Astolfo, non mi riconoscete? Macché: quelli gridavano: – Ecco il gigante! Dàgli al rapitore! Al ladro, al ladro! – Ognuno un’accusa diversa ma tutte piene d’accanimento e d’ira.
Cos’era successo? Atlante, vedendosi a mal partito, era ricorso a un ultimo incantesimo: far apparire Astolfo ai vari prigionieri del palazzo come l’avversario inseguendo il quale ciascuno di loro era entrato là dentro. Ma ad Astolfo basta dar fiato al suo corno per disperdere mago e magia e vittime della magia. Il palazzo, ragnatela di sogni e desideri e invidie si disfa: ossia cessa d’essere uno spazio esterno a noi, con porte e scale e mura, per ritornare a celarsi nelle nostre menti, nel labirinto dei pensieri."


Italo Calvino racconta l’Orlando Furioso, ed. Einaudi



Questa e le immagini sopra pubblicate sono dipinti di Raffaele De Rosa


Italo Calvino non è l'unico ad aver  rimarcato il tema dell'illusione sotteso all' Orlando furioso. Jim Jarmusch  fa di "Mistery train", la riscrittura in chiave moderna del XII canto , così Il castello del mago Atlante diviene un hotel di Menphis, l'Arcade ( qui  un post sull'argomento  pubblicato in un mio  blog). 

Nel film la coppietta del primo episodio proviene dal lontano Oriente come Angelica e Argalìa; tutti i personaggi compiono dei " giri perduti" a piedi o in macchina, uno dei personaggi dell'ultimo episodio viene abbandonato da una ragazza "in fuga" e come Orlando "impazzisce"..


Nicoletta Braschi in "Mistery train" ; sul comodino una copia dell'Orlando furioso

lunedì 26 giugno 2017

Mosquitoes


« Ho acceso una candela verde e sottile, per renderti gelosa di me; ma la stanza si è riempita subito di zanzare, hanno sentito che il mio corpo era libero....»

Inizia così una delle canzoni più belle di Leonard Cohen, ballata sarcastica sull'amore perduto con forte insistenza sulla freddezza di lei che lo ha lasciato. Si sa, in amore capita. Essere lasciati non è mai bello, i dettagli li lascio a chi conosce l'inglese ma Cohen commette un errore e come entomologo (sia pur dilettante) sono costretto a rimarcarlo: le zanzare non sono attirate dalla luce. Con la luce accesa entrano nella stanza tanti insetti di tutti le specie, ma le zanzare (mosquitos) cercano proprio noi, e sanno come trovarci anche al buio. Purtroppo.


One Of Us Cannot Be Wrong 
 ( un clic qui )

I lit a thin green candle, to make you jealous of me.
But the room just filled up with mosquitos,
they heard that my body was free.

Then I took the dust of a long sleepless night
and I put it in your little shoe.
And then I confess
that I tortured the dress
that you wore for the world to look through.
I showed my heart to the doctor:
 he said I just have to quit.
Then he wrote himself a prescription,
and your name was mentioned in it!
Then he locked himself in a library shelf
with the details of our honeymoon,
and I hear from the nurse
that he's gotten much worse
and his practice is all in a ruin.
I heard of a saint who had loved you,
so I studied all night in his school.
He taught that the duty of lovers
is to tarnish the golden rule.
And just when I was sure
that his teachings were pure
he drowned himself in the pool.
His body is gone
but back here on the lawn
his spirit continues to drool.
An Eskimo showed me a movie
he'd recently taken of you:
the poor man could hardly stop shivering,
his lips and his fingers were blue.
I suppose that he froze
when the wind took your clothes
and I guess he just never got warm.
But you stand there so nice,
in your blizzard of ice,
oh please let me come into the storm.


 qui qualcosa sulla genesi della canzone                                   (disegno di Waldemar Bonsels)

sabato 24 giugno 2017

Campanella


Ecco dunque il diverso filosofar mio da quel di Pico; ed io imparo più dall’anatomia d’una formica o d’una erba (lascio quella del mondo mirabilissima) che non da tutti li libri che sono scritti dal principio di secoli sin a mo’, dopo ch’imparai a filosofare e legger il libro di Dio: al cui esemplare correggo i libri umani malamente copiati ad a capriccio, e non secondo sta nell'universo libro originale. E questo m’ha fatto legger tutti autori con facilità e tenerli a memoria, della quale assai dono mi fe’ l'Altissimo; ma più insegnandomi a giudicarli col riscontro del suo originale.

Tommaso Campanella, lettera a monsignor Antonio Quarengo, pag.187 di "La città del sole e altri scritti", ed. Oscar Mondadori 1991


(disegno di Joris Hofnägel)

giovedì 22 giugno 2017

Annunciazione


" L'Annunciazione di Lorenzo Lotto era la mia preferita, con la Madonnina provinciale che abbandona il libro sul leggio e volta le spalle all'angelo, quasi volesse scappare, impaurita al pari del gatto. Non era solo il registro intimistico ad attrarmi, era soprattutto la paura delle responsabilità, ciò in cui mi identificavo e contro cui lottavo. "

Sergio Garufi, Il nome giusto, ed. Ponte alle Grazie



martedì 20 giugno 2017

Dino Buzzati

Un cane. Ha il pelo lungo. E' nero. Ha un aspetto mite e pensieroso. Assomiglia stranamente a Spartaco, il barbone che avevo una quindicina d'anni fa. La stessa sagoma, la medesima andatura, l'identico volto rassegnato. Assomiglia? Altro che assomigliare. E' lui in persona, Spartaco, vivo simbolo di stagioni lontane che adesso sembrano felici.
Mi viene proprio incontro, mi fissa con il profondo pesante sguardo che hanno i cani, pieno di ansie e di rimproveri. Fra poco, già lo immagino, mi salterà addosso con mugolii di gioia. Invece, quando è a due metri e io allungo la mano per accarezzarlo, lui scivola via, estraneo, e si allontana.
- Spartaco! - grido - Spartaco!
Ma il cane non risponde, non si ferma, non volta neanche il muso. Lo vedo, pecorella nera, rimpicciolire, dietro e fuori i successivi aloni dei fanali. «Spartaco!» chiamo ancora. Niente. Troc troc. Adesso non lo si vede più.

(Dino Buzzati, da "La città personale", numero 41 dei "Sessanta racconti")


(disegno di Dino Buzzati: è uno dei suoi cani)

domenica 18 giugno 2017

come i ricci fanno scorta di mele





Ecco dunque come ho visto i ricci fare la raccolta delle mele.

Una sera d’autunno, quando era già buio, ma splendeva luminosa la luna, sono andato con un altro ragazzo, mio amico, in un campo pieno di alberi da frutta, specialmente di meli. Ci siamo nascosti in un cespuglio, contro vento. Ecco, a un tratto, sbucano i ricci, cinque: due piú grossi e tre piccolini. In fila indiana si sono avviati verso i meli, hanno girellato tra l’erba e poi si sono messi al lavoro: aiutandosi coi musetti e con le gambette, facevano ruzzolare le mele, che il vento aveva staccato dagli alberi, e le raccoglievano insieme in uno spiazzetto, ben bene vicine una all’altra. Ma le mele giacenti per terra si vede che non bastavano; il riccio piú grande, col muso per aria, si guardò attorno, scelse un albero molto curvo e si arrampicò, seguito da sua moglie. Si posarono su un ramo carico e incominciarono a dondolarsi, ritmicamente: i loro movimenti si comunicarono al ramo, che oscillò sempre piú spesso, con scosse brusche, e molte altre mele caddero per terra. Radunate anche queste vicino alle altre, tutti i ricci, grandi e piccoli, si arrotolarono con gli aculei irti, e si sdraiarono sui frutti, che rimanevano infilzati: c’era chi aveva poche mele infilzate (i riccetti), ma il padre e la madre erano riusciti a infilzare sette o otto mele per ciascuno.
Mentre stavano ritornando alla loro tana, noi uscimmo dal nascondiglio, prendemmo i ricci in un sacchetto e ce li portammo a casa.
Io ebbi il padre e due riccetti e li tenni molti mesi, liberi, nel cortile; essi davano la caccia a tutti gli animaletti, blatte, maggiolini ecc., e mangiavano frutta e foglie d’insalata. Le foglie fresche piacevano loro molto e cosí li potei addomesticare un poco; non si appallottolavano piú quando vedevano la gente. Avevano però molta paura dei cani. Io mi divertivo a portare nel cortile delle bisce vive per vedere come i ricci le cacciavano. Appena il riccio si accorgeva della biscia, saltava lesto lesto sulle quattro gambette e caricava con molto coraggio. La biscia sollevava la testa, con la lingua fuori e fischiava; il riccio dava un leggero squittio, teneva la biscia con le gambette davanti, le mordeva la nuca e poi se la mangiava a pezzo a pezzo. Questi ricci un giorno sparirono: certo qualcuno se li era presi per mangiarli.

Antonio Gramsci ( da una lettera al figlio Delio )
in Antonio Gramsci, Fiabe, ed Clichy

venerdì 16 giugno 2017

Mkrgnao


(...) Un'altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava lì, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta impettita girò attorno a una gamba dei tavolo con la coda ritta. - Mkgnao! 
- Oh, sei qui, disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr.
Mr. Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia. - Latte per la miciolina, disse. - Mrkgnao! piagnucolò la gatta.
 Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche. Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre? No, mi salta benissimo.
- Ha paura dei polli, lei, - disse canzonatorio. Paura dei pìopìo. Mai vista una miciolina così sciocchína. Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia. - Mrkrgnao! disse forte la gatta.Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti biancolatte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l'avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s'avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.- Grr! esclamò lei e corse a lambire. Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse. Tese l'orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca pura. Giovedi: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzìno di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l'acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi.



Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No. Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito. Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina. Forse però: una volta tanto. Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto:- Vado qui all'angolo, torno tra un minuto. Udita la sua voce dir questo soggiunse:- Vuoi niente per colazione?  Un debole grugnito assonnato rispose:- Mn.No.
Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d'ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano. Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po' di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l'ha pagato suo padre. (...)

( James Joyce, "Ulisse"; nella traduzione di Giulio de Angelis, ed. Mondadori, a cura di Giorgio Melchiori. )



Questo è il primo momento in cui incontriamo Mr.Bloom. Leopold Bloom è a casa sua, è mattino presto e sta preparando la colazione per la moglie: che si chiama Molly, è a letto e dorme ancora.


( Le immagini vengono da "The long goodbye" di Robert Altman, con Elliott Gould )

(la foto della gattina nostra contemporanea è mia) (in esterni, non viene in casa)




mercoledì 14 giugno 2017

Bucoliche


BUCOLICHE
(Virgilio Gauna?)
da "Golem L'indispensabile", on line 2001-2003...

1.
Il soffio dell'oca
fa rima col gatto:
quell'oca boriosa
infuriare ho fatto.
Si gonfia e la temo:
non è che son scemo,
è un'oca assai grossa,
da rabbia commossa.
Apre le ali e soffia
s'avanza con grande sdegno
teme che il mio disegno
la porti giù nella fossa.
Non sa che non lei cercavo;
e chi cercavo non trovo
suono e risuono invano
mi siedo e di qui non mi muovo.



2.
Il tacchino impettito s'avanza,
fa la ruota, che questa è l'usanza,
o in terra raspa e borbotta glu glu.
E' una pita che ruota e gloglotta,
che ti guarda curiosa e rimbrotta,
non capisce quel tuo portamento:
chi ti credi, il padrone del mondo?
E' perplesso il pennuto, e sbadiglia;
poi col becco una piuma assottiglia
e i bargigli gli vanno su e giù.
Questa porta, in campagna, m'aprite,
che continuo ad andare su e giù?
Che già l'aia tre volte ho percorsa,
che tre volte già il cane m'abbaia,
quante bestie ci son qui nell'aia.



3.
La gallina. E quello lì è il gallo.
Di pulcini ne vedo una frotta,
questo è nero e quello lì è giallo.
Il tacchino, quell'oca boriosa,
che ora tace e ormai più non m'assale;
di lontano grugnisce il maiale
e le vacche son giù nella stalla.
Oramai la conosco a memoria,
questa casa colonica gialla.
Chi vi abita è cara persona,
e che sempre più spesso mi manca.
Io son stato assai tempo lontano,
ora torno e ci porto pazienza.
(saran fuori a comprar la semenza?)
(sono forse già andati a Piacenza?)


4.
Passavo il mio tempo seduto nel prato,
vedevo le cose perdute, pensavo al passato.
Sapevo, dovevo, seduto nel prato,
pensavo, guardavo, sentivo, volevo.
Il buco d'un grillo, là presso un batrace
pian piano li vedo, ne sono capace,
ci vuole pazienza e poi il mondo appare.
E le cavallette, le mille formiche,
le piante ben verdi, le tante lumache,
un'ape che vola e si posa pian piano.
Mi sveglio, mi desto, cos'è che mi chiama?
La voce è lontana ma poi s'avvicina -
che bello, è arrivata, è lei che mi chiama.
Che faccio nel prato, mi chiede e sorride:
anch'io son perplesso, m'abbraccia e mi bacia...
allargo le braccia e insieme a me ride.
(Il sole, là in alto, fa finta ma vede)
(statistica su Palomar di Calvino, cds 12.11.01)

(l'oca è di Jan Asselyn, 1650; i tacchini sono di Charles Courtney Curran; le galline sono di Hans Thoma; il disegnino infantile è mio)

lunedì 12 giugno 2017

Il filtro di Puck e la ninna nanna di Benjamin







Sono tante le citazioni e le riscritture teatrali , cinematografiche  qui ) e musicali di Sogno di una notte di mezza estate. Per fare un solo esempio, la marcia nuziale a tutti familiare non è altro che uno dei momenti dell' Ein Sommernachtstraum di Felix Mendelssohn Bartholdy . Anche Benjamin Britten ha scritto una meravigliosa versione della celebre opera shakespeariana. Mi è ritornata in mente leggendo le pagine che Alex Ross dedica al compositore inglese nel suo Il resto è rumore

sabato 10 giugno 2017

Orso


Basilea, 7 ottobre 1934
E' tempo di mettere insieme le impressioni lasciate in me dalla personalità di Jung in questi pochi giorni, tempo di tirare le somme, di scoprire il ritratto. Ed é un ritratto in piedi, nel modo più assoluto, perché è in piedi che lo rivedo, mentre parla e insegna. Viene subito alla mente la parola "statura", oppure il tedesco "Gestalt ". Jung non è uomo da tavolino, da studio: è una forza.
Spicca nella mia memoria uno degli aneddoti dei quali costella le sue lezioni. Spero di non rovinarglielo citandolo a memoria.  Risale al suo soggiorno presso una tribù di indiani pueblo, i quali, per identificare uno straniero, anziché chiedergli il passaporto si pongono la domanda: «Che animale è? ». Come a dire: «Quale è il suo totem?», e si mettono a osservarlo, perché appartenere a un totem equivale a essere quell’animale totemico: talmente forte é la "partecipazione", talmente pervaso é un uomo dal suo animale sacro, che basta guardarlo muoversi e agire e vivere per riconoscerlo. Quando lo straniero proviene da qualche tribù vicina, il gioco è abbastanza facile, a quanto pare; ma nel caso dell’uomo bianco, che è così estraneo alla loro esperienza, la faccenda è molto più complicata. Jung era al corrente, attraverso l'interprete, dell'imbarazzo dei suoi ospiti per non essere riusciti a identificarlo. Comunque, poiché aveva saputo meritarsi la loro fiducia, un giorno fu invitato a visitare il piano superiore della casa, un segno di stima e di benvenuto.

mercoledì 7 giugno 2017

The cuckoo

La prima sorpresa, per noi che non siamo inglesi, è di trovare il cuculo come femmina: "she is a pretty bird". Non è un errore perché la dizione è nitidissima, impossibile sbagliare, e poi si continua: "she sings as she flies", eccetera. Capita spesso, saltando da una lingua all'altra, di trovare di queste sorprese, che ci spiazzano e non poco: in inglese la volpe è maschio (nelle traduzioni poi si fanno i salti mortali per trasportare qui da noi volpi maschio come Robin Hood o come i calciatori del Leicester, "The Foxes"), in tedesco il Sole è femminile e la Luna è maschile, e chissà quanti altri esempi si potrebbero fare. Il cuculo, pardon: "the cuckoo", di questa canzone inglese è un altro degli avvertimenti alle giovani trasmessi attraverso la musica e la storia è quella di una ragazza riempita di promesse da un uomo, che poi se ne è andato. L'inglese è più o meno quello di Shakespeare (notare la terza persona dei verbi: draweth, singeth...), e la ragazza di questa canzone è parente stretta della Ninfa di Monteverdi, "Lamento della Ninfa", dal Libro Ottavo dei Madrigali:

un clic qui per l'ascolto

« Amor, » dicea, (...)
« Dove, dov'è la fe'
che 'l traditor giurò ?
Fa' che ritorni il mio
amor com'ei pur fu,
o tu m'ancidi,
ch'io non mi tormenti più.
Non vo' più ch'ei sospiri
se non lontan da me,
no, no, che i martiri
più non darammi affè.
Perchè di lui mi struggo,
tutt'orgoglioso sta,
che sì, che sì se 'l fuggo                                                                
ancor mi pregherà ?
Se ciglio ha più sereno
colei che 'l mio non è,
già non rinchiude in seno
amor si bella fè.
Nè mai si dolci baci
da quella bocca havrai,
nè più soavi, ah taci,
taci, che troppo il sai. »
(testo di Ottavio Rinuccini)

"The cuckoo" è affidato ai Pentangle, da "Basket of Light": accanto alla voce infallibile di Jacqui Mc Shee, questa volta spiccano le percussioni di Terry Cox e soprattutto il basso (contrabbasso) di Danny Thompson.
Un clic qui per l'ascolto

The cuckoo
(traditional)
The Cuckoo she is a pretty bird,
she sings as she flies.
She bringeth good tidings,
she telleth no lies
She sucketh white flowers
for to keep her voice clear
And she never sings "cuckoo"
till summer draweth near.
As I was a-walking
and talking one day
I met my own true love
as he came that way
Though the meeting was pleasure,
though the courting was a woe
for I've found him false hearted,
he'd kiss me, and then he'd go.
I wish I was a scholar
and could handle the pen.
I'd write to my lover
and to all roving men
I would tell them of the grief and woe
that attend on their lies
I would wish them have pity
on the flower, when it dies.
I wish I was a scholar
and could handle the pen.
I'd write to my lover
and to all roving men
I would tell them of the grief and woe
that attend on their lies
I would wish them have pity
on the flower, when it dies.
As I was a-walking
and talking one day
I met my own true love
as he came that way
Though the meeting was pleasure,
though the courting was a woe
For I've found him false hearted,
he'd kiss me, and then he'd go.
The Cuckoo is a pretty bird,
she sings as she flies.
She bringeth good tidings,
she telleth no lies
She sucketh white flowers
for to keep her voice clear
And she never sings "cuckoo"
till summer draweth near.

(il dipinto è di Botticelli ) ( qui )

lunedì 5 giugno 2017

Fedora





disegno di Moebius


Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d’un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro.
Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall’alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto a chiocciola (che non trovò più la base su cui sorgere).
Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.

Italo Calvino, Le città invisibili

sabato 3 giugno 2017

Cecov


Discendemmo, mia moglie e io, verso la gora del mulino e ritirammo la rete che Stepàn aveva messo il giorno prima in nostra presenza. Vi si dibatteva un grosso pesce persico e, drizzando le sue chele in aria, si ergeva un gambero.
- Ributtali nell'acqua, - disse Mascia - che siano felici anche loro!

(Anton Cecov, I racconti, secondo volume  ed. Garzanti, pag.1037 - La mia vita)

giovedì 1 giugno 2017

la voce degli alberi

fotogramma di “Fitzcarraldo” di Werner Herzog ( fonte )


Per gli abitanti del bosco quasi ogni specie di albero possiede, accanto al proprio aspetto, una sua propria voce. Al passaggio della brezza, gli abeti singhiozzano e gemono dondolandosi; l'agrifoglio sibila battendo contro se stesso; il frassino fischia e rabbrividisce; il faggio stormisce mentre i suoi rami lisci si alzano e si abbassano. E l'inverno, pur modificando la voce d'ogni singolo albero facendone cadere le foglie, non ne distrugge l'individualità.

Thomas Hardy, Sotto gli alberi

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