Chiarina e Lola, crescendo, si volevano sempre più bene. Tutte e due bruttine, nàchere e tracagnotte, troppo grasse; e si assomigliavano. Chiarina la maggiore. Vestivano alla buona, cucendo da sè; e di grazioso non avevano niente. Si parlavano sempre sottovoce; anche se erano sole; perché credevano che avessero da dirsi cose troppo insulse; da nascondere. Quando la zia le sorprendeva a parlarsi, facevano una risatina; e, con gli occhi, si raccomandavano di non confessare. Ma nascondevano soltanto il loro pudore e la loro innocenza. E si promettevano sempre di non parlarsi più a quel modo; quantunque, specie certi giorni, la loro amicizia avesse bisogno di sottrarsi a chiunque. Erano contente di pensare a cose eguali; e avevano fatto proponimento, giurando, di essere sempre cosi; non desiderando un’altra fortuna migliore.
A tutte e due piacevano le passeggiate
in campagna. E la zia, sebbene non più di due volte la settimana, le
portava fuori di città, per una strada solitaria e quieta. Dovevano
passare davanti alla loro Scuola Normale; e allora davano un'occhiata
dentro la porta; per vedere se ci fosse la direttrice a salutare
qualcuna del convitto, che i parenti erano andati a prendere. Dando
quell’occhiata, sghignazzavano e camminavano più leste; arrivando
a Porta Tufi quando la zia stava ancora a metà della scesa. Si
voltavano, tenendosi a braccetto, per guardare il muraglione, a
mattoni, del giardino della scuola; in cima al quale s’attacca una
pianta d’edera; sbrandellandosi. Di fronte, un muro più basso
fatica a reggere un campo; che quasi strabocca. Sopra l’arco della
Porta, di fuori, una meridiana vecchia e stinta; senza il ferro. Un
arco più alto, fatto di pietre grigie; chiuso quando riadattarono
l’entrata. Da ambedue le parti, congiunte alla Porta, cominciano
due muraglie; d’un rosso scuro, con qualche chiazza giallastra; e,
dietro a quelle, viti e olivi. Non c’era mai nessun rumore; ed elle
facevano un passo più nel mezzo della strada quando all’improvviso
sentivano il fruscio di una scala messa da
qualche contadino tra i rami di un fico. Una delle muraglie, dopo un cancello di legno, coperto sotto un
piccolo tetto a doppio pendio, termina a un caseggiato d’un rosso
cupo, con le finestre anguste, fino al Cimitero della Misericordia.
Ma le due giovinette, dopo averlo domandato alla zia, prendevano
sempre la Strada del Mandorlo. E allora, tra gli olivi, dietro un
muricciolo basso, sul quale ci si può anche mettere seduti, si
ricomincia a vedere Siena.
Quando Chiarina e Lola si soffermarono
ad aspettare la zia, il cielo era tutto cinereo, ma chiaro; e il sole faceva doventare
abbarbagliante la nebbia dove restava ficcato. La campagna, sotto il
Monte Amiata, sempre più sbiadita e uniforme. I contorni dei poggi
si attenuavano, quasi sparendo. Anche i cipressi si velavano; meno
che quelli vicini. Le mura della cinta cascano dentro la terra
gialla, tra l'erba delle grosse greppaie. E Siena strapiomba su un
rialzo alto, separata dalla sua cinta che in quel punto è quasi
dritta; mentre, verso la Porta San Marco, stramba a saliscendi. Dalle
case della città esce fuori soltanto il campanile del Carmine; a
punta.
Seguitando la china, sentivano i loro
passi risonare; perché la strada si fa più stretta tra i suoi muri sempre più alti. La poggiaia fuori di
Porta Romana s’appiana, aprendosi con le sue campagne sparse da per
tutto. Più in là, ma come della stessa altezza, i poggi azzurri,
dopo una striscia violacea; con le file nere dei cipressi.
Giunsero, quasi senza più parlare, ad
una villa con la facciata scolorita dall'umidità; con una finestra
finta e le persiane verdi; con rappezzature fatte a calce, come
patacche bianche. Incontrarono un portalettere sciancato; con la pipa
in bocca; volta in giù; con la borsa logora a tracolla ed una
fazzolettata di chiocciole in mano. Chiarina e Lola fecero le
boccacce. Poi, incontrarono due preti: uno basso, tarpagno; e un
altro secco come un nocciolo d’oliva. E alle due sorelle venne da
ridere. Poi, giunsero ad un’altra casa, tenuta su, perché non
franasse, con certi rinforzi di mattoni a pendio, che arrivavano al
tetto. Aveva la facciata gialleggiante di licheni.
Ora, i muri della strada erano tutti
storti e piegati; sbilenchi; con rigonfiature che si spaccano come se fossero per sfiancarsi. Elle si
misero a canticchiare; ma, stonando e non andando a tempo, dovevano
sempre rifarsi da capo. Non pensavano a niente; e la zia disse loro:
- Non camminate troppo, perché sudate.
Lola chiese:
- Non arriviamo fino alla cappella?
- E' troppo lontana; poi, per tornare a
dietro, è salita. (...)
Federigo Tozzi, Tre croci, capitolo VI
(pubblicato nel 1920)
(il dipinto qui sopra è di Telemaco Signorini;
quello sulla copertina del libro è di G.Abbiati)
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