Il cavallo di Brunilde si chiama Grane (cfr. Richard Wagner, Il crepuscolo degli dèi). Nomen Omen? Noi speriamo di no...
mercoledì 21 novembre 2018
Ragnatelo
Per quante camere d’albergo è passata la mia vita! Vi ho trascinato la mia solitudine, la mia uggia, la mia infelicità. Lavorare o far qualcosa non è affar mio; per fortuna sono ricco. Orbene, fu in una di tali camere che mi venne la grande idea. L’albergo era in una piccola città di provincia dove si affogava nella noia; il caldo era quasi intollerabile, la mia stanza era perfino infestata dalle pulci. Perché m’attardassi lì lo sa Iddio, se non è pel solito motivo che non sapevo dove andare e che in qualunque posto ho sempre trovato caldo o pulci o qualcosa di equivalente. Ad ogni modo usavo passare quasi l’intera giornata e in particolare i lunghissimi pomeriggi steso gnudo sul letto, dove con accorgimenti riuscivo a salvarmi dai rabbiosi animalucci; guardavo giornali illustrati, mi sforzavo talvolta di leggere un libro, per lo più contemplavo il soffitto imbiancato. E così non tardai a notare un ragnatelo che ne pendeva: al quale, propriamente, dovetti l’idea. Non poi ragnatelo, se mai vestigio di esso; un semplice ed esiguissimo filo, lungo forse un due spanne, come se ne possono vedere dappertutto, salvo che poca gente, scommetto, ha avuto l’opportunità di osservarne il comportamento. Uso di proposito questa parola: giacché, il mio almeno, era una cosa viva. Bastava un nulla d’aria, altrimenti insensibile, a farlo oscillare, torcersi, arricciolarsi; o che io soffiassi debolmente alla sua volta, o fischiettassi a fior di labbra; ma bastava anche niente. Direi anzi che non stava mai fermo. Perbacco, ci son giorni d’estate che l'aria in una stanza positivamente non si muove, e del resto io facevo esperimenti vari, tappavo porta e finestra, chiudevo le fessure con coperte o indumenti; e lui lì seguitava a tremare e ad agitarsi, benché un po' meno tumultuosamente. Nel mezzo della notte accendevo d’improvviso la luce: abbrividiva sempre. Era un'anima in pena, ecco cos’era, o meglio un’anima cui qualcuno infliggesse un continuo tormento; e a me piaceva immaginare che quel qualcuno fossi io medesimo. Poco importava se era un povero filino di ragnatelo: io mi sentivo finalmente un dominatore. Tra noi correva una specie di corrispondenza: i miei soffi erano un implacabile, atroce questionario, e i suoi contorcimenti le sue risposte impotenti, i vani tentativi di allontanare la tortura, erano il suo terrore, l'implorazione non meno vana. Sì, io avevo su di lui, per dir così, diritto di vita e di morte: potevo con un soffio più brutale inchiodarlo al soffitto, spengerlo per sempre. Se seguitava a tremare anche quando non spirava un alito di vento, di ciò non era forse causa il mio respiro stesso, come dire che lui sentiva la presenza del suo carnefice?
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