sabato 29 giugno 2019

Il vecchio e il cane

(lo spaniel è di Andrew Loomis)
Salendo le scale buie, ho urtato il vecchio Salamano, il mio vicino di pianerottolo. Era col suo cane. Sono otto anni che li si vede insieme. Lo spaniel ha una malattia della pelle, la rogna, credo, che gli fa perdere quasi tutto il pelo e lo copre di placche e di croste scure. A forza di vivere con lui, tutt’e due insieme in una stanzetta, il vecchio Salamano ha finito per somigliargli. Ha delle croste rossastre sul viso e pelo giallo e rado. Il cane, da parte sua, ha preso dal padrone un modo di camminare tutto curvo, col muso in avanti e il collo teso. Sembrano della stessa razza e tuttavia si detestano. Due volte al giorno, alle undici e alle sei, il vecchio porta il suo cane a passeggio. Da otto anni non cambiano il loro itinerario. Si può vederli lungo la rue di Lyon, il cane che tira l’uomo fino a che Salamano inciampa; allora il vecchio bastona il cane e lo insulta. Il cane s’accovaccia per il terrore e si impunta. A questo punto tocca al vecchio tirarlo. Quando il cane non se ne ricorda più, ricomincia a tirare il padrone e di nuovo é battuto e insultato. Allora restano tutt’e due fermi sul marciapiede e si stanno a guardare, il cane pieno di terrore, l’uomo di odio. E' così tutti i giorni. Quando il cane vuole orinare, il vecchio non gliene lascia il tempo e lo tira, e lo spaniel semina dietro di sé una scia di goccioline. Se per caso il cane sporca nella camera, é bastonato di nuovo. Sono otto anni che dura questa storia. Celeste dice sempre che "è una disgrazia", ma in fondo chi può saperlo? Quando l’ho incontrato per le scale, Salamano stava insultando il cane. Gli diceva: “Maledetto! Carogna!” e il cane gemeva, Io ho detto: “Buongiorno”, ma il vecchio ha continuato a insultarlo. Allora gli ho chiesto cosa aveva fatto il cane. Lui non mi ha risposto. Diceva soltanto: “Maledetto! Carogna!” Era chino sul cane e doveva essere occupato a sistemargli qualcosa nel collare. Ho parlato più forte. Allora, senza voltarsi, mi ha risposto con una specie di furia repressa: “E' sempre qui.” Poi se n'è andato tirando la bestia che si lasciava trascinare sulle quattro zampe e piangeva. (...)
Mi sono alzato, Raimondo mi ha stretto la mano molto forte e mi ha detto che fra uomini ci si capisce sempre. Uscendo ho richiuso la porta e sono rimasto un momento sul pianerottolo, al buio. La casa era calma e dal profondo della tromba delle scale veniva un soffio umido e oscuro. Non sentivo che i colpi del mio sangue che mi ronzava alle orecchie e sono rimasto immobile. Ma nella stanza del vecchio Salamano il cane ha dato un lamento sordo. Nel cuore di quella casa piena di sonno, il gemito è salito lentamente, come un fiore nato dal silenzio.


(Albert Camus, Lo straniero, capitolo III; ed. Bompiani 1987, traduzione Alberto Zevi)

giovedì 27 giugno 2019

Moonchild


La solitaria figlia della Luna che viene ritratta nella quarta traccia di In the court of Crimson King  -  l'album d'esordio dei King Crimson - ha gli alberi come interlocutori , muove passi di danza nel letto dei fiumi, si riposa nei pressi delle fonti e con una bacchetta argentea dirige l’orchestra dei  notturni volatili. Vestita di bianco, si lascia trasportare dal vento e attende, infine,  il sorriso di un figlio del sole.
Qui per l'ascolto.



Call her Moonchild
Dancing in the shallows of a river

fonte

Lonely Moonchild
Dreaming in the
shadows of a willow

Talking to the trees of the
Cobweb strange
Sleeping on the steps of a fountain
Waving silver wands to the
Night-birds song
Waiting for the sun
on the mountain

She’s a Moonchild
Gathering the flowers in a garden
Lovely Moonchild
Drifting in the echoes of the hours

Sailing on the wind
In a milk white gown
Dropping circle stones on a sun dial
Playing hide and seek
With the ghosts of dawn
Waiting for a smile from a Sunchild…

(testo di Pete Sinfield)


Chiamala Bambina di Luna,
danza nelle acque basse di un fiume.
Solitaria Bambina di Luna,
sogna nell'ombra di un salice
parla agli alberi della Ragnatela Strana
dorme sui gradini di una fontana
fa fluttuare bacchette d'argento
alle canzoni degli uccelli notturni;
aspetta per il sole sulla montagna.
Lei è una Bambina della Luna
raccoglie i fiori in un giardino.
Amorevole Bambina della Luna,
naufraga negli echi delle ore.
Veleggia sul vento
in un abito bianco come il latte;
fa cadere pietre rotonde su una meridiana,
gioca a nascondino con i fantasmi dell'alba,
aspetta un sorriso da un Bambino del Sole.
 
(una traduzione alla lettera di Giuliano , che , dice lui, serve solo per non andare a prendere il dizionario) 






martedì 25 giugno 2019

Gregor Mendel e il DNA dei piselli


A fine maggio spuntano finalmente i fiori dei piselli; durano poco, pochissimo, e diventano subito baccelli. Meno di un mese e sarà ora di raccogliere. E' una specie di bosco (a misura di micetto, s'intende) con tanti fiori bianchi e, sorpresa, alcuni fiori colorati. Molto pochi, due o tre fiori a colori vivaci, ma mi bastano per ricordare Mendel e la nascita della genetica. Dato che di queste cose non si parla mai abbastanza, porto qui qualche appunto dal mio libro (Le leggi dell'ereditarietà, Gregor Mendel, edizione Bur 1984 a cura di Brunetto Chiarelli): la prima cosa da dire è che gli scritti di Mendel sono davvero un trattato scientifico, difficili da leggere. La seconda cosa è che Mendel non studiò solo i piselli, ma tante altre piante comprese quelle da frutto, meli, peri, pruni, ed anche erbe officinali, viole, insomma un lavoro davvero importante.

Questi i dati essenziali: «Gregor Mendel scoprì le leggi dell'ereditarietà studiando a lungo nel piccolo giardino del monastero di Brno, dove era entrato nel 1843 come monaco agostiniano. La sua attività scientifica terminò nel 1868 quando fu nominato abate del convento e, forse, questo fu dovuto non solo alla quantità di impegni che lo distolsero dall'attività nell'orto, ma anche allo scoraggiamento che lo assalì vedendo l'indifferenza con la quale erano stati accolti i suoi lavori sugli incroci delle diverse varietà di piselli. Solo quarant'anni dopo la loro pubblicazione, nel 1900, gli scienziati Hugo De Vries, Karl Correns ed Erich von Tschermak, l'uno all'insaputa dell'altro, riscoprirono i lavori di Mendel e gli diedero la fama che non aveva avuto in vita.» Il termine "genetica" nascerà nel 1906, proposto dall'inglese William Bateson, ma le basi della genetica come la conosciamo oggi erano già tutte ben presenti nella pubblicazione di Gregor Mendel a metà Ottocento. Una data, 1868, colpisce: un anno esatto prima della pubblicazione della Tavola Periodica del suo quasi omonimo Mendeleev (russo). Anche la scoperta del DNA risale alla stessa data, 1869, ad opera del medico svizzero Friedrich Miescher; però una volta scoperto quel filamento nessuno seppe bene cosa fosse, anche il lavoro di Miescher fu dimenticato e ci volle quasi un secolo per arrivare, lentamente, al 1953 con la formula definitiva e la struttura del DNA come la conosciamo oggi.
Nel 1868-69 il premio Nobel non esisteva ancora, peccato: Mendel e Mendeleev lo avrebbero ben meritato, e probabilmente anche Miescher. Per intanto, mi consolo con i miei piselli: sono venuti bene, li abbiamo sgusciati uno a uno, chiacchierando, come ai bei tempi. Mendel ragionava anche sulla forma dei piselli: ne esistono di tondi e di spigolosi, chi ci aveva mai fatto caso. Quanto a capire quali sono nati dai fiori colorati, vallo a sapere: come giardiniere valgo pochissimo (i piselli crescono quasi da soli) e come biologo e genetista sono una frana. Non mi resta che progettare qualche ricetta di cucina, risi e bisi per quest'inverno, magari: prima o poi l'inverno arriva, per oggi faccio scorta nel freezer.



domenica 23 giugno 2019

William Basinski



Ho conosciuto William Basinski ascoltando, diversi anni fa,  una trasmissione di radiotre. Rimasi incantata da una musica fatta di piccole addizioni di suoni e un loop avvolgente.




“L’opera di Basinski è seguace del tempo e con esso si trasforma. La sua formazione classica,
protagonista di un lungo periodo nella sua composizione è caratterizzata da influenze jazz ed è il
punto di partenza per la sua comprensione. Abilmente, dopo i suoi studi alla North Texas State University Department of Music, si allontana dall’ ambiente accademico, giudicando spenti sia
l’ambiente che il tipo di insegnamento e porta con sé ciò che di meglio c’è da considerare; i riferimenti. William porta con sé, infatti, nel suo percorso noti riferimenti a compositori come Terry Riley, John Cage e Brian Eno. Ponendosi sempre in una condizione di volontario isolamento, coltiva quelli che poi saranno i caratteri delle sue composizioni di musica concreta e sperimentale grazie anche alla collezione di dischi del suo compagno/ artista James Elaine, che a suo dire è stata una preziosa fonte.”
 fonte ( qui

La trascendenza, l’intangibile e le possibilità che la musica offre di dare loro forma è uno dei principali interessi di Basinski. Nell’intervista rilasciata a Claudia di Giuseppe, il musicista ricorda che la prima musica che lo ha ispirato è stata quella ascoltata nella grande cattedrale di Sacred Heart Cathedral a Huston, per lui misteriosa; una cattedrale cattolica dallo stile europeo.

Qui  Melancholia

Qui On time out of time   ( info )

venerdì 21 giugno 2019

Gemme e gioielli


I chimici moderni avevano però ottenuto la ricompensa per i loro sforzi: Vauquelin il suo cromo e il suo berillio, Sefström e Berzelius il loro vanadio e Klaproth il suo zirconio. Il loro lavoro spazzò via gran parte della confusione che imperava nel mercato delle gemme: le storie di preziosi artefatti visti in terre remote da esploratori un po’ troppo impressionabili potevano ora essere confutate con maggior scetticismo. Per esempio, divenne evidente che molte pietre ritenute smeraldi erano troppo grosse per essere autentiche gemme e che, in questi casi, il termine veniva adoperato solo come similitudine per indicare oggetti verdi fatti in realtà di giada, o magari anche di vetro.
Oggi, con tutti i progressi compiuti nel campo della produzione di pietre artificiali, il termine «gemma» viene di solito riservato agli esemplari naturali. La classificazione in base ai colori è una questione più complicata: dato che il colore delle gemme dipende dalle impurità in esse presenti, non esiste nessuna definizione rigorosa di ciò che rende tale uno smeraldo o un rubino. Un berillo, pertanto, non è nient’altro che una pietra troppo pallida per essere considerata come uno smeraldo su una scala arbitraria delle tonalità di verde.
(Werner Herzog, Cuore di vetro)
 
L’incremento del traffico commerciale con i Paesi coloniali ricchi di questi minerali (come Birmania e Colombia), e le nuove tecniche per tagliare a macchina le pietre, fecero sì che la popolarità delle gemme colorate continuasse a crescere per tutto il XIX secolo. In un’epoca in cui il rigorismo morale si accompagnava alla sontuosità degli ornamenti, i gioielli esercitavano un fascino ambiguo. Solo le donne virtuose e la saggezza sono più rare dei rubini, dice la Bibbia. Indossare dei gioielli era un’indicazione di virtù, ma anche una forma di seduzione; le pietre preziose sono belle per natura, ma c'è qualcosa di diabolico nell’arte con cui vengono tagliate, e non ci sorprende affatto vedere - nel Faust di Goethe - Mefistofele che offre a Margherita un allettante scrigno di gioielli. Nella versione operistica della storia, con la famosa «canzone del gioiello» Gounod enfatizza la situazione rappresentando la casta eroina mentre, ridendo, si immagina trasformata in principessa mondana (nella maliziosa e mordace parodia di quest’aria fatta da Bernstein nel Candide, Cunegonda riflette tra sè e sè pensando che, se non è pura lei, lo sono almeno i gioielli).
Il legame con la purezza è senza dubbio uno dei motivi per cui Ruby e Beryl divennero nomi di battesimo popolari in epoca vittoriana, restando tali fino agli anni Trenta del Novecento. Oggi assistiamo forse a un revival di Ruby, ma non ci sono molti altri nomi ispirati alle gemme; Esmeralda è comunque di moda tra le ragazze, Jasper (diaspro) tra i ragazzi.
(da "Favole periodiche" di Hugh Aldersey-Williams, pagine 458-459 edizione BUR 2011)

(l'attrice Barbara Stanwyck, all'anagrafe Ruby Catherine Stevens)
 
un po' di musica: Ruby Tuesday dei Rolling Stones  (qui)

mercoledì 19 giugno 2019

Le scarpette d'argento


La diffusione delle pietre preziose come beni di consumo di lusso ha fatto fiorire nella letteratura altre sagaci allusioni. Gli smeraldi a cui fa riferimento Edmund Spenser in "La regina delle fate", o quelli nel "Paradiso perduto" di Milton potrebbero anche essere generiche gemme verdi: non conta tanto la loro precisa sfumatura di colore, quanto piuttosto la loro rarità. Ma possiamo invece immaginare che la città di Esmeralda nella favola del Meraviglioso Mago di Oz, del 1900, sia fatta proprio di queste pietre; e, in tal caso, il colore potrebbe essere significativo.
Alcuni studiosi di economia dotati di spiccata fantasia hanno interpretato la storia come un’allegoria della politica monetaria degli Stati Uniti di fine Ottocento: la strada di mattoni gialli rappresenta il sistema aureo che conduce a Esmeralda, la città dal colore dei dollari, governata da un mago incapace che personifica il presidente Grover Cleveland. La costruzione allegorica è giocata sul fatto che Dorothy indossa scarpette d’argento, in cui è da ravvisarsi il simbolo del movimento populista "argento libero" che, in seguito alla scoperta di nuovi depositi nell'Ovest americano, stava facendo pressione sulla zecca degli Stati Uniti perché l’argento venisse adottato come standard monetario al posto dell’oro. Questa curiosa simbologia passò però inosservata all’epoca della prima pubblicazione del libro, quando pure era d'attualità, e finì per essere completamente trascurata nella leggendaria trasposizione cinematografica del 1939, dove le allusioni erano più tecnologiche che non economiche: le scarpette indossate da Dorothy erano infatti di rubino, per celebrare il sistema technicolor in cui il film era stato girato. Lo "schermo argentato" delle vecchie proiezioni era morto.
(da "Favole periodiche" di Hugh Aldersey-Williams, pagine 458-459 edizione BUR 2011)

(edizione 1939 del Mago di Oz: il film è già uscito, ma Dorothy ha ancora le scarpette d'argento)



lunedì 17 giugno 2019

Lucania






Si può ritornare nella propria terra in molti modi, non solo cambiando cinque volte treno per raggiungere Matera, la città in cui sono vissuta per tanti anni, ma anche, più piacevolmente, occupandosi di un libro che è insieme un diario di viaggio, un percorso letterario in prosa e in versi, un documento storico-etnologico, un reportage fotografico sulla mia terra d’origine, la Lucania.

Un libro che è tante cose, dunque; d’altronde, il suo autore, Nicola d’Imperio
è tante persone: è medico, pittore, scrittore, escursionista.

“ La Lucania a piedi dallo Ionio al Tirreno” è il resoconto di un viaggio “lento”, a piedi, che ha impegnato l’autore e alcuni amici per otto giorni, dal 7 al 14 agosto 2010, ma è soprattutto il ricongiungimento con l’ambiente originario e dunque con un paesaggio concreto e mitico allo stesso tempo.




Quest’ultimo aspetto si rivela nei racconti in corsivo che l’autore sapientemente inserisce nell’ordito del libro e che gli consentono di recuperare leggende, figure ancestrali della tradizione lucana, dai briganti che strappano e mordono il cuore delle loro vittime, e le altrettanto feroci brigantesse, ai monacelli, fantasmi bambini, con tanta voglia di giocare, a un’entità che genera ancora oggi inquietudine, il lupomn; il termine “Lucania” deriva, dice l’autore, da lupo e il lupomn altro non è che il lupo mannaro, un uomo che, di notte, subendo il fascino della luna di cui è innamorato, si trasforma.
La luna è una componente importante del paesaggio lucano; si tratta proprio di una luna silenziosa, di leopardiana memoria, una luna che si staglia luminosa in un paesaggio remoto, fatto di distese interrotte da rilievi levigati dal tempo, immoti





In un passo molto bello, Nicola D’Imperio parla anche di un’altra luce, quella dell’alba trattenuta dall’elemento più tipico e caratteristico della Lucania, l’argilla; questa restituisce il colore – che ha conservato – dell’alba quando quel momento è ormai scomparso, trascorso.
Il paesaggio lucano conserva – e forse proprio per questo è antico, enigmatico, silenzioso. E’ un paesaggio malinconico perché del tempo serba memoria.
Il tempo trascorso è palpabile anche nei calanchi fratturati, erosi, scabri ; nei paesi -distanti tra loro anche cento chilometri - arroccati sui rilievi con una torre svettante, quasi il Medioevo non fosse mai finito; nel suono delle fontane e in quello del pascolo, in quello dei campanacci delle secche mucche podoliche che l’autore definisce “ solitarie, silenziose, schive ma con grandi occhi umidi che si fanno leggere dentro”; nei ciottoli dei fiumi che portano il segno delle piene improvvise e ricorrenti.



Qui un' intervista all'autore

( il post  è già comparso qualche anno fa nel mio vecchio blog )


sabato 15 giugno 2019

Musica nel monastero di Muri Gries

 Da "Il filo infinito" di Paolo Rumiz
ed.Feltrinelli

Un inglese e un tedesco non camminano allo stesso modo perché le loro lingue appartengono a due diverse visioni del mondo. "Zug" in tedesco e "train" in inglese sono entrambi traducibili come "treno" ma non vogliono dire la stessa cosa, perché il primo è una cosa che tira, il secondo una cosa che trascina. La lingua è qualcosa che ti penetra già prima  di nascere, in assenza di semantica, attraverso la madre. Un po’ come nella fiaba di Pierino il lupo musicata da Prokofiev dove ogni personaggio è rappresentato da uno strumento, in famiglia la madre coincide con i registri acuti e il padre è annunciato da quelli grandi. E se l’orecchio è la sede dell’equilibrio, dunque della percezione della gravità, esso comunica  ogni istante il senso fisico dell’esistere. Le parole, messe in sequenza ritmica, aiutano la memoria perché aderiscono meglio alla frequenza cerebrale. 
Il verso, l’ho imparato da tempo, è lo sforzo della parola di diventare musica. Ma è un tentativo fallimentare, perché la parola è destinata a perdere. La musica rimane inarrivabile. E' il solo linguaggio capace di saltare a pié pari le barriere culturali. (...)





 Suono al portone dell’abbazia, una voce metallica risponde al citofono. Ci aprono, e dentro ci prende subito una sensazione di vuoto. La nostra voce risuona come in un ambiente disabitato, e poiché i muraglioni mantengono fresco l’interno, anche lo sbalzo termico è sensibile rispetto all’esterno. Il portinaio non sa del nostro arrivo, forse Urban si è dimenticato di noi. Dentro si parla quasi solo in tedesco e quasi solo in tedesco  io tento di arrangiarmi con il poco che so di questa lingua, che peraltro amo. Poi le cose si chiariscono  E ci viene assegnata una stanza lussuosa, enorme, con vista sulla Val Sarentina. Roba per vescovi, non pellegrini come noi. Padre Urban sembra che non aspetti altro quando, dopo un breve preambolo di convenevoli, gli chiedo se può farmi sentire la voce dell’organo maggiore. Sale velocissimo al piano di sopra, apre una porticina, poi un’altra, attraversa lo spazio riservato ai cantori sopra l’ingresso, si siede sulla panca  dell’organista dando le spalle alle canne in fuga e poi, con una mossa rapida come la veronica  di un toreador, ruota su se stesso, forma un arco con la tonaca e lo scapolare, per prendere saldamente posizione sulla tastiera senza calpestare i pedali sottostanti e far partire una magistrale improvvisazione. È concentratissimo, sembra che nella chiesa di Sant’Agostino non ci sia che lui, l’uomo in nero che esplora con l’energia frenetica di ventisette registri della macchina del suono per dispiegarne la straordinaria vocalità. Si interrompe, ci fa sentire l'eco dell’armonia che permane, a lungo, nella navata. "Sbaglia chi crede che l’organo sia solo cattolico. L’organo è arrivato a Carlo Magno dall’impero d’Oriente. Lo conoscevano già  i Romani. ". Ricomincia. E l’armonia sale, passa dal Medioevo al Rinascimento, dal Barocco al Romanticismo, si arrampica per statue gesticolanti, si ramifica verso la sommità di questa chiesa bolzanina così asburgica, così cattolica e simile a una meringa con panna e crema, per poi sprofondare su tonalità abissali insieme ai dannati che precipitano all’Inferno sopra l’altare e  trovare risposta della cupa vibrazione sonora delle arcate medievali delle cantine, un' ex chiesa gotica dalla risonanza perfetta nel ventre stessa del monastero, dove hai il Sancta Sanctorum delle botti panciute di Sankt Magdalener e di Lagrein che da sempre forniscono il vino da messa nei conventi tedeschi. Ma il suono, ora morbido e flessibile non si arresta ancora, travalica i muraglioni per estinguersi nell’anfiteatro a vigna dei Monti Sarentini, tra le guglie dolomitiche e le nevi dell’uomo di Similaun. 

Nel vuoto di Muri Gries trovo pane per i miei denti.  Non c’è cripta o corridoio dove non venga voglia di provare la voce. Mi sorprendo a cantare persino sui gradini delle scale interne, per sondare quanto i vecchi capi mastri abbiano creato gli ambienti tenendo conto delle risonanze. La cantoria ha un’acustica formidabile, più adatta a esprimere  potenza corale che il suono della voce sola. Assisto a una messa dove trionfano il tedesco, la grande musica barocca per organo e la teatralità di decorazioni tondeggianti come bignè. Quindi qui si canta ancora il graduale romano e la forza del gregoriano riesci a coprire la scarsità dei coristi. Dei quindici monaci, due sono diplomati musica e nell’aria si avverte ancora la presenza venerabile del Kapellmeister Oswal Jaeggi, un altro svizzero, che ha lasciato al Sud Tirolo le sue composizioni migliori, di stampo tardormantico.
" La musica" incalza padre Urban è una comunicazione non verbale che unisce e, oltre ad arricchire l’anima, insegna il rapporto sociale."
 C’è un parallelismo, spiega, tra il rarefarsi delle bande di paese, l’attenuarsi della vita comunitaria e il venir meno della fede. "Nell’85 quando sono arrivato dalla Svizzera, qui c’erano ottanta monaci. Ora siamo a meno di un quarto. Oggi si vive più a lungo, ma la gente ha meno voglia di prendere un impegno che la vincoli per l'intera esistenza. Le scelte si fanno spesso nella maturità, se non la vecchiezza… Abbiamo tra noi ex banchiere, entrato qui a sessant’anni . C’è anche un chirurgo che ha preso gli ordini e insegna filosofia nei licei.". In questa trasformazione epocale la regola tiene duro, funziona ancora. Secondo un professore universitario di Magonza, Benedetto non sarebbe nemmeno esistito. Il santo, egli sostiene, sarebbe una costruzione di Gregorio Magno. Può anche essere. Quello che conta è la forza del messaggio. I suoi sttantatré punti."
Saliamo nella biblioteca. Urban afferra una Bibbia del tempo di Gutenberg e la sfoglia con un ghigno sarcastico: "Guardi come si legge bene dopo cinque secoli. Oggi bastano dieci anni perché un dischetto non funzioni". Profumo polveroso di pergamene, ma anche di vino che sale dalle cantine sottostanti attraverso il pavimento di legno. L’ organista evoca le antiche letture ad alta voce davanti ai monaci in refettorio e spiega che "la lettura declamata è un’operazione atletica, quasi più complessa che suonare uno strumento.". La stessa teoria che ho trovato ne La vigna del testo di quel grande spretato rivoluzionario che fu Ivan Illich. Il monachesimo, per il nostro organista, resta " l’unico comunismo che funziona". "Se l’acustica è buona", scherza, "credi anche se non vuoi. Se poi c’è pure del buon vino, allora è fatta.". Siamo all’essenza di un luogo santo dove le radici più antiche vanno cercate forse nello spazio meno religioso: le cantine.

giovedì 13 giugno 2019

Garofano, violetta, rosa, salice


In inglese il garofano si chiama pink, oppure carnation: due nomi strani per noi, perché pink significa rosa (il colore rosa) e carnation ci rimanda alla carnagione. Guardo i miei garofani e non ci trovo attinenza, ma forse chi è di madre lingua inglese non ci fa nemmeno caso. Le violette e le rose sono facilmente riconoscibili, familiari; ma nella canzone che sto ascoltando tutto assume un significato diverso. E' una canzone antica, catalogata come "traditional", cioè senza un vero autore ma cresciuta e conservata nei secoli dalla tradizione orale e da appassionati musicisti. E' una canzone molto bella, che tratta un tema molto presente nel corso dei secoli: la giovane donna tradita e abbandonata da un uomo, ma ancora innamorata. Ci sono molti simboli e alcuni doppi sensi, alcuni facili da decifrare e altri no; la voce è quella di Jacqui Mc Shee, voce sola senza accompagnamento, da "Cruel sister" dei Pentangle (qui)

WHEN I WAS IN MY PRIME 
(traditional, in "Cruel sister" dei Pentangle)
When was in my prime
I flourished like a vine
There came along a false young man
Come stole the heart of mine
Come stole the heart of mine
The gardener standing by
Three offers he gave to me
The pink, the violet and red rose  
Which I refused all three
Which I refused all three
The pink's no flower at all
For it fades away too soon
And the violet is too pale a hue 
I think I'll wait 'til june
I think I'll wait 'til june
In june the red rose blooms
That's not the flower for me
For then I'll pluck the red rose off
And plant a willow tree
And plant a willow tree
And the willow tree shall weep
And the willow tree shall whine 
Oh, I wish I was in the young man's arms
That stole the heart of mine
That stole the heart of mine
If I'm spared for one year more
And God should grant me grace
I'll weep a bowl of crystal tears
To wash his deceitful face
To wash his deceitful face



 
La traduzione qui sotto è mia: non è un gran che, anche perché tradurre non è semplice. Per esempio, in inglese il garofano è monosillabo: "pink", mentre in italiano ha quattro sillabe. E poi "pink" significa anche rosa, nel senso del colore rosa, e in italiano si farebbe una gran confusione. E come si fa a tradurre "prime" in italiano? Alla lettera, sarebbe "nel fiore degli anni", un'espressione un po' goffa in questo ambito. (Ho fatto meglio che potevo, questa mia versione serve solo per non andare a prendere il dizionario)
Quando ero nella mia primavera, fiorivo come la vite; allora venne un giovane falso, venne a rubare il mio cuore  (il mio tempo, in altre versioni). Il giardiniere che stava lì mi fece tre offerte: il garofano, la violetta e la rosa rossa; io le rifiutai tutte e tre. Il garofano non è nemmeno un fiore, perché sfiorisce troppo presto; e la violetta è una tinta troppo pallida. Penso che aspetterò fino a giugno: in giugno la rosa rossa fiorisce, ma non è il fiore per me; allora coglierò (strapperò) la rosa rossa, e pianterò un salice. E il salice piangerà, il salice si lamenterà, io vorrei essere nelle braccia di quel giovane che vinse il mio cuore. Se sarò risparmiata per un anno, e se Dio mi darà la grazia, piangerò una coppa di lacrime di cristallo per lavare il suo viso ingannevole.



(le foto di rose e garofani , così come le violette fra coste e prezzemolo, sono mie, dal mio balcone)

martedì 11 giugno 2019

Il carpino tacque



Al passare della nuvola, il carpino tacque. E' compagno all’olmo, e nella Néa Keltiké lo potano senza remissione fino a crescerne altrettanti pali con il turbante, lungo i sentieri e la polvere: di grezza scorza, e cosi denudati di ramo, han foglie misere e fruste, quasi lacere, che buttano su quei nodi d’in cima. La robinia tacque, senza nobiltà di carme, ignota al fuggitivo pavone delle Driadi, come alla fistola dell’antico bicorne: radice utilitaria e propagativa dedotta in quella campagna dell’Australasia e subito fronzuta e pungente alla tutela dei broli, al sostegno delle ripe. Fu per le cure d’un agronomo che speculava il Progresso e ne diede sicuro il presagio, vaticinando la fine alle querci, agli olmi, o, dentro i forni della calcina, all’antico sognare dei faggi.
Dei quali non favolosi giganti, verso la fine ancora del decimottavo secolo, era oro e porpora sotto ai cieli d’autunno tutta la spalla di là della dolomite di Terepattola, dove di qua strapiomba, irraggiando, sulla turchese livellazione del fondovalle, che conosciamo essere un lago. La calcina, manco a dirlo, per fabbricare le ville, e i muri di cinta alle ville: coi peri a spalliera.
 
(Alexandre Calame, 1854 - querce)

Quella straduccia che il medico doveva risalire andò a lungo nell’ombre, non già dei carpini radi, ma delle robinie senza fine. Dai rametti le frasche si dividevano innùmeri, lodevolmente verdi e però piene di giudizio, animate dal proposito di venir d’esempio all’uomo e di letificarne i rinati municipi, con quell’idea d’ordine e di denaro bene speso ch’era continuamente suggerita dal dispositivo simmetrico. Le fogliolette ellittiche, eguali come tutte le creature dello Standard e dell’Australasia, parevano razionate agli steli da una occhiuta intendenza ed eran degne al certo d’un viale-della-stazione con monumento equestre del generale Pastrufacio; il vittorioso di Santa Rosa. E ogni peduncolo, d’ognuna di quelle frasche, due lunghi aguglioni come due spille di cravatta, uno per parte: che non ne vietano l'assaggio, quando ci capita, alla lingua ottimistica del somaro. Per tal modo, d’attorno la villa e i peri, tutto fu robinia, oltreché banzavòis. Quel parallelopipedo bianco, spalancato ai venti e al zoccolare delle Peppe, la robinia lo stringeva del suo verzicante assedio. Lungo la siesta georgica dei Pirobutirro, d’ogni imagine trionfò la robinia. La sua mediocre puzza la fece considerare utile ai molti; come tutti i prodotti utili e di poca puzza riesce indispensabile, un bel giorno, alla economia collettiva, nelle migliorate speranze della vita maradagalese verso la fine del diciannovesimo secolo. Ed anche a Lukones.
(Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, pagina 52 edizione Einaudi 1984)

domenica 9 giugno 2019

Fra Galdino racconta


- E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt’anni sono, in quel nostro convento di Romagna?
- No, in verità; raccontatemelo un poco.
- Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro
dipinto di C. Pissarro
benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. "Che fate voi a quella povera pianta?" domandò il padre Macario. "Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna". "Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie". Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, "padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento".
 
Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? 

Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede... che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.

A. Manzoni, I promessi sposi
( dal cap. III )

venerdì 7 giugno 2019

I gatti dell'Arena di Verona


Per radio, Giuliano Montaldo racconta della sua regia per la Turandot di Puccini a Verona, nei primi anni '70: scoprì che l'Arena era piena di gatti, gatti magnifici che però sparivano ai primi suoni delle percussioni.  «Ci si potrebbe fare un bel cartone animato, sul rapporto fra i gatti e i tamburi..»
(da Radiotre, ottobre 2007)


(postcard, Landor 1900ca)

mercoledì 5 giugno 2019

Il gatto di Mozart



Il gatto di Mozart porta il numero K625 nel catalogo delle sue opere; un catalogo curato non da lui in persona, dove K sta per il nome del musicologo che ne curò la pubblicazione (Ludwig von Köchel, nel 1862) mettendo insieme tutto ciò che era possibile trovare di Mozart, dai capolavori più famosi a Mozart bambino, fino ai più semplici fogli d'appunti. Il numero K625 è appunto un foglio con un brevissimo duetto in tedesco dove il marito dice "Ora, cara mogliettina" e la moglie risponde "miao miao". Molto simpatico, scritto per Schikaneder (impresario e cantante, autore del libretto per "Il flauto magico") e per la sua Papagena (la signora Gerl); ma secondo Abert (biografo di Mozart) è troppo poco per capire cosa stesse per nascere, forse Mozart ha solo ritoccato un'idea di Schikaneder. (informazioni da "Mozart - il catalogo è questo" di Poggi e Vallora, edizione Einaudi, pagina 716)
qui per l'ascolto

(immagine trovata on line senza indicazioni sull'autore)


lunedì 3 giugno 2019

La Basilicata di Imma Tataranni




La Basilicata era lunatica. Proprio. Non lunare, lunatica. D'inverno tutta ingrugnita e malinconica, con quei campi marrone scuro a perdita d'occhio, sfumati all'orizzonte in un velo di nebbia che faceva cadere le braccia, Poi nel giro di un paio di settimane eccola diventar soave e ridente come se ci avessero steso sopra un tappeto verde tutto istoriato di fiori, e stavi appena prendendo fiato che te la ritrovavi gialla e arsa come l'inferno, tenebrosa per la troppa luce e il sole torrido che picchiava sui calanchi o sulla pietra bianca dei paesi, producendo un boato talmente forte da oltrepassare il muro del suono.

Mariolina Venezia, Rione Serra Venerdì, Einaudi 

sabato 1 giugno 2019

Zeffiro spira


Zeffiro spira e il bel tempo rimena; Amor promette gaudio - agli animali (...)

A parlare così non può essere che un innamorato deluso; e infatti i due versi successivi lo spiegano con chiarezza: "ognun vive contento io mi lamento, che Amor m'ha fatto albergo di tormento".
Siamo a Venezia, nel 1509, quando Franciscus Bossinensis pubblica il "Libro Primo delle Frottole"; e "frottola" è da intendersi come componimento poetico e musicale. In questo libro si trovano molte di quelle che oggi chiameremmo canzoni, ma scritte in stile alto e da grandi compositori di quel tempo. Nomi che oggi diranno poco alla maggior parte di noi, ma personaggi chiave nella storia della Musica: i veronesi Marchetto Cara e Bartolomeo Tromboncino, per esempio, attivi a Mantova alla corte dei Gonzaga. Tromboncino è con ogni probabilità un soprannome, il nome di uno strumentista; ci ha lasciato composizioni molto complesse, messe e polifonia, ma anche cose semplici e belle come questa:

Zephiro spira e il bel tempo rimena
Amor promette gaudio agli animali
ogni un vive contento io me lamento
che Amor m'ha fatto albergo di tormento.
L'ampia campagna dei bei fiori è piena
ogni cor si prepara ai dolci strali;
Progne scordàta dell'antica pena
verso il nostro orizzonte spiega l'ali.
Ogni un vive contento io me lamento
che Amor m'ha fatto albergo di tormento.

(Bartolomeo Tromboncino, 1470 circa a Verona-dopo il 1535 forse Venezia),
(qui nell'esecuzione di Roberta Invernizzi e dell'Accademia Strumentale Italiana diretta da Alberto 
Rasi)




Qualche notizia sulla frottola, presa dalla Garzantina della Musica (che riserva a questo termine una voce molto più estesa): forma poetica e poi musicale, polifonica e di origine popolare, diffusa tra 400 e 500, eseguibile anche come canto monodico. Deriva dalla ballata, è affine allo spagnolo villancico; Marchetto Cara e Tromboncino furono i più attivi in questo genere, alla corte dei Gonzaga. Altre forme simili: barzelletta, capitolo, ode, strambotto, eccetera. Queste forme popolari di poesia e musica influenzarono poi la nascita del madrigale secentesco, come questa di Monteverdi su testo di Francesco Petrarca. (per chi non se lo ricordasse: Progne fu trasformata in rondine, Filomena è l'usignolo)

Zefiro torna e 'l bel tempo rimena
E i fiori e l'herbe, sua dolce famiglia,
E garrir Progne e piagner Filomena,
E Primavera candida e vermiglia.
Ridono i prati e 'l ciel si rasserena,
Giove s'allegra di mirar sua figlia,
L'aria e l'acqua e la terra è d'amor piena,
Ogni animal d'amar si racconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i più gravi
Sospiri che dal cor profondo tragge
Quella ch'al Ciel se ne portò le chiavi;
E cantar augelletti, e fiorir piagge,
E 'n belle donne honeste atti soavi
Sono un deserto e fere aspre e selvaggie.

Francesco Petrarca, dal Sesto Libro de' Madrigali di Claudio Monteverdi
(qui per l'ascolto)