Lei allora cercava un informatore che
da bambino avesse vissuto dove la pianta cresceva, e scopriva che
dopotutto un nome ce l'aveva. Il «cuore arido» dell'Australia,
disse, era un mosaico di microclimi, dove diversi erano i minerali
nel terreno e diversi gli animali e le piante. Un uomo cresciuto nel
deserto conosceva a menadito la sua flora e la sua fauna, sapeva
quale pianta attirava la selvaggina, sapeva che acqua bere. Sapeva
dove sottoterra c'erano dei tuberi. In altre parole, dando un nome a tutte le "cose"
del suo territorio, un uomo poteva sempre contare di sopravvivere.
«Ma se lo porti in un'altra regione
con gli occhi bendati, - disse - magari va a finire che si perde e
muore di fame». « Perché ha perso i suoi punti di riferimento?».
« Sì.»
« Ossia l'uomo “crea” il suo
territorio dando un nome alle “cose" che ci sono?»
« Proprio così.» Il suo volto si
illuminò.
«Quindi è possibile che il
presupposto di una lingua universale non sia mai esistito?».
«Sì ». Ancora oggi, disse Wendy,
quando una madre aborigena nota nel suo bambino i primi risvegli
della parola, gli fa toccare le "cose" di quella
particolare regione: le foglie, i frutti, gli insetti e così via. Il
bambino, attaccato al petto della madre, giocherella con la "cosa",
le parla, prova a morderla, impara il suo nome, lo ripete - e infine
la mette in un Canto.
« Noi diamo ai nostri figli fucili e
giochi elettronici» disse Wendy.« Loro gli hanno dato la terra».
Bruce Chatwin, Le vie dei canti,
pag.283 traduzione di Silvia Gariglio, ed.Adelphi 1991
(disegni di Hoefnagel, scrittura di Bocskay; 1525)
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