mercoledì 29 marzo 2017

Storia di fantasmi


Attaccate al muro del locale c’erano le tre ruote di una macchinetta a gettone, ciascuna delle quali numerata da uno a dieci. Con aria drammatica annunciai, tra il serio e il faceto, che mi sentivo in possesso di una straordinaria forza psichica: avrei fatto girare le tre ruote, e la prima si sarebbe fermata sul nove, la seconda sul quattro e la terza sul sette. E, vedi caso, la prima ruota si fermò sul nove, la seconda sul quattro e la terza sul sette: una probabilità su un milione. Wells disse che si trattava di una pura coincidenza. «Ma quando si ripete la coincidenza merita un esame più approfondito» dissi io, e gli raccontai ciò che mi era accaduto da ragazzo. Passando davanti a una drogheria di Camberwell Road notai che, cosa insolita, le serrande erano chiuse. Qualcosa mi spinse ad arrampicarmi sul davanzale per sbirciare nell’interno dal foro romboidale della serranda. Dentro il locale era buio e deserto, ma le mercanzie erano tutte al loro posto, e al centro del pavimento scorsi un’enorme cassa da imballaggio. Balzai giù dal davanzale con un senso di repugnanza e ripresi la mia strada. Poco dopo si diffuse la notizia di un delitto. Edgar Edwards, un vecchio e gentilissimo signore di sessantacinque anni, si era impadronito di cinque drogherie uccidendone i proprietari con un contrappeso di finestra e prendendo il loro posto. In quella bottega di Camberwell, dentro alla cassa da imballaggio, c’erano le sue ultime tre vittime: i coniugi Darby e il figlioletto.


Ma Wells non si lasciò convincere; disse che nella vita di tutti si verificavano ordinariamente numerose coincidenze, e che ciò non dimostrava proprio nulla. La discussione finì lì, ma avrei potuto raccontargli un’altra esperienza, di quando, da ragazzo, mi fermai a chiedere un bicchier d’acqua in un bar di London Bridge Road. Mi servì un signore amabile, cordiale, con un paio di baffi neri. Chissà perché, non riuscii a bere. Finsi di deglutire, ma appena l‘uomo si voltò per rispondere a un cliente posai il bicchiere e uscii. Due settimane dopo George Chapman, proprietario del pub Grown in London Bridge Road, fu accusato di avere assassinato cinque mogli avvelenandole con la stricnina. La sua ultima vittima era morta in una stanza sopra il locale il giorno in cui mi diede quel bicchier d’acqua. Sia Chapman che Edwards furono impiccati.

A proposito di queste esoteriche esperienze, circa un anno prima di costruirmi una casa a Beverly Hills ricevetti una lettera anonima, l'estensore della quale asseriva di essere un indovino e di avere visto, in sogno, una casa appollaiata in cima a una collina, fronteggiata da un prato che finiva a punta come la prua di una barca, una casa con quaranta finestre e un'ampia sala da concerti con soffitto alto. Il terreno era il luogo sacro sul quale antiche tribù indiane avevano fatto sacrifici umani duemila anni prima. La casa era infestata dagli spiriti e non avrebbe mai dovuto restare al buio. La lettera asseriva che finché io non vi fossi rimasto solo, e la luce avesse continuato a splendere, gli spiriti non si sarebbero fatti vivi.
Allora, convintissimo che fosse opera di un pazzo, riposi la lettera in un cassetto per conservarla, tanto era bizzarra e divertente. Ma riesaminando certe carte, due anni dopo, mi capitò tra le mani e la rilessi. Fatto strano, la descrizione della casa e del prato corrispondeva. Non avevo contato le finestre e pensai di farlo: con stupore constatai che erano proprio quaranta. Pur non credendo ai fantasmi, decisi di fare la prova. Quella del mercoledì era la serata libera dei domestici: la casa rimase vuota e io andai a cena fuori. Subito dopo cena tornai a casa ed entrai nella sala dell’organo, che era lunga e stretta come la navata di una chiesa e aveva un soffitto gotico. Dopo avere tirato le tendine, spensi ogni luce. Poi, raggiunta a tentoni una poltrona, sedetti in silenzio per dieci minuti buoni. Il buio fitto mi stimolò i sensi ed ebbi l’impressione che forme dai vaghi contorni mi fluttuassero davanti agli occhi; ma compresi subito che era la luna: filtrando da un sottilissimo spacco delle tendine, si specchiava in una caraffa di cristallo. Accostai meglio le tendine e le forme indistinte scomparvero.
Poi, sempre al buio, mi rimisi ad aspettare: trascorsero forse cinque minuti. Visto che non accadeva nulla, cominciai a parlare ad alta voce: «Se qui ci sono degli spiriti, sono pregati di farsi vedere». Attesi un altro po’, ma non accadde nulla. Allora ripresi: «Non c'è modo di mettersi in comunicazione? Magari con un segno, un colpo, o attraverso la mia mente, suggerendole di farmi scrivere qualcosa, o forse basterebbe una corrente d’aria gelida per indicare una presenza».

Rimasi là seduto per altri cinque minuti, ma non vi furono correnti d’aria né altre manifestazioni. Il silenzio era assordante e io avevo la mente vuota. Finalmente mi arresi e, rinunciando ai miei propositi, accesi un lume. Poi entrai nel soggiorno. Le tendine non erano state tirate e la luna illuminava il pianoforte, che spiccava sullo sfondo buio. Mi sedetti e cominciai a passare le dita sui tasti. Finalmente trovai un accordo che mi affascinò, e lo ripetei diverse volte fino a far vibrare la stanza intera. Perché? Forse era questo il segno che cercavo! Continuai a ripetere l’accordo. A un tratto una bianca riga di luce mi avvolse all'altezza della cintura. Balzai come un grillo dal pianoforte e rimasi in piedi, col cuore che mi batteva come un tamburo.
Quando mi fui rinfrancato, cercai di ragionare. Il piano si trovava in una nicchia vicino alla finestra. Allora mi resi conto che quella che avevo creduto una cintura di ectoplasma era la luce di un’automobile che scendeva il versante della collina. Per convincermi, tornai a sedermi al piano e ripetei diverse volte lo stesso accordo. All’altro capo del soggiorno c’era un corridoio buio e, oltre il corridoio, la porta della sala da pranzo. Con la coda dell’occhio vidi aprirsi la porta e qualcosa uscire dalla sala da pranzo e attraversare il corridoio buio, un mostro grottesco, nano, con gli occhi cerchiati di bianco come un pagliaccio, che si dirigeva ondeggiando verso la sala dell’organo. Prima che potessi voltare la testa era sparito.
Inorridito, mi alzai e cercai d‘inseguirlo, ma era scomparso. Convinto che, nel mio nervosismo, un batter di ciglia avesse potuto create l’illusione, mi rimisi a suonare il piano. Ma non accadde nient’altro e allora decisi di andare a letto. Infilai il pigiama ed entrai nel bagno. Quando accesi la luce vidi il fantasma seduto nella vasca che mi guardava! Mi tuffai quasi orizzontalmente fuori dalla porta. Era una puzzola! La stessa creaturina che avevo visto con la coda dell’occhio, solo che al pianterreno mi era parsa più grande. Al mattino il maggiordomo mise in una gabbia la bestiola spaventata. Finimmo per addomesticarla. Ma un giorno scomparve e non la rivedemmo mai più.
Charlie Chaplin, Autobiografia, pagine 368-370 ed. Oscar Mondadori 1977, traduzione Vincenzo Mantovani
 (illustrazioni di Lajos Gulacsny, Igor Oleinikov, Wilfried Jenkins)
al nome "puzzola" corrispondono due specie molto diverse: in Europa diamo quel nome a Mustela putorius, cioè al furetto; in America invece esiste la moffetta. Non conosco l'originale di Chaplin, ma così a occhio io direi che si trattava di una moffetta...





2 commenti:

  1. sì, in effetti mi ricordava qualcosa ma non riuscivo a pensare a chi :-)
    è un bel libro, l'autobiografia di Charlie Chaplin, pieno di pagine sensate. Io l'ho letto volentieri, però bisogna sapersi districare nella storia del Cinema, ricordarsi i nomi. In questo può aiutare internet.
    (Nell'ultima foto c'è una moffetta al guinzaglio)

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