Mervyn Peake, Autoritratto -1932- |
Poi, reggendo la candela che illuminava il suo viso e tre gradini alla volta, Fucsia iniziò l’ascesa verso il suo regno segreto.
Salendo per le volute di tenebra, il suo corpo s’impregnava di trepidazioni spossanti, come una pianta al sopraggiunger dell’aprile. Il cuore le batteva da spezzarsi.
Era un amore, il suo, intenso e profondo come l’amore dell’uomo per la donna. Come l’amore dell’uomo o della donna per il proprio mondo, per il mondo che è al centro del loro essere, il punto in cui la fiamma della vita arde finalmente libera e intatta.
L’amore del tuffatore per il suo mondo di luci vaganti, di perle e di alghe, col fiato che urge nel petto. Nato nell’istante stesso del tuffo, egli si riconosce in ogni sciame di pesci verdicci, nei colori delle spugne, e quando posa sul fondo fatato dell’oceano, la mano stretta a una costola insabbiata di balena, egli è completo e infinito. Vita, energia e universo pulsano all’unisono nel suo corpo. Amore.
L’amore del pittore, solo, davanti alla grande superficie colorata che sta creando. La tela, ritta di fronte a lui, gli rimanda forme incerte, interrotte, agitate da un ritmo nuovo, tra il soffitto e il pavimento. Tubetti contorti, colore fresco spremuto e spalmato sul secco della tavolozza, polvere sotto il cavalletto, bave di colore sul manico dei pennelli. La luce, bianca in un cielo nordico, tace. La finestra è spalancata e l’uomo respira l’odore del suo mondo. Il suo mondo: una stanza d’affitto, acqua ragia. L’uomo avanza verso la creatura che sta per nascere. Amore.
La terra grassa si sbriciola tra le dita del contadino. «Qui, finalmente» mormora il pescatore di perle muovendosi lieve tra strane luci acquoree, e il pittore, sulla zattera solitaria della sua soffitta, bisbiglia: «Io sono io», e con loro il lento villano sul suo acro di terra, e con loro la bruna Fucsia sulla scala ricurva, dicono: «Qui, finalmente»
Fucsia saliva, sfiorando con la destra la parete di legno, e salendo sentiva di essere una cosa sola con la scala a spirale e il solaio. Incontrò l'attesa asse sconnessa e seppe che rimanevano solo diciotto gradini: altri due giri e il solaio l'avrebbe accolta con il suo indescrivibile crepuscolo grigio-oro.
Mervyn Peake, Tito di Gormenghast, ed. Adelphi
trad.di Anna Ravano
Mervyn Peake, Tito di Gormenghast, ed. Adelphi
trad.di Anna Ravano
Mervyn Peake, Fuchsia |
Bellissimo e molto vero (anche se con quell'intensità non credo di averlo mai sperimentato). Bisognerà leggerlo per intero questo Mervyn Peake. Grazie intanto dell'assaggio :-)
RispondiElimina...ho comprato anche gli altri due volumi della serie:-) Ho trovato molte analogie con un'altra trilogia: "I nostri antenati". Penso che Calvino abbia letto Peake prima di scriverla. Proprio Fucsia, ad un certo punto della storia, dice di voler vivere sugli alberi ( come Cosimo di Rondò ); il suo stesso nome, inoltre, richiama quello di Viola, il personaggio femminile del Barone rampante. Ai margini della rocca di Gormenghast vive una comunità a cui è interdetto l'accesso al castello: ciò richiama la comunità dei lebbrosi del Visconte dimezzato. La madre di Fucsia comunica con gli uccelli e ne è costantemente circondata, così come il padre del Medardo calviniano. Tutti i personaggi vivono nel chiuso del proprio mondo ma la determinazione che hanno nel difenderlo finisce per convincere il lettore a seguirli e a partecipare alle loro storie. Una bella lettura! Penso di capire perché Mari abbia una predilezione per Peake. L'autore crea un mondo chiuso, autistico e dà al lettore una chiave d'accesso..
RispondiEliminaGrazie a te Elena! Un caro saluto:-)
Interessante questa ipotesi su Calvino, in effetti le coincidenze sembrano troppe per essere casuali. Quadrerebbe anche col personaggio: Calvino non era precisamente un creativo in proprio.
Elimina(Però Peake, per quel che l'ho letto, mi è sembrato meno didascalico e più surrealista, uno che tende più alla visione che all'allegoria).
Un salutone e a presto!
Sì, le analogie sono tante e ho omesso nel precedente commento forse quella più lampante; il conte di Gormenghast fa pensare al protagonista del Cavaliere inesistente, Agilulfo, che, prigioniero di un’idea assoluta di sè e del mondo, si sottrae al rapporto, al contatto diretto con la realtà. Come Agilulfo, il Conte di Gormenghast è ligio alle regole connesse alla sua condizione e tiene sempre desta la coscienza del proprio ruolo osservando minuziosi cerimoniali, attraverso i quali può garantire continuità alla propria ideale funzione. Nel momento in cui Agilulfo e Il conte di Gormenghast sono privati delle loro certezze, si dissolvono, svaniscono, così come l’idea che sorreggeva la loro volontà e la loro disumana solitudine.
RispondiEliminap.s.
Ho iniziato a leggere i racconti di Mari ( Euridice aveva un cane ). Domani vengo a leggere cosa hai scritto:-)
il Cavaliere Inesistente di Calvino mi è tornato alla memoria anche rileggendo Il Codice di Perelà, di Aldo Palazzeschi, che è dei primi del '900 (mi pare 1911). Perelà è fatto di fumo, e svanisce quando si rende conto che non può fare nulla su questo mondo.
RispondiEliminaRicordo di aver letto che Calvino scrisse la Trilogia anche per rappresentare il modo di porsi di certi intellettuali. Perelà è fatto di fumo e lo si perdona. Più difficile è passar sopra a persone in carne e ossa incapaci di decifrare la propria e l'altrui condizione se non facendosi forti di astrazioni inconsistenti e, nella loro irrealtà, disumane..
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