martedì 27 febbraio 2018

Fauno


Dopo qualche momento capì che non era il trillo di un uccello. Nessun uccello avrebbe mai cantato una melodia cosi precisa, perché il loro canto è capriccioso come le loro ali. Si drizzò a sedere e guardò intorno, ma non vide nulla: al di sopra del suo capo le colline salivano con dolce pendio su su, verso il cielo limpido; intorno a lei gli sparsi cespugli di erica sonnecchiavano nel sole; sotto di lei, in lontananza, poteva vedere la casa di suo padre, una macchia grigia accanto a un ciuffo di alberi - e poi la musica finì, lasciandola ai suoi stupiti interrogativi.
Per quanto cercasse, non riuscì a trovare le sue capre. Infine tornarono spontaneamente da dietro un colle, sfrenate e sovreccitate come non le aveva mai viste. Anche le mucche persero la loro solita aria solenne e le girarono intorno abbandonandosi a goffi salti.
Mentre tornava a casa, quella sera, una strana esultanza insegnò ai suoi piedi a danzare. Essa volteggiava qua e là ora precedendo le sue bestie, ora seguendole. I suoi piedi saltellavano battendo un ritmo capriccioso. Aveva un motivo nelle orecchie e ballava con esso, buttando le braccia in fuori e al di sopra del capo, e ondeggiando e piegandosi nell'andare. Ora il suo corpo godeva della sua piena libertà: l'agilità, l’equilibrio e la sicurezza delle sue membra la incantavano, e anche la forza che non conosceva stanchezza la incantava. Il tardo pomeriggio era pieno di una pace serena, la dolce luce crepuscolare del sole disegnava un sentiero per i suoi piedi, e la vastità dei campi era tutta un volo di uccelli che sfrecciavano e cantavano, e lei cantava con loro un canto che non aveva parole, e non aveva bisogno di parole.


(Tiziano, le tre età)

L'indomani sentì di nuovo quella musica, fievole e vaga, meravigliosamente dolce eppure sfrenata come il canto di un uccello, ma era una melodia che nessun uccello avrebbe saputo ripetere. C’era un tema che tornava sempre. In un fiotto di trilli, passaggi, volate e ritornelli, eccolo riaffiorare con una solennità strana, quasi sacra - una melodia che imponeva il silenzio, sottile, estremamente austera e distaccata. C'era in essa qualcosa che le faceva battere il cuore, qualcosa verso cui le sue orecchie e le sue labbra si tendevano con desiderio. Era gioia, minaccia, spensieratezza? Non lo sapeva; ma una cosa sapeva: che per quanto terribile fosse, era soltanto sua. Era il suo pensiero non nato divenuto misteriosamente suono, e sentito con l'anima più che compreso con la mente.

Anche quel giorno non vide nessuno. La sera, svogliatamente, riportò a casa le bestie affidate alle sue cure, e anche loro erano molto tranquille. Quando sentì di nuovo quella musica, non fece nulla per scoprire di dove venisse. Si limitò ad ascoltare, e quando la melodia finì vide sorgere, dalla piega di un piccolo colle, una figura d’uomo. La luce del sole scintillava sulle sue braccia e sulle sue spalle, ma il resto del corpo era nascosto dalle felci, e l'uomo, sonando dolcemente una zampogna, si allontanò senza guardare verso di lei. Ma la guardò l’indomani. Si fermò tra l’erba che lo copriva sino alla vita e rimase a fissarla. Lei non aveva mai visto una faccia così strana. I suoi occhi quasi morirono in lui mentre lo guardava, e per un lungo minuto lui la fissò a sua volta con uno sguardo assorto e inespressivo. I suoi capelli erano un intrico di riccioli bruni, il naso era piccolo e dritto, la bocca larga aveva una piega triste agli angoli. Gli occhi erano grandi e desolati, la fronte molto vasta e bianca. Quegli occhi e quella bocca così tristi la fecero quasi piangere.
Quando si volse per andarsene le sorrise, e fu come se tutt’a un tratto il sole sfolgorasse in un luogo buio scacciandone tutta la tristezza e la tetraggine. Poi si allontanò a piccoli passi. Nell’andare si portò alle labbra la sottile zampogna e ne trasse qualche nota spensierata.


(Waterhouse, 1911)

L'indomani si fermò a poca distanza da lei come il giorno prima, guardandola negli occhi. Suonò solo per pochi istanti e in modo capriccioso, poi le andò vicino. Quando uscì dalle felci, la ragazza tutt’a un tratto si coprì gli occhi con le mani, spaventata. C'era qualcosa di diverso, in lui, di terribile. La parte superiore del suo corpo era bella, ma la parte inferiore... Non osava più guardarlo. Avrebbe voluto alzarsi e scappar via, ma temeva che lui le corresse dietro, e l’idea di quell’inseguimento e dell’inevitabile cattura le gelava il sangue.
L’idea di avere qualcosa alle spalle è sempre terribile. Il suono dei passi che ci inseguono è più atroce dell’assassinio dal quale fuggiamo... Così rimase immobile ad aspettare, ma non accadde nulla. Infine, disperatamente, abbassò le mani. Lui si era seduto sul terreno, a pochi passi da lei. Non la guardava; era girato di profilo, e fissava gli occhi verso l'ampia collina. Teneva le gambe incrociate; erano pelose e coi piedi a zoccolo come quelle di una capra; ma lei non le guardava, tutta presa da quella straordinaria faccia triste, grottesca. La gaiezza è bella da vedere e un viso innocente rallegra l’anima, ma non c'è donna che possa resistere alla malinconia o alla debolezza, e che osi resistere alla bruttezza. La sua natura la spinge a essere la consolatrice. E' la sua ragione di vita. Ciò la innalza a uno stato di estasi dove più nulla ha valore all’infuori del sacrificio di sé. Gli uomini non sono padri per istinto ma per caso; la donna è madre al di là del pensiero, al di là dell’istinto che è il padre del pensiero. Maternità, compassione, sacrificio di sé - ecco le spinte della sua cellula originaria, e nemmeno la scoperta che gli uomini sono commedianti, bugiardi ed egoisti può farla cambiare. Mentre guardava quel viso così patetico, lei cancellava l'aspetto orribile di quel corpo. Le donne giustificano la bestia che esiste in ogni uomo: è il suo lato infantile, l'energia distruttiva inseparabile dalla giovinezza e dall’entusiasmo, e le donne la perdonano sempre, spesso la dimenticano, talvolta, non di rado, la vezzeggiano e la incoraggiano.
Dopo qualche momento di silenzio, lui si portò alle labbra la zampogna e suonò un motivo triste; poi parlò con voce strana, simile a un vento che venisse da lontano.
- Come ti chiami, pastorella? - le domandò.


James Stephens, La pentola dell'oro, cap.VI traduzione Adriana Motti, ed. Adelphi


6 commenti:

  1. Ora DEVO sapere come continua. Che scrittura meravigliosa :-)

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  2. è un bel libro, si legge in fretta anche se con qualche pesantezza "filosofica" nella parte centrale. E' anche molto divertente :-)
    James Stephens è coetaneo di Joyce e suo amico

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  3. Accidenti, che pezzo.
    Ho comprato La pentola dell'oro tempo fa, quando mi hai consigliato Stephens. Spero di potermi mettere presto alla lettura :-)

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  4. troverai tante sorprese :-)
    i personaggi sono tanti

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  5. Anch'io sono curiosa di conoscerne l'epilogo. Vedrò di trovarlo.

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  6. va tutto a finire bene, non c'è da preoccuparsi :-)

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