illustrazione di E. Luzzati |
— Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà
quando mi vedrà?… Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?… Scommetto che
non me la perdona!… oh! non me la perdona di certo!… E mi sta il dovere: perchè
io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!… ―
Arrivò al paese che era già notte buia; e perchè faceva
tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa
della Fata, coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.
Ma quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di
bussare, si allontanò, correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda
volta alla porta, e non concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta e nulla:
la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano, e bussò un
piccolo colpettino.
Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una
finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide
affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale
disse:
— La Fata è in casa? — domandò il burattino.
— La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?
— Sono io!
— Chi io?
— Pinocchio.
— Chi Pinocchio?
— Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.
illustrazione di G. Porcheddu |
— Ah! ho capito; — disse la Lumaca — aspettami costì, che ora
scendo giù e ti apro subito.
— Spicciatevi, per carità, perchè io muoio dal freddo.
— Ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non hanno
mai fretta. —
Intanto passò un’ora, ne passarono due e la porta non si
apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che
aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte.
A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto
e si affacciò la solita Lumaca.
— Lumachina bella, — gridò Pinocchio dalla strada, — sono
due ore che aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di
due anni. Spicciatevi, per carità.
— Ragazzo mio — gli rispose dalla finestra quella bestiuola
tutta pace e tutta flemma — ragazzo mio, io sono una Lumaca, e le Lumache non
hanno mai fretta. — E la finestra si richiuse.
Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due
dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.
Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il
battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il
casamento; ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla
viva, che sgusciandogli dalle mani sparì in un rigagnolo d’acqua, che scorreva
in mezzo alla strada.
— Ah, sì? — gridò Pinocchio sempre più accecato dalla
collera. — Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. —
E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima
pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel
legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta
fatica inutile, perchè il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo
ribadito.
Figuratevi il povero Pinocchio! Dovè passare tutto il resto
della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria.
La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì.
Quella brava bestiuola della Lumaca, a
— Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? —
domandò ridendo al burattino.
— È stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se
vi riesce di liberarmi da questo supplizio.
― Ragazzo mio, costì ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai
fatto la legnaiola.
— Pregate la Fata da parte mia!…
— La Fata dorme e non vuol essere svegliata.
— Ma che cosa volete che io faccia, inchiodato tutto il
giorno a questa porta?
— Divertiti a contare le formicole che passano per la
strada.
— Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perchè mi sento
rifinito.
— Subito! — disse la Lumaca.
Difatti dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide tornare con
un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e
quattro albicocche mature.
— Ecco la colazione che vi manda la Fata — disse la Lumaca.
Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì
consolarsi tutto. Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a
mangiare, si dovè accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e
le quattro albicocche di alabastro, colorite, come se fossero vere.
Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva
buttar via il vassoio e quel che c’era dentro; ma invece, o fosse il gran
dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata
era accanto a lui.
— Anche per questa volta ti perdono: — gli disse la Fata —
ma guai a te, se me ne fai un’altra delle tue!… —
Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si
sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto
dell’anno. Difatti agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più
bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così
lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:
— Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!
— Cioè?
— Domani finirai di essere un burattino di legno, e
diventerai un ragazzo per bene.—
Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia
tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di
scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa
della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva
fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati
di dentro e di fuori. Quella giornata prometteva di riuscire molto bella e
molto allegra: ma....
Disgraziatamente, nella vita dei burattini, c’è sempre un
ma, che sciupa ogni cosa.
C. Collodi, Le avventure di Pinocchio
C. Collodi, Le avventure di Pinocchio
Nessun commento:
Posta un commento