Emanuele Kant riconosceva due
meraviglie nel creato: il cielo stellato sopra il suo capo, e la
legge morale dentro di lui. Lasciamo da parte la legge morale: abita
in tutti? E' vero, si può ammettere che sia congenita in noi, nasca
con noi, e nel corso di ogni singola vita si evolva e maturi, o
invece degeneri e si spenga? Ogni anno che passa accresce i nostri
dubbi; davanti alla necrosi politica che affligge il nostro Paese, e
non solo il nostro; davanti alla corsa insensata verso il riarmo
nucleare, non si sfugge al sospetto che sulla legge morale prevalga
un principio perverso, per cui acquista potere chi di questa legge,
che sentiamo unica in ogni tempo e luogo, cemento di tutte le
civiltà, non sa che farsene e non ne percepisce il pungolo, é senza
e sta bene senza. Il cielo stellato invece rimane: sta
sul capo di tutti, anche se noi cittadini lo possiamo vedere di rado,
offuscato dai nostri fumi, stretto fra i tetti, offeso dalle antenne
Tv. (...)
Quando
lo scorgiamo nelle notti serene, da un qualche osservatorio lontano
dalle nostre luci disturbatrici, è ancora sempre quello: il suo
fascino non è mutato. Le «vaghe stelle dell’Orsa» sono quelle
che ridavano pace a Leopardi, la W di Cassiopea, la Croce del Cigno,
Orione gigantesco, il triangolo di Boote affiancato dalla Corona e
dalle Pleiadi care a Saffo, sono ancora sempre quelli, abbiamo
imparato a conoscerli da bambini e ci hanno accompagnato per tutta la
vita. E' il cielo "delle stelle fisse", immutabile,
incorruttibile; l'antagonista del nostro mondo terrestre, il
nobile-perfetto-eterno che abbraccia e avvolge
l’ignobile-mutevole-effimero.
E invece non ci è più lecito guardare
alle stelle così, in questo modo ingenuo e riduttivo. Il cielo
dell’uomo d'oggi non è più quello. Abbiamo imparato ad esplorarlo
con i radiotelescopi, ed a mandare in orbita strumenti capaci di
cogliere le radiazioni che l'atmosfera intercetta: ora siamo
obbligati a sapere che le stelle visibili dai nostri occhi, nudi od
aiutati, sono una minoranza esigua; il cielo si sta rapidamente
popolando di una folla di oggetti nuovi, insospettati.
Cent’anni fa, l’universo era
puramente ottico; non era molto misterioso, e si riteneva che lo
sarebbe diventato sempre meno. Appariva amico e
domestico: ogni stella era un sole come il nostro, più grande o più
piccola, più calda o meno, ma non eterogenea; alcune erano in realtà
un po’ inquiete, qualche stella nuova era comparsa, ma tutto faceva
pensare che il disegno dell'universo fosse dappertutto lo stesso. Gli
spettroscopi mandavano messaggi rassicuranti: niente paura, nelle
stelle c’era idrogeno, elio, magnesio, sodio, ferro, le materie
prime dei chimici nostrani. Si riteneva probabile che ogni
stella-sole avesse il suo corteggio di pianeti: alcuni astronomi
(primo fra tutti Camille Flammarion, il divulgatore infaticabile ed
entusiasta) asserivano anzi che doveva averlo, altrimenti non avrebbe
avuto ragione d’esistere. Infatti ogni pianeta, ivi compresi quelli
del nostro Sole, doveva essere albergo di vita, o esserlo stato, o
essere destinato a diventarlo in futuro: osservatori dagli occhi
troppo acuti vedevano sulla Luna fumi e luci fugaci, e su Marte reti
di canali troppo regolari e geometrici per essere opera solo della
natura. Un universo abitato solo da noi, così imperfetti, sarebbe
stato un'immensa macchina inutile.
Ora il cielo che pende sopra il nostro
capo non è più domestico. Si fa sempre più intricato, imprevisto,
violento e strano; il suo mistero cresce invece di ridursi, ogni
scoperta, ogni risposta alle vecchie domande fa nascere miriadi di
domande nuove. Copernico e Galileo avevano sbalzato l'umanità dal
centro del creato: non era stato che un trasloco, da cui pure molti
si erano sentiti destituiti ed umiliati. Oggi ci accorgiamo di ben
altro: che la fantasia dell’artefice dell’universo non ha i
nostri confini, anzi, non ha confini, e sconfinato diventa anche il
nostro stupore. Non solo non siamo il centro del cosmo, ma ne siamo
estranei: siamo una singolarità. E' strano l’universo per noi, noi
siamo strani per l’universo.
Generazioni di amanti e di poeti
avevano guardato alle stelle con confidenza, come a visi famigliari:
erano simboli amici, rassicuranti, dispensatori di destini
immancabili nella poesia popolare ed in quella sublime; con la parola
"stelle" Dante aveva terminato le tre cantiche del suo
poema. Le stelle d’oggi, visibili ed invisibili, hanno mutato
natura. Sono fornaci atomiche. Non ci trasmettono messaggi di pace né
di poesia, bensì altri messaggi, ponderosi ed inquietanti,
decifrabili da pochi iniziati, controversi, alieni.
L'anagrafe dei mostri celesti si
allunga a dismisura: a descriverli, il nostro linguaggio di tutti i
giorni fallisce, è inetto.(...)
Non è ancora nato, e forse non nascerà
mai, il poeta-scienziato capace di estrarre armonia da questo oscuro
groviglio, di renderlo compatibile, confrontabile, assimilabile alla
nostra cultura tradizionale ed all'esperienza dei nostri poveri
cinque sensi fatti per guidarci entro gli orizzonti terrestri. Queste
notizie dal cielo sono una sfida alla nostra ragione.
E' una sfida da accettare. La nostra
nobiltà di fuscelli pensanti ce lo impone: forse il cielo non farà
più parte del nostro patrimonio poetico, ma sarà, anzi è già,
nutrimento vitale per il pensiero. E' possibile che il nostro
cervello sia un unicum nell'universo: non lo sappiamo, né
probabilmente lo sapremo mai, ma sappiamo già fin d’ora che è un
oggetto più complesso, più difficile a descriversi, che una stella
o un pianeta. Non neghiamogli alimento, non cediamo al panico
dell’ignoto. Forse spetterà a loro, agli studiosi degli astri,
dirci quanto non ci hanno detto, o ci hanno detto male, i profeti ed
i filosofi: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo.
L’avvenire dell'umanità è incerto,
anche nei paesi più prosperi, e la qualità della vita peggiora;
eppure io credo che quanto si va scoprendo sull’infinitamente
grande e sull’infinitamente piccolo sia sufficiente ad assolvere
questa fine di secolo e di millennio. Quanto alcuni pochi stanno
audacemente acquistando nella conoscenza del mondo fisico farà sì
che questo periodo non sarà giudicato un puro ritorno alla barbarie.
Primo Levi, da "L'altrui mestiere" pagine 172-175
illustrazioni: una mappa stellare del 1600; Preissiger 1851, un libro scolastico francese
illustrazioni: una mappa stellare del 1600; Preissiger 1851, un libro scolastico francese
Molto belle anche le illustrazioni!
RispondiEliminaDal profondo nord Si vede meglio Il cielo perche' ci sono talmente pochi abitanti...(cioe' illuminazione artificiale). Come dire: meno legge morale e piu' cielo stellato...
Primo Levi ha scritto queste pagine più di trent'anni fa, le prime righe fanno molto pensare perché sembrano riferirsi all'oggi.
RispondiEliminaQui da noi ormai si fa fatica anche a vedere l'orizzonte...
Si completa il testo con la parte mancante tra le parole INETTO e NON E' ANCORA NATO
RispondiElimina"Ci sono stelle “piccole” ma di densità inimmaginabile, che ruotano decine di volte al secondo sparando nello spazio, da sempre e per sempre, un balbettio radio senza destinatario e senza senso. Altre che emanano energia con intensità superiore a quella dell’intera nostra galassia, e talmente lontane da apparirci quali erano al principio dei tempi. Altre non più calde di una tazza di tè; fino ai troppo chiacchierati buchi neri, frutto per ora più di speculazione che di osservazione, presunte tombe e inghiottitoi celesti, il cui campo gravitazionale sarebbe così intenso da non lasciare uscire né materia né radiazione."