martedì 11 giugno 2019

Il carpino tacque



Al passare della nuvola, il carpino tacque. E' compagno all’olmo, e nella Néa Keltiké lo potano senza remissione fino a crescerne altrettanti pali con il turbante, lungo i sentieri e la polvere: di grezza scorza, e cosi denudati di ramo, han foglie misere e fruste, quasi lacere, che buttano su quei nodi d’in cima. La robinia tacque, senza nobiltà di carme, ignota al fuggitivo pavone delle Driadi, come alla fistola dell’antico bicorne: radice utilitaria e propagativa dedotta in quella campagna dell’Australasia e subito fronzuta e pungente alla tutela dei broli, al sostegno delle ripe. Fu per le cure d’un agronomo che speculava il Progresso e ne diede sicuro il presagio, vaticinando la fine alle querci, agli olmi, o, dentro i forni della calcina, all’antico sognare dei faggi.
Dei quali non favolosi giganti, verso la fine ancora del decimottavo secolo, era oro e porpora sotto ai cieli d’autunno tutta la spalla di là della dolomite di Terepattola, dove di qua strapiomba, irraggiando, sulla turchese livellazione del fondovalle, che conosciamo essere un lago. La calcina, manco a dirlo, per fabbricare le ville, e i muri di cinta alle ville: coi peri a spalliera.
 
(Alexandre Calame, 1854 - querce)

Quella straduccia che il medico doveva risalire andò a lungo nell’ombre, non già dei carpini radi, ma delle robinie senza fine. Dai rametti le frasche si dividevano innùmeri, lodevolmente verdi e però piene di giudizio, animate dal proposito di venir d’esempio all’uomo e di letificarne i rinati municipi, con quell’idea d’ordine e di denaro bene speso ch’era continuamente suggerita dal dispositivo simmetrico. Le fogliolette ellittiche, eguali come tutte le creature dello Standard e dell’Australasia, parevano razionate agli steli da una occhiuta intendenza ed eran degne al certo d’un viale-della-stazione con monumento equestre del generale Pastrufacio; il vittorioso di Santa Rosa. E ogni peduncolo, d’ognuna di quelle frasche, due lunghi aguglioni come due spille di cravatta, uno per parte: che non ne vietano l'assaggio, quando ci capita, alla lingua ottimistica del somaro. Per tal modo, d’attorno la villa e i peri, tutto fu robinia, oltreché banzavòis. Quel parallelopipedo bianco, spalancato ai venti e al zoccolare delle Peppe, la robinia lo stringeva del suo verzicante assedio. Lungo la siesta georgica dei Pirobutirro, d’ogni imagine trionfò la robinia. La sua mediocre puzza la fece considerare utile ai molti; come tutti i prodotti utili e di poca puzza riesce indispensabile, un bel giorno, alla economia collettiva, nelle migliorate speranze della vita maradagalese verso la fine del diciannovesimo secolo. Ed anche a Lukones.
(Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, pagina 52 edizione Einaudi 1984)

2 commenti:

  1. Il Gadda è ingeneroso con le acacie. E' vero che vengono da fuori e hanno soppiantato alberi ben più maestosi, ma garantiscono un verde, seppur a buon mercato. E quando sono fiorite, a mucchio, su intere rive, sembrano una spuma bianca e fantastica.
    D'altra parte non è solo che si sia passati dai faggi e dalle querce alle robinie. Tutto va rovinosamente scadendo in questa parte di mondo...

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    1. con le robinie / acacie si fa un buon miele... non mi ricordo se Gadda parla mai del miele nei suoi libri.
      Qui intorno i boschi erano ormai tutti di robinie, ma adesso al posto delle robinie c'è la pedemontana

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