Un quarto di secolo più tardi, durante
le riprese di Le Fleuve (Il fiume, 1950) avrei scoperto in India
passioni dello stesso genere. E forse è questo che mi ha fatto tanto
affezionare a quel paese. La parola amicizia in India non funziona:
lì ci vuole la parola amore. O ci si ama o ci si detesta. L'amicizia
consiste nell'approfittare della presenza dell'amico, senza dire
niente. A un cane piace stare seduto accanto al padrone, eppure non
si dicono niente. D'altra parte non esistono padroni, né servitori,
negli scambi sentimentali. Le amicizie occidentali invece si
costruiscono su una sorta di baratto. Si vuol bene all'amico perché
ci aiuta negli affari, o perché ci racconta storielle divertenti, o
perché lo ammiriamo. In India capita di incontrare esseri umani che
si amano senza nessuna ragione. L'amico va a trovare l'amico. Entra
discretamente nella stanza dove l'altro sta riposando. Si accovaccia
a terra e, senza dire una parola, resta a guardare l'altro vivere
alcune ore della sua vita. Poi si alza e se ne va, riconfortato da
quella visita.
Il cane si lascia morire sulla tomba
del suo padrone. Non è per devozione, o per riconoscenza. E' perché
l'assenza del padrone crea un vuoto nel quale gli è impossibile
respirare. L'amicizia indiana va al di là del disinteresse. È un
bisogno fisico. E come se esistesse un misterioso radar che
stabilisse tra gli esseri che sentono tra di loro delle affinità un
sistema di comunicazione inconcepibile per i nostri cervelli di
matematici.
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