Nel dicembre del 2000, Gianfranco Lionetti, un noto e apprezzato studioso del territorio materano, rinviene, presso il bacino lacustre di S. Giuliano, dei resti fossili appartenenti ad un cetaceo. Il bacino materano ben si è prestato e si presta alla ricognizione e osservazione di testimonianze di un passato lontano, remoto, in quanto luogo deputato, per la presenza dell’acqua, a garantire la sopravvivenza di uomini e animali.
Ecco come Gianfranco Lionetti, in un articolo pubblicato
sulla rivista “MATHERA” (Anno II n.4 Periodo 21 giugno - 20 settembre 2018 )
racconta la scoperta dei resti del cetaceo:
“ Era il 27 dicembre del 2000; un mattino di un inverno mite (…)L’acqua del lago era bassa e ferma, distava dalle falesie argillose più di 30 metri. La riva orografica sinistra era asciutta e consentiva di percorrere chilometri senza dislivelli, in solitudine. Dallo Iazzo di Porcari mi spinsi fino ai ruderi di Masseria San Francesco su cui sostavano decine di cormorani e pochi aironi cinerini. I gabbiani lanciavano grida che rievocavano le diomedee citate da Omero nell’Odissea. (…)Superato lo Iazzo di Ferri, posto sotto il colle di Vultrino, e quindi la profonda insenatura contigua, percorsi la lunga parete argillosa che segue più a valle. (…) A circa metà della lunghezza della parete argillosa si attraversa una zona dove fino a qualche anno fa si trovavano piccoli gusci di molluschi marini di varia specie e in ottimo stato di conservazione. Vi si rinvenivano anche placche di echinidi e i relativi aculei. Una volta vi trovai due o tre denti di un piccolo squalo. Ora il giacimento è stato totalmente asportato dall’erosione e solo ogni tanto vi si recupera qualche fossile, a parte le comunissime nasse e i “piedi di pellicano”. Su quella parete, inoltre, avevo rinvenuto numerosi boli di pesce che mi davano la certezza che un giorno mi sarei imbattuto in uno strato con ittiofauna fossile. Con le ginocchia appoggiate al suolo, scrutavo con concentrazione fra i detriti vegetali accumulati dalle onde nella speranza di recuperare qualche conchiglia superstite. Superato questo luogo si giunge sotto lo Iazzo di Porcari dove la parete argillosa crollando trascina con sé pinastri e cipressi. Fu proprio sotto alcuni di questi alberi collassati che scorsi qualcosa che attirò la mia attenzione: di primo acchito mi sembrava di avere davanti a me dei frammenti di arenaria meno cementati rispetto ai soliti in cui ci si imbatte in quei paraggi.
Andai oltre, ma dopo qualche decina di metri decisi di tornare indietro. Inforcati gli occhiali mi resi conto che quelli che avevo appena visto non erano blocchi di arenaria: la loro consistenza era, invece, tipica del tessuto osseo: sotto i miei occhi avevo alcuni frammenti di grandi vertebre. Mi guardai intorno e mi resi conto che quei fossili coprivano una superficie di pochi metri quadrati e che oltre alle porzioni vertebrali vi erano anche alcune estremità dorsali di coste. Mi fu subito chiaro che si trattava di un fossile di cetaceo di cui l’erosione idrica aveva messo in luce i distretti ossei più superficiali. L’emozione era grande. Presi il cellulare per chiamare il museo archeologico in cui lavoro *. Parlai con la responsabile a cui riferii la novità e le chiesi il numero della soprintendente. Riferii anche a quest’ultima della scoperta di cui condivise l’emozione. (…) Si complimentò e mi raccomandò, com’è ovvio, il silenzio assoluto in merito alla scoperta, al fine di evitare depredazioni da parte di curiosi e collezionisti. Sapevo che erano giorni particolari, a metà tra il natale e il capodanno, e che il sopralluogo della soprintendente non si sarebbe verificato subito. Il mio primo pensiero fu quello di coprire con erba e rami quelle evidenze affinché altri non le notassero.”Alla scoperta, attestata anche da una documentazione
fotografica, non segue il sopralluogo della Soprintendenza, né nell’immediato,
né negli anni immediatamente successivi alla segnalazione del rinvenimento dei
resti fossili. Nell’articolo già citato, pubblicato sulla rivista “MATHERA”,
così Gianfranco Lionetti riassume l’attesa del sopralluogo:
“Passarono tre anni in attesa di un eventuale riscontro da
parte della soprintendente. Nei miei diari di escursione verificai che in quei
tre anni avevo effettuato, a mie spese e durante il mio tempo libero, 272
sopralluoghi di controllo finalizzati a proteggere come meglio possibile i
resti fossili. Intanto il livello del lago, in conseguenza delle piogge, aveva
ripreso a salire. Presto il fossile si trovò sott’acqua. Sapevo che l’acqua
avrebbe distrutto tutto quanto era già emerso e che avrebbe prodotto nuova
erosione, scalzando e disintegrando altri distretti ossei. Ero completamente
solo di fronte ad un muro di gomma che faceva rimbalzare le mie sollecitazioni
e non potevo trovare altre strade per il recupero del fossile, essendo
vincolato dal fatto di essere un dipendente della soprintendenza. L’acqua
rimase alta per i tre anni successivi, come è possibile verificare dai dati in
possesso dell’Ente Irrigazione che gestisce il bacino.”
Ma un fatto nuovo interviene a portare l’attenzione sui
resti fossili. Nell’agosto del 2006, un calo sensibile del livello dell’acqua
lascia emergere tantissimi frammenti ossei, i frantumi di quanto era affiorato
del cetaceo sei anni prima, secondo quando ha modo di osservare Gianfranco
Lionetti, intervenuto sul sito il 6 agosto. Lo studioso nota anche la presenza di una
serie di vertebre, alcune delle quali in buona parte erose. Nella zona da lui
non ancora calpestata, osserva delle impronte e comprende che qualcuno aveva
stazionato poco prima presso il fossile. Il giorno stesso, da una telefonata
ricevuta dalla direttrice del Museo Ridola, Gianfranco Lionetti apprende che un
uomo aveva segnalato il rinvenimento di grandi resti fossili, quegli stessi
resti già rinvenuti nel 2000 e già noti alla Soprintendenza. L’artefice della
“riscoperta”, l’agricoltore Vincenzo Ventricelli, dopo aver cercato di
contattare la Soprintendenza ai beni archeologici, denuncia l’accaduto ai carabinieri.
E’ così che, grazie anche alla cassa di risonanza dei media, non solo a livello
locale ma nazionale e internazionale, acquisisce notorietà , a sei anni dalla
sua effettiva scoperta, il cetaceo fossile, ribattezzato “La balena
Giuliana”.
«Sapevamo già da qualche anno che nella zona della diga c’era
quello scheletro” – racconta Antonio De Siena,
direttore del museo archeologico di Metaponto e coordinatore della
Soprintendenza archeologica per gli scavi di Matera in un articolo pubblicato
su “Venerdì di Repubblica” (26 gennaio
2007) . – “Più vertebre erano state segnalate nel
2000 da Gianfranco Lionetti, uno dei nostri assistenti, insieme ai frammenti
di un probabile osso mandibolare”.
La soprintendenza a questo punto si decide a intervenire e tra
il 2007
e il 2011 procede al recupero dei resti fossili.
“ Del cetaceo di San Giuliano - sostiene Gianfranco
Lionetti, nell’articolo precedentemente citato - possediamo solo la parte
centrale dello scheletro, cioè solo una piccola parte della cassa toracica e
parte degli arti anteriori. Le cause che hanno generato questo stato di
conservazione sono di due ordini in quanto attengono al modo in cui l’animale
si è fossilizzato e ai tempi lunghi del suo recupero.
Questi due fattori hanno provocato il degrado di numerosi
distretti ossei. (… ) tutte le ossa craniche sono state polverizzate dal peso
dei sedimenti e dalle condizioni chimico-fisiche in cui si è verificata la
fossilizzazione, quindi non esiste la possibilità di ricomporle, né di
determinare la specie dell’organismo a cui appartenevano.(…) La porzione meglio
rappresentata dello scheletro del nostro cetaceo è costituita dal cinto
scapolare e dagli arti anteriori di cui si conservano le ossa maggiori, cioè le
scapole, gli omeri, le ulne e i radî.”
Verrebbe da pensare, dunque, che i resti del cetaceo per la
loro peculiarità, esiguità e stato di conservazione ( anche quello derivante
dalla sistemazione avuta dopo il recupero dal bacino di San Giuliano )
potrebbero essere valorizzati in uno spazio museale destinato a raccontare e
documentare la storia del territorio materano- come sostiene Gianfranco
Lionetti nell’articolo pubblicato sulla rivista “MATHERA”- , più che essere inquadrati in un progetto
mirante all’esposizione di un unicum, non significativo ( in particolare per
ciò che concerne le dimensioni ) quanto si potrebbe credere. Eppure il cetaceo
fossile del bacino di San Giuliano, in virtù del modo in cui è stato presentato
dai media, è nell’immaginario collettivo “il più grande cetaceo del Pleistocene” e
il suo ritrovamento risalirebbe al 2006 e non al 2000. “Pinocchio ha mangiato
la balena?”
Complimenti a Gianfranco per la professionalità, la passione e la dedizione, e grazie a Giacinta per avercelo fatto conoscere. È sempre bello fare un giretto dalle vostre parti!
RispondiElimina....ed è sempre bello ricevere i tuoi commenti!
RispondiEliminaGrazie!